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Alle origini dei culti romani: un'analisi iconica


Caio Ottavio

Risposte migliori

Salve a tutti.

L'obiettivo di questo post consiste principalmente nell'analizzare, attraverso una emissione repubblicana di particolare rilievo storico, quella venatura di religiosità di stampo arcaico che coinvolse, in modo più o meno omogeneo, tutto il periodo della Repubblica. Si cercherà di attuare quest'analisi attraverso la disamina di alcune fonti, grazie, cioè, ai maggiori Cataloghi di monete repubblicane degli ultimi due secoli e supportati da recenti articoli giornalistici provenienti dal mondo accademico. I denari in questione (FIGG. 1. e 2.) furono coniati da un certo Publius Accoleius Lariscolus, ignoto alle fonti se non fosse, appunto, per queste monete che ne riportano il nome.

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FIG. 1.

Denario di P. Accoleius Lariscolus, prima variante con copricapo.

D/ P. ACCOLEIVS LARISCOLVS. Busto drappeggiato di Diana Nemorensis (?) volto a destra, con capo coperto.

R/ Anepigrafo. Triplice statua di culto della dea Diana. Dietro, un boschetto di cipressi (?).

Riferimenti bibliografici: Babelon Accoleia 1; Sydenham 1148; Crawford 486/1.

Datazione: 43 a.C.

Zecca: Roma.

Nominale: Denario in AR.

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FIG. 2.

Denario di P. Accoleius Lariscolus, seconda variante senza copricapo.

D/ P. ACCOLEIVS LARISCOLVS. Busto drappeggiato di Diana Nemorensis (?) volto a destra con capelli raccolti.

R/ Anepigrafo. Triplice statua di culto della dea Diana. Dietro, un boschetto di cipressi (?).

Riferimenti bibliografici: Babelon Accoleia 1; Sydenham 1148; Crawford 486/1.

Datazione: 43 a.C.

Zecca: Roma.

Nominale: Denario in AR.

1. Un magistrato poco conosciuto.

Come prima cosa, cercheremo di fare un po' di luce su questo personaggio e sul suo operato, passando in rassegna alcuni dei più importanti testi. Partendo dal più antico, veniamo a conoscenza che la gens "Accoleja" risulta "nota dalle sole monete". Infatti, la "storia non enuncia questa famiglia, che sarebbe ignorata senza tale monumento, perchè non menzionata nè da scrittori, nè da' marmi." Grazie, poi, ad un paio di ritrovamenti, uno "del ripostino di Puglia, acquistato dal Fontana, e che vuolsi nascosto nel 711, di Roma" e l'altro "di San Bartolomeo descritto dal Cavedoni", sappiamo che le monete che li componevano "non possono essere state impresse da Accolejo Lariscolo, nel proprio triumvirato monetorio, oltre detto anno 711; ma giammai elevarsi fino al 737 (...)". 1 Quindi, stando a quanto riportato dalla prima fonte, la carriera di Lariscolo come magistrato monetario, e la datazione stessa della moneta in questione, sarebbe da circoscrivere in un lasso di tempo compreso tra il 69 a.C. e il 43 a.C. Difatti, analizzando la seconda fonte, veniamo a conoscenza che questo personaggio "fut monètaire suos Jules Cèsar" e che questa tipologia fu datata dal già ricordato Cavedoni "ver l'an 711 (43 avant J. C.)". 2 Per le nostre fonti, fin qui riportate, non si conosce nessun altro documento che riporti anche solo il nome gentilizio di tale famiglia. Dovremo aspettare la terza fonte di riferimento, risalente alla seconda metà del XIX secolo, per poter avere maggiori informazioni riguardo il monetiere Lariscolo: viene ipotizzato, infatti, che tale "P. Accoleius Lariscolus était avec Petillius Capitolinus, un questeur militaire de l'armèe du Sènat, fonction en vertu de laquelle il put faire frapper monnaie." E nella stessa epoca vengono rinvenuti nuovi riscontri che testimoniano l'attività di tale famiglia Accoleia: "Un texte èpigraphique mentionne un certain L. Acculeius Abascantus; un autre texte du temps d'Hadrien, trouvè à Rome, cite un personnage du nom de P. Acculeius Euhemerus." 3 Da queste seppur scarse e frammentarie notizie siamo in grado di cogliere alcuni elementi utili per la definizione del Nostro. La famiglia a cui apparteneva non doveva essere molto grande. Era quasi sicuramente di origine plebea, forse originaria dell'odierna città laziale di Ariccia e, rispetto alle scoperte di fine Ottocento, non sono noti altri personaggi appartenenti a questa gens. I praenomina maggiormente utilizzati, quindi, furono Publius, riportato per ben due volte, e Lucius, meno usato. I cognomina, invece, sono più peculiari: Lariscolus, Abascantus ed Euhemerus furono, forse, cognomi personali che servivano a denotare una particolarità della singola persona a cui appartenevano, dato che non se ne sono riscontrati simili per via ereditaria. Più in particolare, possiamo dire che il Nostro costituisce un caso più unico che raro nell'ambito della gens Accoleia. Infatti, di Publius Accoleius Lariscolus possediamo più notizie rispetto agli altri due. Sappiamo che fu magistrato monetario in epoca cesariana, più precisamente tra il 69 e il 43 a.C., periodo in cui ricoprì anche un incarico militare che gli consentì di battere moneta, come ci suggerisce il Babelon, la nostra terza fonte. In detto periodo è piuttosto normale che un militare di Cesare coni moneta: si veda, ad esempio, il caso di Lucio Roscio Fabato4, molto simile a quello di Lariscolo. Il ruolo ricoperto dal magistrato per conto della Repubblica e del Senato implicava, quindi, quasi obbligatoriamente, una ripresa, tramite la moneta, delle radici più antiche della religiosità romana, in generale, usata anche da Lariscolo per elevare e celebrare se stesso e la propria famiglia di rango plebeo. Passiamo, quindi, a vedere quali sono questi schemi iconografici che la caratterizzano.

