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  1. Sulle rarissime DOPPIE BARBARESCHE contromarcate dalla zecca di MESSINA https://www.cronacanumismatica.com/sulle-rarissime-doppie-barbaresche-contromarcate-dalla-zecca-di-messina/ L’oro africano “invade” il Mediterraneo e Messina, per un breve periodo, convalida per la circolazione, tramite una contromarca, le doppie barbaresche di Carmelo R. Crupi | Prima della scoperta dell’America, nei secoli XIV e XV la vita economica dei paesi del Mediterraneo è alimentata da numerose miniere d’oro e d’argento europee, però quasi tutte incapaci di mantenere ritmi estrattivi abbastanza alti. L’oro è estratto nelle Alpi, in Sardegna, in Crimea e in Serbia, mentre l’argento proviene dalle rinomate miniere dell’Erzgebirge e da quelle di Schwaz, nel Tirolo, che faranno la potenza economica dei Fugger a partire dal XV secolo. In realtà, la gran parte del biondo metallo che a quel tempo alimenta i mercati del Mediterraneo arriva da fuori dell’Europa, linfa indispensabile ai paesi rivieraschi del Mediterraneo, per sostenere le proprie bilance commerciali, perennemente deficitarie nei confronti dei mercati orientali. Quel fiume d’oro africano che invade l’Europa tra XIV e XV secolo L’oro arriva dal cuore dell’Africa: dal Sudan, dalla Nubia, dall’Abissinia. L’intenso commercio dei paesi mediterranei con l’Oriente è collegato ai movimenti dell’oro che, sotto forma di polvere e di monete, affluisce nei ricchi mercati delle città commerciali del nord Africa. Mappa dell’Africa tratta da Sebastian Munster Cosmographia uniuersalis, Basilea 1554 Non vi è dubbio che, dal X secolo in poi, i più importanti movimenti di risalita transahariani sono quello dell’oro e, in seconda battuta, quello degli schiavi. La magnifica civiltà dei regni musulmani di Spagna dei secoli X e XI testimonia che l’oro del Sudan, della Nubia e dell’Abissinia è arrivato in abbondanza sulle rive africane del Mediterraneo, per poi attraversare lo Stretto di Gibilterra. L’oro africano continua ad arrivare sulle sponde del Mediterraneo, attraverso il Sahara, nei secoli XII e XIII: le fonti musulmane coeve sono concordi nel parlare di una grande ricchezza in metalli preziosi, in dinar aurei, esportata in tutto il mondo ad opera dei mercanti e dei loro intermediari. Certamente i protagonisti di questi traffici sono il cammello e il dromedario, senza i quali le carovane non avrebbero potuto affrontare i lunghi viaggi attraverso il deserto del Sahara. Le fonti narrano di carovane che contano anche più di mille camelidi. L’Africa secondo Abraham Ortelius Theatrum orbis terrarum, Anversa 1584 Dal XIII secolo i paesi musulmani del Maghreb rappresentano la miniera d’oro che alimenta incessantemente il fiorente commercio dei paesi dell’Europa mediterranea col Levante. Il particolare ruolo economico del Maghreb a favore dello sviluppo commerciale dell’Europa mediterranea diventa ancora più evidente nel XV secolo, quando gli stati barbareschi del nord Africa registrano la massiccia presenza di mercanti e mercenari cristiani. Infatti gli stati di Fez, Tlemcen, del Marocco e quello degli Hafsidi di Tunisi erano soliti reclutare soldati nei paesi poveri e già sovrappopolati del mondo mediterraneo di fede cristiana. D’altronde l’obiettivo dei mercanti e degli avventurieri è quello di sempre: accumulare oro, ricchezza, vendendo la propria prestazione, come i mercenari, o commerciando mercanzie di ogni genere in cambio di pagamenti in oro, in polvere o monetato. In tal senso parlano chiaramente i documenti conservati negli archivi di tutt’Europa: i paesi africani rivieraschi del Mediterraneo in quel periodo sono invasi da genovesi, veneziani, marsigliesi, catalani. Una vera e propria migrazione in grande stile, da Nord verso Sud, alla volta delle sponde mediterranee dell’Africa. Esattamente il contrario di ciò che è in atto oggi, ma sempre all’insegna di un sogno, quello di una vita migliore. Dinar aureo coniato dalla zecca di Fez, nell’attuale Marocco, alla metà del XIV secolo Nelle città commerciali dell’Islam mediterraneo i cristiani hanno propri quartieri, fondachi, godono di privilegi e garanzie. Tutte le merci che l’Europa di fede cristiana produce o rivende, affluiscono nelle città commerciali dell’Africa settentrionale, e queste ultime, ovviamente, sperimentano un notevole sviluppo urbanistico. Ecco che le città commerciali del nord Africa diventano ricche e splendide, attraversano un periodo di indipendenza politica e ricordano ciò che era avvenuto in Italia nel XII secolo, con lo sviluppo delle Repubbliche marinare. E’ il caso di Ceuta, Tripoli, Tunisi, Orano, Tlemcen: sono tutte città indipendenti del Maghreb che, in quanto collegamento tra l’Europa cristiana e l’oro dei territori a sud del Sahara, assurgono a fulcro dell’economia internazionale di quel tempo, essenzialmente concentrata nel bacino del Mediterraneo. La singolare vicenda delle doppie barbaresche e la zecca di Messina In questo contesto economico si colloca una singolare vicenda numismatica messinese, che mi appresto a illustrare. I documenti della zecca di Messina della seconda metà del XV secolo, i cui contenuti ci sono stati tramandati da Vicenzo Ruffo nel secondo decennio del secolo scorso, ci dicono che a quel tempo la Sicilia registra una grave carenza di monete in metallo prezioso. Queste, infatti, sono sistematicamente estratte dall’Isola dall’esoso sistema tributario spagnolo, ma anche dall’incessante azione di incetta ed esportazione praticata dai mercanti esteri, soprattutto genovesi. Nell’Isola a quel tempo circolano invece, con relativa abbondanza, le monete auree di coniazione africana, le doppie barbaresche o dinar, del peso di circa 4,7 grammi ed aventi titolo di 21 carati, che riscuotevano scarsa appetibilità presso l’Erario ed i mercanti sia per le legende arabe che le caratterizzavano, incomprensibili, ma soprattutto per il relativamente basso titolo dell’oro. Nel 1489 i paesi dell’Africa settentrionale restano afflitti da una grave carestia, che comporta notevoli importazioni di cereali e frumento dalla vicina Sicilia. I prodotti siciliani sono pagati con doppie barbaresche in oro che si riversano in grandi quantità nell’Isola. Carmelo Trasselli sitma che tra il 1489 e il 1490 arrivino in Sicilia non meno di 1,5 tonnellate di oro fino sotto forma di monete di conio africano. Questo copioso afflusso di monete auree dall’Africa settentrionale innesca, logicamente, una sensibile diminuzione del valore dell’oro e induce il re di Spagna Ferdinando il Cattolico alla riforma monetaria siciliana del 1490, relativa alla coniazione, nella zecca di Messina, di una nuova moneta aurea, il trionfo, pesante 3,52 grammi circa al titolo di 23 carati e ⅞, nonché di nuove monete argentee, l’aquila e la sua metà. Un bell’esemplare di trionfo coniato a Messina da Ferdinando il Cattolico nel periodo 1490-1503 Nel tempo intercorso tra il primo arrivo in quantità delle doppie barbaresche e l’inizio della coniazione dei trionfi, a causa della penuria di monetazione aurea in Sicilia, il vicerè Ferdinando d’Acuna decide di vietare l’estrazione delle monete auree africane dalla Sicilia. A garanzia dei giusti peso e titolo delle doppie barbaresche (africane) è disposto che debbano essere contromarcate nella zecca di Messina con un’aquila cornata sormontata dalla lettera F, iniziale del nome del re Ferdinando. Tutto ciò si desume dal verbale della riunione del Sacro Regio Consiglio di Sicilia presieduto dal vicerè, avvenuta il 22 settembre 1489. A quel punto qualcuno avanza la questione se le doppie barbaresche contromarcate dovessero correre in Sicilia come denaro corrente o se dovessero essere accettate a peso, alla stregua di merce. Il 24 settembre 1489 si riunisce, quindi, nuovamente il Sacro Regio Consiglio, con la partecipazione straordinaria di alcuni “pratici” in materia monetaria, in affiancamento ai consueti alti funzionari e giuristi. Quasi tutti concordano sul valore di scambio delle doppie contromarcate, pari a 29 carlini, ovvero 14 tarì e mezzo di buona moneta d’argento, ma alcuni propongono che le doppie contromarcate si spendano a peso e senza obbligo di accettarle nelle transazioni; i “pratici”, invece, guidati da tale Aloisio Sanchez, che ne importava dall’Africa a decine di migliaia, votano per l’obbligo di accettarle. Al parere del Sanchez si uniformano i banchieri Pietro Aglata e Battista Lambardi, il mercante Ranieri Vernagallo, nonchè un “Criseldus florentinus” esperto di cose monetarie. Un tarì in argento battuto dall’officina monetaria di Messina sotto Ferdinando il Cattolico Il Sacro Regio Consiglio si uniforma al parere dei tecnici nel successivo bando del 3 ottobre 1489: le doppie barbaresche (dette anche “tripoline”) contromarcate in quel di Messina hanno corso legale e devono essere accettate nelle transazioni. Le doppie barbaresche vengono contromarcate a Messina per non più di sei mesi, ovvero, in base a quanto sopra, dal 3 ottobre 1489 fino alla data di coniazione dei primi trionfi, decisa dal Sacro Regio Consiglio del 19 gennaio 1490 ed annunziata con bando del 19 marzo 1490. Certamente, dopo il gennaio 1490 a Messina non si contromarcano più doppie barbaresche, in quanto si devono preparare i conii per la nuova, riformata, monetazione: trionfi d’oro, aquile e mezze aquile d’argento. E’ molto probabile che da quel momento le doppie africane, contromarcate e non, finiscono nei crogiuoli della zecca di Messina, onde ricavare l’oro necessario per coniare i trionfi di Ferdinando il Cattolico, e che quelle poche sopravvissute servano, in futuro, ad apprestare il metallo per gli aurei di Carlo V. Tutto ciò spiega perché oggi le doppie barbaresche contromarcate a Messina siano eccezionalmente rare. Le ricerche dello storico Carmelo Trasselli sulle doppie contromarcate Carmelo Trasselli (1910-1982) è stato il primo storico ad eseguire ricerche su questa interessante contromarca messinese e narra come, nel 1959, avesse interpellato alcuni collezionisti, e come, addirittura, si fosse spinto fino a Tunisi per chiedere informazioni ad un anziano orefice francese, che aveva fama di essere stato uno dei fornitori di monete per Vittorio Emanuele III. Purtroppo nessuno sembrava conoscere le doppie barbaresche contromarcate a Messina. Soltanto il cavalier Cusumano, palermitano, gli confida di aver acquistato, anni prima, una moneta simile a quella da lui descritta, da alcuni pescatori che l’avevano ritrovata in una rete da pesca e che, poi, l’aveva rivenduta. Sempre Trasselli nota che nel 1963 si aveva notizia di due soli esemplari di doppia barbaresca contromarcata a Messina: uno posto in vendita nel 1932 in un catalogo della ditta Baranowsky di Roma, al n. 3517, con l’errata attribuzione a Federico II di Svevia, e un secondo esemplare esitato all’asta Santamaria di Roma tenutasi nel maggio 1961, lotto n. 347, correttamente descritta ed identificata. Per la cronaca, l’esemplare dell’asta Santamaria venne acquistato dalla Fondazione Ignazio Mormino del Banco di Sicilia, ed ancora oggi ne costituisce uno dei nummi più pregiati. Lo storico Carmelo Trasselli ha affrontato in molte sue ricerche aspetti di storia economica e monetaria della Sicilia e del Meridione Lucia Travaini ci fa sapere che una doppia tripolina contromarcata a Messina è stata esitato da Classical Numismatic Group n. 57 del 4 aprile 2001, lotto 1587 e che lo stesso esemplare è illustrato da Pierluigi Martorana Genuardi di Molinazzo ne La monetazione aurea in Sicilia dal periodo punico al Regno d’Italia (P.M.G., Palermo, 2007) e da Danilo Maucieri ne Il pierreale di Pietro III d’Aragona. Nascita ed evoluzione di una moneta nella Sicilia aragonese (1282-1476) (Quaderni di Cronaca Numismatica, giugno e luglio-agosto 2008). Recentemente un esemplare di doppia tripolina contromarcata a Messina nel 1489 è passato tre volte, in poco più di due anni, in asta pubblica: (1) asta Bertolami n. 19 del 11.11.2015, lotto 840, base 6400,00 euro, aggiudicato ad Euro 39.040 euro inclusi diritti del 22%; (2) asta Bertolami n.41 del 20.01.2018, lotto 155, base 6000,00 euro, aggiudicato ad euro 7260,00 inclusi diritti del 21%; (3) asta Artemide n. 51 dell’aprile 2019, lotto 484 (peso 4,67 g), base 6000 euro, aggiudicato ad euro 10.620 inclusi diritti del 18% (sarebbe interessante accertare se trattasi dello stesso pezzo dell’asta CNG 57 del 4 aprile 2001, lotto 1587). Il rarissimo esemplare di doppia contromarcata a Messina passata in Asta Artemide nel 2019 (ex Aste Bertolami 19/2015 e 41/2018) Si conosce anche una mezza doppia con la medesima contromarca messinese del 1489-90, menzionata da Miquel Crusafont i Sabater nel Cataleg generale de la moneda catalana. Paisos catalans i Corona catalano-aragonesa, Societat Catalana d’estudis numismatics, Institut d’estudis catalans, Barcelona 2009 e una seconda mezza dobla contromarcata sarebbe passata in asta Varesi 57 del 2010, lotto 619 (grammi 2,28). Il nummo contromarcato a Messina passato in Asta Varesi 57 nell’anno 2010 Dal confronto delle due monete africane con contromarca illustrate nelle foto che precedono, sul presupposto che entrambi i nummi abbiano ricevuto una contromarca avente le stesse dimensioni (ipotesi dell’unicità del tipo del conio approntato per la contromarcatura nella zecca di Messina) sembra plausibile che il nummo passato in asta Varesi sia non già una mezza doppia barbaresca, bensì una doppia pesantemente tosata. Il presupposto alla base di questo ragionamento, ovviamente, non è dimostrabile, pur essendo plausibile tenuto conto del brevissimo periodo temporale in cui, come visto, queste monete di conio africano furono contromarcate sulla riva sicula dello Stretto. Bibliografia essenziale Fernand Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo, vol. II, Einaudi, Torino 1976. Philip Grierson e Lucia Travaini, Medieval European Coinage. 