2. Il volto dalla misteriosa bellezza al D/.

Al D/, come si evince dalle figure sopra riportate, si scorge un profilo femminile su cui molto si è discusso e sulla cui indentificazione gli studiosi non sono ancora concordi. Andiamo per gradi. Il Riccio, la nostra prima fonte, ci informa che "Gli antichi scrittori di numismatica riferivano la testa di essa a Climene madre di Fetonte" 5, la stessa interpretazione è confermata sia dal Cohen6 che dal Babelon7, ma sembra ormai del tutto superata. Già nel corso della prima metà del XIX secolo, infatti, si era arrivati a congetturare "che la testa femminile sia quella di Acca Larenzia, allusiva al nome Accolejo". L'ipotesi, formulata dal Cavedoni e riferita dapprima dal Riccio, verrebbe confermata sia da Grueber8 che dalla ripresa più moderna della Ceci9. "The cognomen Lariscolus seems to have the same origin as Lariscus, and to be associated with the worship of the Lares (...)". Quindi, "The bust on the obverse has been identified as that of Acca Larentia or Laurentia (...)"10 In effetti, il viso che appare al D/ ci sembra quasi mascolino dietro la sua rigida ieraticità. Ma proprio questa immobilità conferisce alla figura un senso di vivo arcaismo e un cenno quasi esplicito del suo ruolo sacro. La sua femminilità viene comunque espressa dall'acconciatura, che nella tipologia di FIG. 2 è mostrata in tutto il suo preciso ordine, evidente, soprattutto, nella formazione del piccolo "diadema" di capelli riccioluti che viene ad affacciarsi sulla fronte. Nel caso del capo coperto, in FIG. 1, il cappello, o la fascia, può essere un ulteriore indice dell'estrazione sociale della donna raffigurata: assieme al vestito che indossa, Acca/Diana tiene raccolti i capelli come una donna dell'antica nobiltà filo-ellenistica o comunque caratterizzata da un'innegabile raffinatezza di costumi e di maniere. Anche il drappeggio che chiude il busto femminile non è un semplice panneggio: le fibulae tonde sulla spalla e le pieghe fitte consentono la sicura attribuzione dell'indumento ad un chitone per donna di stampo greco (FIG. 3.). Il chitone era l'abito standard nella Grecia antica, una tunica di stoffa leggera in unico pezzo. Per le donne riusciva a raggiungere anche una lunghezza di due metri e copriva tutto il corpo, fino alle caviglie.