14, South Italy, Cambridge (UK), 1986. Pierluigi Martorana Genuardi di Molinazzo, La monetazione aurea in Sicilia dal periodo punico al Regno d’Italia, P.M.G., Palermo 2007. Danilo Maucieri, Il pierreale di Pietro III d’Aragona. Nascita ed evoluzione di una moneta nella Sicilia aragonese (1282-1476), in Quaderni di Cronaca Numismatica, giugno e luglio-agosto, Firenze 2008. Vincenzo Ruffo, La Regia zecca di Messina da documenti inediti, in Archivio Storico Siciliano, Palermo 1913 ed anni seguenti. Carol Humphrey Vivian Sutherland, L’oro. Bellezza, seduzione, potenza, Mondadori, Milano 1961. Carmelo Trasselli, Per la cronologia delle coniazioni siciliane di Ferdinando il Cattolico, in Bollettino del Circolo Numismatico Napoletano, numero unico, Napoli 1958. (idem), Un aureo barbaresco ribattuto in Sicilia, in Numismatica, I, Roma 1963. (idem), Note per la storia dei banchi in Sicilia nel XV secolo, Fondazione Mormino del Banco di Sicilia, Palermo 1959. Lucia Travaini (a cura di), Le collezioni della Fondazione Banco di Sicilia. Le monete, Milano 2013. Pierre Vilar, Oro e moneta nella storia 1450-1920, Laterza, Bari 1971.
  2. Buongiorno a tutti, allego immagine di una monetina da 3 Piccioli, per la quale chiedo conferma trattarsi di emissione per Filippo II ed inoltre evidenzio la particolarità al R:/ delle due lettere i (II) in alto a sinistra rispetto alla cifra "3" del valore. Soprattutto questa particolarità mi rende difficoltosa l'esatta classificazione. Grazie a chiunque vorrà intervenire. Ad maiora. Peso: 1,43 grammi Ø massimo: 15 millimetri
  3. Chiedo aiuto. In un lotto regno di Sicilia con pezzi da Tancredi a Federico III. 0,54g d* 0.85cm croce che divide la legenda a metà, al dritto ci vedo la testa di un elefante Napoli? Brindisi? Francia? Aiuto, è stato un mese difficile provando a capire 😕
  4. Nuovo di questa monetazione mi piacerebbe sapere l'opinione dai più esperti di questo 4 Tarì Filippo IV per Messina 1664? si vede solo la stanghetta incrociata bassa del 4 finale.... Peso g.10,48 Diametro mm.28 irregolare Grazie F.
  5. Buongiorno a tutti, mi è capitato tra le mani il seguente mezzo tarì di Carlo V, al D/ + CAR * IMPERATO al R/ + • D • G • REX • SICILIE • quello che mi incuriosisce è che è stato catalogato come MIR 279 dal battitore ma la legenda non mi torna. Confrontando le monete su Numismatica Italiana, che mi sembra dettagliata per il periodo, mi pare che si possa attribuire alla seguente tipologia nella versione con aquila a destra (SPAHR 66A) https://numismatica-italiana.lamoneta.it/moneta/W-C5C/1 ma se controllo la legenda mi verrebbe da assegnarla alla tipologia successiva : W-C5C/19-8 in https://numismatica-italiana.lamoneta.it/moneta/W-C5C/19 Voi sapete dirmi di più? Grazie mille!
  6. Salve a tutti. Quest’oggi vorrei concentrarmi sulla presentazione di un paio di piccole monetine in mistura emesse in Italia meridionale durante i primi anni di regno di Carlo I d’Angiò come Re di Sicilia (1266-1282). Mi riferisco a: 1. D/ + K DEI GRACIA. Giglio fiorentino tra due globetti. R/ + REX SICILIE. Croce patente con quadrato nel mezzo, accantonata da quattro stelle a sei punte. Denaro in mistura databile al primo periodo (1266-1278) di zecca incerta tra Brindisi o Messina. Cfr. R. SPAHR, Le monete siciliane dai Bizantini a Carlo I d’Angiò (582-1282), vol. I, Zurich-Graz 1976, p. 230, n° 25 e MEC 14, p. 674, n° 632. Fig. 1 (ex LAC, auction D, n° 310). 2. D/ + K DEI GRA REX SICIL. Croce patente accantonata da quattro gigli. R/ + DVCAT APVL PRIC CAPVE. Giglio fiorentino con due globetti sottostanti. Denaro in mistura databile al primo periodo (1266-1278) della zecca di Messina. Cfr. SPAHR, Op. cit., manca e MEC 14, p. 676, n° 656-658/658A. Di questo stesso tipo esistono anche dei multipli di denaro (per questa dicitura e per il suo utilizzo in questo caso specifico si rimanda a MEC 14, p. 201) classificati in MEC 14, p. 676, n° 654-655. Fig. 2 (ex Ranieri 4, n° 667). Cosa hanno di così particolare queste due tipologie monetarie angioine del Sud Italia all’apparenza piuttosto “banali” e neanche troppo rare? Già lo Spahr, in una nota che accompagnava la descrizione della moneta qui riportata al n° 1, asseriva precisamente: «Questo denaro fu coniato nel 1267 quando Carlo ottenne la signoria di Firenze». Non a caso, infatti, l’interesse di un attento osservatore si focalizzerà necessariamente sul particolare araldico rappresentato dal giglio, elemento iconografico che unisce entrambe le tipologie oggetto di questa discussione. Il giglio, da sempre emblema della monarchia francese e della dinastia angioina (fig. 3), non deve essere confuso, in questo caso, con quello fiorentino (fig. 4), da cui si differenzia in primis per la mancanza dei pistilli laterali. Fig. 3: Stemma angioino. Fig. 4: Stemma fiorentino. Se ne deduce, quindi, che su questi denari di Carlo I d’Angiò sia effigiato un giglio fiorentino e non il consueto fiordaliso francese. Ma perché? Cosa centra l’Angioino con Firenze e come spiegare questo inconsueto richiamo su delle monete che forse non circolarono mai in Toscana? Cercherò di contestualizzare, di seguito, tali emissioni (per una prima analisi della monetazione in mistura di Carlo I nel Mezzogiorno italiano si rimanda a MEC 14, pp. 201 ss. con relativa bibliografia precedente). Tutto ebbe inizio verso la metà del XIII secolo, quando il Papato, nella persona di Innocenzo IV (1243-1254) si sentiva gravemente minacciato dall’ormai annosa questione dell’unificazione de facto delle corone del Regno di Sicilia e dell’Impero germanico sotto la dinastia sveva. Corrado I (1250-1254), nel 1252, aveva chiesto al Pontefice di poter unire ufficialmente i due poteri sotto un unico scettro, concentrando il dominio di una vasta compagine territoriale nelle sue mani. Lo Stato della Chiesa ne sarebbe risultato pericolosamente accerchiato ed Innocenzo IV non poteva permettersi di correre tale rischio. Pensò bene, quindi, di avviare delle trattative per scegliere un nuovo sovrano che prendesse il posto di Corrado I. Già a partire dal maggio del 1253 il Papa si mise in contatto con Carlo d’Angiò, inserendolo in una più larga cerchia di candidati. Il giovane rampollo francese non costituiva per Innocenzo la prima scelta, ma rimaneva di fatto il più ambizioso e predisposto per affrontare una simile impresa. Le trattative, però, fallirono e la morte sia del Papa che del Re svevo lasciarono il ruolo di Carlo ancora marginale per la politica italiana, anche perché in quegli stessi anni la Provenza stava attirando quasi tutte le sue attenzioni con rivolte continue difficilmente controllabili. Tuttavia i successori di Innocenzo IV non desistettero dal loro intento: sebbene Carlo penetrò in Italia già nel 1259, nel 1262 lo ritroveremo nuovamente in Provenza alle prese con l’ennesimo atto di ostilità verso il suo potere in quella regione. I continui tumulti provenzali riuscivano a tenere occupato l’Angioino abbastanza da stornarlo dalle sue mire italiane: i rivoltosi francesi, infatti, erano appoggiati, neanche tanto segretamente, dagli Aragonesi: l’Infante Pietro, futuro sovrano (1276-1285), terzo con questo nome, aveva infatti preso in moglie Costanza II, figlia del Re di Sicilia Manfredi di Svevia (1258-1266). Quest’ultimo era osteggiato dal Papato e presto si sarebbe trovato a fare i conti con le lance angioine. Con l’incoronazione di Urbano IV (1261-1264), originario di Troyes, iniziò un periodo felice per le ambizioni di Carlo e, nel contempo, segnò l’inizio della fine per la dominazione sveva in Italia meridionale. Le trattative, questa volta, furono così lunghe che si conclusero solo con il francese Clemente IV (1265-1268), successore di Papa Urbano. Il 6 gennaio del 1266 Carlo d’Angiò fu incoronato Re di Sicilia a Roma, nel Laterano, e già il 20 gennaio era in marcia verso Sud per combattere contro Manfredi, il quale, spinto da una rivolta dei Capuani, stava cercando di raggiungere la Puglia, le cui città si erano dimostrate molto più leali verso gli Svevi. Ma il 26 febbraio del 1266, in una località poco lontana da Benevento, le truppe francesi sbaragliarono quelle di Manfredi, il quale perse la vita sul campo di battaglia. Nonostante la netta vittoria di Carlo d’Angiò, questi non poteva ancora dedicarsi tranquillamente alla riorganizzazione amministrativa del Regno: numerose sacche di resistenza erano presenti su tutto il territorio, il quale richiese una conquista più “meticolosa” del previsto. Inoltre, i fuoriusciti ancora fedeli alla causa sveva si stavano riorganizzando in altre parti d’Italia per sferrare un nuovo attacco all’Angioino. Per questo motivo, i primi anni di regno di Carlo, tra il 1266 ed il 1268, furono da lui dedicati al consolidamento della sua posizione politica prima al di fuori dei confini regnicoli. I Ghibellini, in Italia settentrionale ed in particolare in Toscana, capeggiati da Guido Novello, avevano unito le proprie forze con quelle dei sostenitori svevi con la speranza di riuscire a contrastare il partito avverso dei Guelfi, i quali, al contrario, chiamarono in loro aiuto le truppe di Carlo I. Già all’indomani della vittoria angioina a Benevento si era verificato l’allontanamento da Firenze del Novello, nel novembre del 1266, ma i loro piani non vennero messi in discussione: in risposta alla cacciata operata da Carlo di tutti i mercanti senesi e pisani dal Regno di Sicilia, i Ghibellini ed il partito filo-svevo, nel marzo del 1267, gli opposero Corrado II, comunemente noto come Corradino, che era stato già Re di Sicilia dal 1254 al 1258. Egli era l’ultimo rappresentante vivente della dinastia sveva degli Hohenstaufen ed in quel tempo si trovava in Germania (1254-1268). Il trono siciliano di Carlo, appena conquistato con la forza e l’appoggio papale, si trovava ora in grave pericolo: Corrado II poteva contare sull’appoggio di un esercito più numeroso e meglio rifornito del suo, i cui ranghi potevano avvantaggiarsi dell’ausilio portato loro dai dissidenti italiani. La situazione richiedeva un intervento immediato: Carlo in persona, al comando del suo esercito, si mise in marcia verso Settentrione (aprile 1267), riuscendo ad entrare in Firenze il 17 aprile 1267. Nella città, egli ricoprì la carica di podestà almeno fino al 1273, favorendo senza troppi scrupoli la fazione guelfa. Nonostante l’azione di Carlo coinvolse, quasi sempre con esito positivo, gran parte della Toscana, Siena e Pisa continuavano a resistergli, anzi, costituirono delle ottime roccaforti per la conduzione della lotta filo-sveva. Ben presto, anche Clemente IV si affrettò a legittimare la posizione dell’Angioino a Firenze, nominandolo «pacificatore», senza opporsi alla sua autoproclamazione a vicario imperiale per la Toscana. Probabilmente, come credette lo Spahr, i denari ed i presunti multipli sopra elencati ricorderebbero proprio le felici gesta fiorentine di Carlo I da lui compiute nel corso del 1267. Corradino, nell’agosto di quello stesso anno, lasciò Augusta con l’intenzione di scendere in Italia ed affrontare Carlo d’Angiò sul campo. Contemporaneamente, gli Arabi di Tunisi, amici ed alleati degli Svevi grazie all’antica politica conciliatrice condotta a suo tempo da Federico II, organizzarono una spedizione navale contro la Sicilia, mettendo l’isola a ferro e fuoco. Gli Angioini si trovarono, così, accerchiati su due fronti. Mentre i Tunisini imperversavano in Sicilia, la colonia saracena di Lucera, da sempre fedele a Federico II e ai suoi discendenti, si sollevò (febbraio 1268), estendendo la rivolta a tutta la Puglia. Carlo, che aveva provato a bloccare la discesa di Corradino al Nord, fu costretto a lasciare Firenze per sedare i disordini nati all’interno del suo Regno: nonostante l’arrivo del Re e il conseguente assedio da lui portato senza successo a Lucera, la ribellione si propagò ulteriormente raggiungendo anche la Calabria. Ora, sia Carlo che Corrado II erano in cerca dello scontro definitivo per il possesso del Regno di Sicilia. La battaglia si registrò il 23 agosto 1268 in una località distante appena una decina di chilometri da Tagliacozzo: nonostante l’iniziale successo di Corradino, l’esperienza militare di Carlo I fu ripagata con la vittoria definitiva. Il destino riservato allo Svevo è tristemente noto: solo dopo la sua morte Carlo poté riorganizzare in tutta tranquillità i suoi nuovi possedimenti italiani. Ma l’Angioino conservò ancora per qualche tempo i suoi diritti sulla Toscana ed in particolare su Firenze, di cui era ancora podestà e vicario imperiale. Mentre il primo titolo fu perduto, come abbiamo visto, nel 1273, il secondo gli fu rinnovato da Innocenzo V nel 1276. Fu, infine, con l’intervento di Papa Niccolò III (1277-1280) che il vicariato non gli fu più concesso a partire dal 1278. A cominciare da quell’anno, l’influenza esercitata fino ad allora da Carlo I sulla Toscana e sugli altri centri dell’Italia settentrionale iniziò gradualmente a declinare, fino a sfuggirgli del tutto in favore di una politica filo-papale. La floridezza registrata nella Firenze della seconda metà del XIII secolo fu opera, soprattutto, dell’intervento carolino, che incentivò lo sviluppo di contatti diplomatici ed economici tra la città, il Regno siciliano, la Roma pontificia e la Francia, suo Paese d’origine.