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FIG. 3.

Particolare di un vaso greco a figure rosse con la raffigurazione di Europa con Zeus sotto le sembianze di un toro. Notare il chitone che indossa la donna sotto l'himation (il mantello) e il particolare allaccio a fibulae sopra le maniche che partono dalle spalle. Lo stesso tipo d'abito è portato dalla nostra Acca/Diana sulla moneta in questione.

Tale leggerezza della stoffa del chitone è resa sulla moneta con la magistrale messa in evidenza dei seni della divinità. Questo particolare, ravvisabile in tutti gli esemplari di P. Accoleius Lariscolus, non si concilia con la rappresentazione iconica di Diana, dea vergine per eccellenza, che, di solito, appare con un seno più giovanile e meno evidente di quanto lo sia quello del busto esaminato. Inoltre, mancano del tutto altri attributi esclusivi della dea cacciatrice. La soluzione più ovvia, a questo punto, consiste nell'accostare il busto che si trova al D/ di questo denario alla figura di Acca Larenzia, passaggio già effettuato a partire dal Cavedoni11 e riportato da tutti gli altri studiosi nelle loro opere. Acca Larenzia, nota anche coi nomi di Larunda e Mater Larum, ha insita nel proprio nome la terminologia di "madre" (acca, nel linguaggio indoeuropeo, ha principalmente accezione di madre). Ci sono varie versioni del mito che ha come protagonista tale donna: una di queste vuole che Acca sia stata un'etera di grande fascino. Ebbe come amanti uno dei più famosi semidei dell'antichità, Ercole, e poi il ricchissimo e anziano Etrusco Taruzio che le avrebbe lasciato tutti i suoi averi dopo la sua morte. A questo punto, Acca Larenzia li distribuì al popolo romano, diventandone subito una delle beniamine candidate alla divinizzazione.12 Tralasciamo la leggenda, più famosa, che vuole la donna come la "Lupa" che allattò i Gemelli fondatori di Roma e chiamata così per il suo stile di vita licenzioso.13 Il nome di Accoleius, poi, si presta ad eventuali, e forse forzosi, accostamenti etimologici con il nome stesso di Acca e il cognomen Lariscolus si avvicina ai Lari, cioè ai figli di Acca divinizzati. Inoltre, abbiamo ora notato che tale cognomen può essere sciolto in Laris + colo, due parole latine di grande significato e attinenti tra loro. Infatti, Laris è genitivo di Lar-Laris, cioè "i Lari", e colo è la voce del verbo colo-is-colui-cultum-ere di terza coniugazione che si può rendere con l'italiano "onorare". Quindi, Lariscolus è colui che onora, nell'accezione di "venerare", i Lari (FIG. 4.), cioè i figli della divina Acca Larenzia. In questo modo si spiegano due cose: l'abitudine di autocelebrazione dei magistrati monetali romani di epoca repubblicana, a cui abbiamo già fatto riferimento sopra, e l'attribuzione del brusto al D/ del denario ad Acca Larenzia piuttosto che a Diana Nemorensis.

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FIG. 4.

Affresco pompeiano proveniente da un "lararium" della città. Ai due lati opposti si notano i Lari (dipinti di dimensioni maggiori rispetto agli altri personaggi) nell'atto di versare del vino dai loro peculiari corni. Al centro, una scena di sacrificio con musico e "victimarii". Nella zona inferiore, due serpenti agatodemoni (genii benigni e propiziatorii) affrontati davanti ad un altare.