  7. Ho trovato una moneta in bronzo a Monforte San Giorgio (ME), qualcuno mi aiuterebbe a identificarla?
  8. Buona sera a tutti voi, È da un po' che non posto nulla, ma continuo a seguire questa bellissima sezione. Stasera vorrei condividere la prima moneta Siciliana che entra in collezione, si tratta di un 4 tarì di Filippo IV del 1645. Non sono ancora "esperto" , quindi chiedo a chi ne sa qualcosa in più , un parere! Vi ringrazio, Filippo
  9. Secondo voi questo è un Denaro o Mezzo Denaro Federico II per Messina? 82 MIR o 109 MIR ? Peso gr.0,47 Inoltre ci sono tre cerchietti "strani" uno sulla testa dell'aquila e due ai lati della X di REX che in altre monete non ho visto, a parte quello sulla testa dell'aquila. Cosa pensate? Grazie F. Se servono foto più chiare le posto.
  10. Salve a tutti. Quest’oggi volevo approfondire un tema storico, forse ultimamente messo un po’ da parte, che riguarda molto da vicino la politica espansionistica di Carlo I d’Angiò (1282 – 1285, come Re di Napoli). Carlo I era di stirpe reale: era infatti figlio del Re di Francia Luigi VIII, mentre suo fratello sarà il futuro San Luigi IX. I suoi rapporti con l’Oriente erano già molto vivi ancor prima di arrivare ad impossessarsi della corona napoletana: nel 1248, infatti, Carlo, con i titoli di Conte d’Angiò, del Maine, di Provenza e Forcalquier, accompagnò suo fratello, il Re Luigi IX, durante la Settima Crociata, in Egitto, governato all’epoca dalla dinastia araba degli Ayyubidi. Questi ultimi, nel 1245, l’anno prima che Carlo fosse elevato a Conte d’Angiò, avevano conquistato Gerusalemme con i suoi luoghi santi, all’epoca ancora oggetto di numerose contese tra mondo cristiano e mondo musulmano. Il loro potere, poi, si era esteso anche in Egitto, costituendo un serio pericolo per le potenze europee che si affacciavano sul Mediterraneo. Inoltre, questa occasione offriva un ottimo pretesto per ritornare in Oriente e ritagliarsi dei possedimenti personali da assoggettare a dinastie cosiddette franche. Dopo un breve scalo a Cipro, tappa obbligatoria per le flotte che dall’Europa si dirigevano in Oriente, Carlo raggiunse l’Egitto nel 1249, partecipando alla vittoriosa conquista di Damietta. Nel febbraio del 1250, però, fu protagonista, insieme al fratello Luigi e ad altri membri della famiglia reale francese, della disastrosa disfatta di Mansura, a seguito della quale sia Luigi IX che Carlo stesso furono annoverati tra i prigionieri dei musulmani, diventando così molto più preziosi per i nemici di ogni possibile bottino di guerra. Infatti, dopo una breve prigionia, sia il Re di Francia che suo fratello Carlo d’Angiò furono rilasciati dietro pagamento di un pesante riscatto. Carlo decise che la sua avventura crociata nei territori dell’Outremer poteva dirsi conclusa: nel 1251 fece ritorno in Francia, anche a seguito di alcune rivolte che si stavano sviluppando nei suoi territori. Negli anni seguenti, Carlo si dedicò agli sviluppi politici della Francia e degli altri Stati limitrofi, intromettendosi in varie questioni ereditarie da cui uscì spesso con il raggiungimento di un proprio tornaconto personale. Non trascorse però molto tempo che Carlo fu invischiato negli affari italiani: nel 1261 era stato eletto al soglio pontificio Papa Urbano IV che era di origini francesi. La situazione politica in Italia non era delle migliori: Manfredi di Svevia, Re di Sicilia, ambiva a conquistare l’Italia intera, il che equivaleva ad una minaccia seria e preoccupante per il pontefice, il quale tentò di ingraziarsi il sovrano svevo intraprendendo la via diplomatica che, ahimè, non portò a nulla di concreto. Così, Urbano IV reagì pesantemente scomunicando Manfredi, il che comportava la perdita di ogni diritto sul trono di Sicilia. Il Regno dell’Italia Meridionale, per antiche norme di diritto feudale, ritornava nelle mani del Papa che ne disponeva al meglio. In questo caso, Urbano decise di affidarne la corona a Carlo d’Angiò, forse con lo scopo di favorire la casata reale della sua terra d’origine. Mentre Carlo si recava a Roma per essere insignito del titolo di Senatore, Urbano IV morì di lì a poco nel 1264. Gli successe Clemente IV che continuò la politica anti-sveva del suo predecessore: egli accolse Carlo con il suo seguito nel 1265 e lo incoronò a Roma Re di Sicilia. Manfredi, intanto si organizzò per l’imminente scontro, poiché non aveva nessuna intenzione di rinunciare ai suoi diritti sul trono siciliano, nonostante fosse ormai ufficialmente decaduto. Da questo momento in avanti, è risaputo cosa avvenne e come Carlo conquistò la corona dell’Italia Meridionale: il suo esercito, forte di quasi 30.000 uomini provenienti dalla Francia, supportato dai Baroni che si erano ribellati a Manfredi, sbaragliò le forze sveve sul fiume Calore nei pressi di Benevento. Era il 26 febbraio 1266 il giorno esatto in cui lo Stato più esteso della penisola italiana assistette all’ultimo bagliore della gloriosa casata sveva e, nello stesso istante, all’ascesa di un nuovo padrone, la cui discendenza, tra bene e male, contribuì allo sviluppo della parte continentale del Regno impegnandosi con uno sforzo senza precedenti. Fu proprio con Carlo I che Napoli fu scelta come capitale del Regno, soprattutto dopo che, con la rivolta dei Vespri Siciliani, la parte insulare dei suoi nuovi possedimenti si era ribellata, scacciando i Francesi visti come despoti votati al sopruso. Ed in effetti la politica di Carlo I, ancor prima di diventare Re, era stata sempre molto dura e, a tratti, dispotica: nel riorganizzare l’assetto amministrativo del Regno appena conquistato con le armi, il sovrano angioino tolse molte delle antiche prerogative alla nobiltà locale per affidarle invece a membri più o meno illustri provenienti da altre parti d’Italia e d’Europa, favorendo con un occhio di riguardo i mercanti ed i banchieri toscani. Il Regno non fu però pacificato del tutto prima del 1268, anno in cui Carlo sconfisse a Tagliacozzo le ultime truppe rimaste fedeli agli Hohenstaufen nella persona di Corradino, nipote di Manfredi. Con la sconfitta e la decapitazione di Corradino a Napoli, Carlo d’Angiò divenne ancor più ferreo nel suo governo: portò alla rovina molti nobili locali per poi sostituirli con i più fedeli tra i Baroni francesi. Gli Svevi, poi, a differenza degli Angioini, avevano sempre mantenuto ottime relazioni pacifiche con gli Arabi, il che aveva scatenato l’ira di più di un pontefice. Con l’avvento di Carlo I a Napoli le cose cambiarono e fu in questo momento che il Nostro, dopo aver assicurato la stabilità nei suoi nuovi territori, pose rinnovata curiosità verso l’Oriente. Luigi IX, nonostante l’esito estremamente negativo registrato alla fine della Settima Crociata, spinto dalle sue convinzioni religiose e da una fedeltà al Papa quasi fanatica, era già pronto ad intraprendere quella spedizione, questa volta contro la Tunisi del califfo al-Mustansir, che sarebbe passata alla storia come Ottava Crociata. Ed anche questa volta il buon Carlo vi partecipò: i motivi della sua partecipazione, poco entusiasta a causa forse della prigionia subita verso la metà del XIII secolo in Egitto, si devono probabilmente ricercare nel fatto che, da Tunisi, al-Mustansir, vecchio alleato di Manfredi e quindi nemico del nuovo Re Carlo, poteva tenere sotto scacco sia la Sicilia che il Regno di Napoli. Carlo era quindi molto più pragmatico di suo fratello e riuscì a intravedere ottime opportunità per il suo Regno accodandosi alla farsa della Crociata. Infatti, morto nel 1270 Luigi IX per una violenta forma di dissenteria, Carlo, come parente più prossimo, assunse il comando della Crociata che si trasformò più in una guerra personale: alla fine, in quello stesso anno, il sovrano Angioino stipulò un nuovo trattato con il califfo e, ottenuti i rimborsi delle indennità di guerra da parte del nemico, rientrò in Sicilia quello stesso anno. Ma i progetti che più attanagliavano la mente di Carlo I si manifestarono già prima dell’Ottava Crociata. Alleandosi con l’Imperatore latino di Costantinopoli Baldovino II, ormai in esilio, attraverso un’oculata politica matrimoniale (fece infatti sposare sua figlia Beatrice con il figlio di Baldovino nonché suo successore, Filippo di Courtenay), l’Angioino mirava alla conquista graduale del trono costantinopolitano. Questa sua sete di conquiste dovette sfogarsi al di là dei confini nazionali, poiché in Italia non poteva unificare gli altri territori della penisola, rischiando altrimenti di incorrere nell’ira del Papa, rischiando di fare la stessa fine dello scomunicato Manfredi. I regni orientali, invece, facevano ancora gola ai sovrani occidentali, poiché ancora floridi e ricchi, nonostante l’epoca d’oro delle Crociate era finita da un po’. Alla riconquista latina di Costantinopoli e del suo ricco Impero volle partecipare anche il Principe d’Acaia Guglielmo II di Villehardouin, il quale diede in sposa sua figlia ed erede Isabella al figlio di Carlo, Filippo. Questi divenne Principe d’Acaia a partire dal 1278, quando Guglielmo II morì e Isabella entrò in possesso dei territori paterni come prevedevano gli accordi. Da questo momento in poi, l’Acaia spetterà di diritto agli Angioini. Un primo passo, quindi, per l’espansione angioina in Oriente era già stato compiuto. Attraverso questa politica matrimoniale, Carlo I poteva muovere i fili del potere anche all’estero, senza però essere coinvolto in prima persona, mantenendo apparentemente il controllo del solo Regno di Napoli, di cui era sovrano titolare. Nonostante la conquista di Costantinopoli sembrava per Carlo a un passo dalla realizzazione, i suoi piani furono bloccati a causa dell’alleanza religiosa che Michele VIII Paleologo, Imperatore di Bisanzio, strinse con il nuovo Papa Gregorio X, il che portò ad un arresto temporaneo della campagna intrapresa da Carlo I contro i Bizantini. La situazione precipitò con lo scoppio dei Vespri Siciliani del 1282 che costrinsero il sovrano ad abbandonare l’Albania e a tornare in Sicilia per sedare la rivolta. Mentre era ancora in corso la progettata conquista di Costantinopoli, Carlo non mancò di andare oltre Bisanzio e di mirare ancora più lontano, ovvero alla stessa capitale di quello che era stato il Regno latino omonimo più importante creato dopo la fine della Prima Crociata nel 1099: Gerusalemme. Dopo la morte di Corradino, nel 1268, che era titolare del Regno di Gerusalemme, i diritti al trono di un Regno che era solo l’ombra di quello che era stato in passato furono contesi da varie casate occidentali, tra questi la spuntò alla fine quella dei Lusignano di Cipro. Alla fine del XIII secolo, quando ormai la riscossa musulmana aveva portato all’annientamento uno dopo l’altro di tutti gli Stati che i Crociati avevano fondato in Outremer, il titolo di Re di Gerusalemme, ridotto ad una pura formalità, era stato rivendicato però anche da altre famiglie. Tra queste spiccava la dinastia dei Principi di Antiochia nella persona di Maria, figlia di Boemondo VI, ultimo Principe effettivo di questo Stato crociato. Ella vantava diritti dinastici sul trono di Gerusalemme: infatti, per via paterna, era discendente del Re Baldovino II, in quanto la figlia di questi, Alice, aveva sposato Boemondo II d’Antiochia, antenato in linea diretta di suo padre. Suo nipote, Ugo III di Lusignano, riuscì però ad impadronirsi del titolo, lasciando a mani vuote Maria d’Antiochia, la quale, nel 1277, vedendosi sconfitta, vendette i suoi diritti sul trono gerosolimitano proprio all’ambizioso Carlo I d’Angiò. Da questa acquisizione non furono ricavati però nuovi territori in Oriente per la Corona angioina: molte città costiere che erano sopravvissute agli attacchi dei musulmani avevano giurato fedeltà ad Ugo III. Un tentativo fu comunque intrapreso da Re Carlo per far valere i suoi diritti appena comprati: nel giugno di quello stesso anno 1277 una flotta siciliana comandata da Ruggero Sanseverino approdò nel porto di San Giovanni d’Acri, ultima fortezza rimasta in mani cristiane lungo la costa siro-palestinese (cadrà poi solo nel 1291), chiedendo udienza al comandante della piazzaforte, il Gran Maestro dell’Ordine cavalleresco degli Ospitalieri. Ruggero, con abili mosse diplomatiche, riuscì alla fine di una lunga trattativa a convincere l’Ordine che controllava la città a riconoscere Carlo come legittimo Re di Gerusalemme. Questo fu l’unico successo registrato dall’Angioino a seguito dell’acquisizione del titolo orientale. Proprio per rendere esplicito tale traguardo, nello stemma araldico degli Angioini di Napoli figurò la croce potenziata di Gerusalemme (fig. 1). Fig. 1: Arme di Carlo I d'Angiò dopo il 1277. Di Heralder - Own work, elements by Sodacan & Katepanomegas, CC BY-SA 3.0. Un evento così importante per la storia degli Angioini sovrani di Napoli non poteva non essere commemorato anche con un’apposita serie monetale. In politica economica, almeno in Sicilia e nelle zecche minori dell’Italia Meridionale continentale, Carlo I seguì senza particolari modifiche il sistema monetario svevo, continuando a curare, nel caso di nostro interesse, l’emissione di denari in mistura (che in realtà erano ridotti ad una lega di rame quasi puro). La serie, che ora vedremo, si compone di soli due nominali: il doppio denaro, molto raro, ed il denaro. Entrambi i nominali furono coniati a Messina nel 1278, quindi pochi anni prima della rivolta dei Vespri Siciliani e l’anno successivo all’acquisto del titolo gerosolimitano da Maria d’Antiochia. Forse, prima di rendere la cosa ufficiale, Carlo attese il buon esito della spedizione di Ruggero a San Giovanni d’Acri per assicurarsi che almeno una tra le più importanti città latine d’Oriente l’avesse riconosciuto come sovrano. Questa serie che celebra l’investitura del Re a sovrano titolare di Gerusalemme è una delle poche, se non l’unica, nel vasto panorama dei denari angioini, che si può datare con precisione ed attribuire ad una zecca. Nello stesso anno 1278, Carlo I, su modello di quanto già fatto in Francia da suo fratello Luigi IX, con una riforma monetaria, chiuse tutte le altre zecche regnicole e impose la coniazione del circolante nella sola capitale Napoli. 1. D/ + KAROL • IERVSALEM Croce ornata con globetti alle estremità di ogni braccio, racchiusa in doppio circolo perlinato. R/ + ET • SICILIE • REX Giglio a tutto campo, circondato da tre globetti e racchiuso in doppio circolo perlinato. SPAHR 1976, p. 236, n° 55 (illustrato alla tav. XXVIII). Doppio denaro in mistura (dati ponderali indicati in Spahr: 1,33 g. – 19 mm.). Rarità: RR – RRR. Fig. 2. Fig. 2. Doppio denaro dal peso di un grammo. Ex Artemide XLVI, lotto 548. 2. D/ + KAROL • IERVSALEM Croce ornata con globetti alle estremità di ogni braccio, racchiusa in circolo perlinato. R/ + ET • SICILIE • REX Giglio a tutto campo, circondato da tre globetti e racchiuso in circolo perlinato. SPAHR 1976, p. 236, n° 56. Denaro in mistura (dati ponderali indicati in Spahr: 0,60 g. – 16 mm.). Rarità: C. Fig. 3. Fig. 3. Denaro dal peso di 0,96 g. Ex Artemide XLVI, lotto 549. Letture consigliate per approfondire: · BENIGNO Francesco - GIARRIZZO Giuseppe, Storia della Sicilia, vol. 3, ed. Laterza, Roma-Bari, 1999. · FROUSSARD Giovanni Battista, Osservazioni sulla Storia ed intorno a Pietro Giannone ed a Carlo I d’Angiò, Ducale Tipografia Bertini, Lucca, 1833. · LÉONARD Émile G., Les Angevins de Naples, Presses Universitaires de France, Paris, 1954. · SPHAR Rodolfo, Le monete siciliane dai Bizantini a Carlo I d’Angiò (582 – 1282), Zurich – Graz, 1976. · TRAMONTANA Salvatore, Il Mezzogiorno medievale, Carocci, Roma, 2000. P.S.: Perdonate il tedio e buona lettura!
  11. Buon giorno a tutti. Nonostante scriva molto raramente, causa impegni sul lavoro e la classica fase della vita in cui si fanno 50 concorsi, 90 domande e 200 ricorsi, vi leggo con piacere e continuo a portare avanti la mia collezioncina di siciliane. Vi presento l'ultimo acquisto: preso un pò avventurosamente su ebay a 360 euro. Si tratta di un pierreale di Pietro Secondo D'aragona, moneta abbastanza rara anche se non rarissima, il cui acquisto è generalmente un terno al lotto. Il suo valore nelle aste, oscilla veramente tanto, per cui credo di averla grossomodo presa al valore di mercato, ma a riguardo gradirei il vostro parere. Il peso è di 3.1 grammi, perfettamente leggibile, centrata e con una bella patina, anche se presenta usura da circolazione abbastanza accentuata. Come grading sono indeciso tra il MB/ BB ed il qBB. la buona fattura della moneta mi porterebbe a propendere per il qBB. Le foto sono di bassa qualità, sono quelle del venditore ed io al momento non ho tempo per migliorarle. Spero siano sufficienti per una valutazione di massima
  12. Cari tutti, condivido con voi un follaro con la vergine, coniata a messina sotto il regno di Guglielmo I la moneta presenta, rispetto alla norma, un peso eccezionale, arrivando fino a 2.50 grammi, quanto la maggior parte degli esemplari si ferma a 1.5 -1.6 grammi. In molti testi consultati nessun peso al di sopra dei 2 grammi sembrerebbe riportato. La differenza con gli altri esemplari che ho in collezione sta fondamentalmente nello spessore, molto maggiore in questo, rispetto alla norma. Cosa dite, aggiungo alle immagini del catalogo?
  13. Carissimi, vi allego le immagini di un bel denaro di carlo d'Angiò con ritratto, passato di recente in asta. La moneta è molto bella e si presenta sovrappeso, pesando 1.3 grammi invece dei caninici 0.7 grammi. Le immagini sono quelle del venditore. La moneta era venduta in maniera dubitativa come denaro di Giacomo D'Aragona, ma purtroppo per me non sono stato l'unico ad accorgermi della reale attribuzione. La moneta è infatti stata venduta per una cifra intorno ai 100 euro, e data la rarità dell'esemplare, dato per R2 dal D'Andrea, un pò stitico in tema di rarità, credo che valga la cifra che è stata pagata. Aspetto i vostri pareri a riguardo
  14. Buonasera, pongo alla vostra attenzione una monetina che posseggo da anni. Si tratta di 1/8 di follaro (??) simile al 1/2 follaro coniato a Messina da Ruggero II nel 1145 e riportato da Spahr al nr 79. Il mezzo follaro riportato da Spahr ha un diametro di 15 mm e un peso che varia da gr. 1.30 e gr. 1.50. L'esemplare in mio possesso ha invece un diametro di 12.5 mm e un peso di gr.0.62. La moneta non sembra tosata tant'è che è visibile il contorno perlinato quasi per intero. Allego una scansione di un mezzo follaro e dell'ipotetico ottavo.
  15. Buonasera a tutti, che ne pensate di questa? Purtroppo non si legge l'anno, anche se nel cartellino della casa d'asta c'è scritto 1650. Attendo i vostri pareri, grazie.
  16. Carissimi, condivido con voi il nuovo acquisto, un pierreale del terzo tipo di Federico il semplice (1355-1377) Il pierreale del terzo tipo si differenzia dalle precedenti tipologie per i caratteri della legenda, in questa emissione pienamente gotici, al contrario delle emissioni precedenti. Il periodo in cui si conia questa moneta è un periodo di enorme debolezza del potere centrale in Sicilia. I feudatari, in particolare le famiglie dei Ventimiglia, Palizzi, Peralta, Alagona, Chiaramonte assumono sempre maggiore potere. Il re è costretto a causa a lasciare Palermo per rifugiarsi nel castello di Paternò (Catania) a causa dei chiaramonte di Palermo, Messina si ribella al re per un certo periodo passando dalla parte angioina (siamo ancora durante la guerra del vespro). Nonostante tutte le tipologie di pierreali siano assegnati a Messina, per quanto brevemente riassunto, è quantomeno ragionevole supporre che molte di queste monete siano state coniati più o meno abusivamente sia a Palermo che Catania, anche se non è ancora perfettamente chiaro quali vadano assegnati ad una piuttosto che ad un altra zecca. E' assodato che anche il Peralta di Sciacca battè denari per conto di Federico. A complicare la faccenda, anche il fatto che molto probabilmente anche dopo la morte del re, nel periodo del vicariato, in cui le tre famiglie più importanti divisero in tre la sicilia, la coniazione abusiva continuò. La moneta in questione è a mio avviso con qualche dubbio attribuibile alla città di Catania, in quanto i caratteri gotici si riscontrano anche nella moneta da un denaro con l'elefante, attribuita con certezza a Catania. attendo con piacere i vostri contributi, buon fine settimana
  17. Carissimi, da diversi mesi volevo incominciare una discussione riguardante i denari e le loro frazioni coniati nel meridione d'Italia durante la dominazione sveva. La discussione nasce da una difficoltà oggettiva nel distinguere i denari dalle loro frazioni in alcune tipologie di monete. Durante i regni di Enrico VI e Federico II, distinguere i denari dai mezzi denari è veramente molto semplice: i denari hanno diametri che si avvicinano i 18 mm mentre i mezzi hanno un diametro intorno ai 12-13. Anche il peso aiuta a distinguere facilmente le due tipologie attestandosi nei primi sui 0.80 - 1 g, mentre i mezzi hanno un peso tra gli 0.35 - 0.5 g. I problemi di attribuzione (quantomeno miei) cominciano drammaticamente con i successori, quando la qualità delle monete comincia a decadere, e diventa abissale con Manfredi, quanto i denari cominciano ad avere un diametro anche inferiore ai 16 mm, sono mal coniati e spesso di peso basso anche se in buona conservazione. Diventa quindi difficile distinguerli dai mezzi denari. Come esempio volevo porre alcune monete in mio possesso, che onestamente non capisco come attribuire. tutte le monete che seguono sono state acquistate come "denari". inserirò qualche moneta ogni tanto, così da non saturare la discussione. Naturalmente mi auguro che molti abbiano modo di contribuire alla discussione, magari inserendo qualche foto delle monete in loro possesso.
  18. Approfitto di uno degli ultimi acquisti fatti per iniziare una discussione sui follari di mileto. Tali monete sono certamente tra le più belle altomedievali coniate nell'Europa occidentale (le monete bizantine precedenti all'anno 1000 per me rimangono comunque superiori). Ecco la mia moneta:
  19. Carissimi, nei miei studi personali sulla monetazione medioevale siciliana, ogni tanto capita di imbattersi in apparenti "ipse dixit" numismatici, o comunque in catalogazioni in cui almeno a me non è chiara la motivazione. Nel caso particolare mi riferisco la denaro e al doppio denaro di pietro d'Aragona, coniata durante la guerra dei vespri. la domanda che mi pongo è il motivo della catalogazione come denaro e doppio denaro. Nel regno precedente di pietro d'Aragona, il peso teorico del denaro è 0.76 g. durante il regno di Giacomo d'Aragona il peso teorico è di nuovo intorno agli 0.7 Orbene il supposto denaro di Pietro d'Aragona pesa circa 0.4 mentre il doppio denaro circa 0.8 onestamente sulla base dei pesi mi sembrerebbe più logico identificarli come mezzo denaro e denaro. Non ho informazioni riguardo eventuale documentazione d'epoca e non conosco articoli che hanno affrontato l'argomento, per cui certamente mi mancano informazioni importanti per capirne di più. Se avete modo sarebbe interessante discutere qui la problematica e magari citare eventuali articoli di riferimento. Termino con due foto, tratte dal catalogo lamoneta, dei suddetti denari e doppi denari. Fonte Cataloghi Online Fonte Cataloghi Online Fonte Cataloghi Online Fonte Cataloghi Online
  20. Numbus

    scambio monete medievali

    ciao a tutti, vorrei scambiare delle monete medievali con monete del regno di Napoli. Se siete interessati fatemi sapere. Sergio
  21. Ciao a tutti, mi sono state regalate alcune medaglie, tra cui una in argento di forma quadrata con gli angoli stondati emessa il 24 agosto 1968 con fondo opaco a ricordo della partecipazione di Paolo VI al Congresso Eucaristico Internazionale tenutosi a Bogotà. Verso: Busto di Gesù mentre spezza il pane. Dritto Verso: PAULUS VI BOGOTENSI= EUCAR. E CVNCTIS stemma papale coronato da triregno su grandi chiavi decussate. La vorrei vendere. Secondo voi, quanto posso chiedere? e quanto vale? La versione in oro, in un'asta la vendevano, prezzo di stima, 1500 euro. La mia è in argento. grazie!
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