3. Fiera staticità al R/.

Il R/, forse, è di più facile lettura rispetto al D/. Infatti, la maggior parte degli studiosi è evidentemente più concorde sulla sua attribuzione. Il legame tra uomo e natura è stato sempre intenso nell'antichità e particolarmente sentito per la prima romanità. A figure imponenti e resistenti, quali gli alberi, venivano attribuiti gli spiriti delle divinità più arcaiche e misteriose. E la religione romana non fa certo eccezione. Nei dintorni dell'antica città di Roma, tra l'Oppio e il Celio, si trovava un bosco di querce che confinava proprio con le mura cittadine, costruite, secondo la tradizione, sotto il regno di Servio Tullio. "Non sarà fuor di luogo ricordare che quel monte nell'antichità era chiamato Quercetulano (Querquetulanum, nel testo latino), perchè era ricco e fertile di querce (...)".14 Così lo storico romano Publio Cornelio Tacito descrive il luogo e ce lo tramanda tra i suoi scritti, una delle poche testimonianze a noi giunta della denominazione e dell'apparenza del colle Celio. Tra questo colle e l'Esquilino si trovava un tempietto delle Virae Querquetulanae, cioè dedicato alle Ninfe che, secondo la più antica credenza romana, abitavano il bosco di querce del Celio. Queste tradizioni religiose, quasi spiritiche, appartenevano alla più remota credenza romana, quando le divinità erano semplici entità e non avevano neanche un volto, una consistenza.15 Quale attinenza, dunque, tra il bosco di querce, le Virae appena nominate e il denario di P. Accoleius Lariscolus? Afferma molto sinteticamente il Riccio: "Il dottissimo conte Borghesi vi ravvisò (al R/ di questo denario n.d.t.) le Ninfe querquetulane presidi del luco de' Lari, allusivi al proprio cognome Lariscolo." L'opinione del Borghesi è riconosciuta anche dal Cohen16che riporta, senza aggiungere nulla di particolare, ciò che già enunciò Riccio nel suo catalogo: "L'egualmente dotto professor Cavedoni vi ravvisò pel contrario tre ninfe poste a guisa di cariatidi per sostenere quella traversa ornata da arboscelli." Per il Babelon, invece, l'interpretazione del R/ è una via mezzana delle prime due ipotesi: le tre figure rappresentate sono, sì, le Ninfe Querquetulane del Borghesi, ma colte nel momento in cui reggono una trave su cui sono poggiati cinque alberelli di cipresso, come vorrebbe il Cavedoni. Le varie ipotesi degli antichi studiosi non sono di molta utilità, così dobbiamo procedere attingendo con cautela agli elementi che ci sembrano più veritieri. La composizione del R/ di questo denario, ieratica come il D/ nella sua rigida e statica frontalità, è sicuramente legata in modo inscindibile dal D/ di cui abbiamo appena disquisito. Chi riconosce al D/ il busto di Diana Nemorensis, al R/ riconoscerà giocoforza l'assimilazione della dea sotto le tre forme di Diana, Ecate e Selene. La ripartizione tricorpe di Diana così effettuata era venerata a Nemi nel santuario appositamente costruito. Chi crede a questa ricostruzione vede nella mano destra della figura di sinistra un arco, simbolo esplicitamente riferito a Diana. Ma se, in realtà, siamo di fronte ad una rielaborazione delle statue delle antiche Virae Querquetulanae collegate direttamente al culto dei Lari? Anche in questo caso, come abbiamo visto prima, avremmo un coerente aggancio con il busto di D/ raffigurante Acca Larenzia. Il tutto rimanda al nome del magistrato Accoleius Lariscolus e alla sua famiglia. Sembra, infatti, poco probabile che una raffigurazione di una dea, triplice nella sua forma tricorpe, ma unica in generale, possa essere costituita da tre soli singoli personaggi per di più statici. Dato che nella tradizione antica il numero delle Ninfe non è specificato, chi disegnò tale motivo ne scelse tre per il semplice fatto che questo numero aveva una valenza magico-religiosa che ben si confaceva alla tematica della più remota religiosità romana, quella di Acca Larenzia e dei Lari con le loro Ninfe. Lo stesso significato che poi passò nel mondo cristiano. La trave sulle spalle delle tre statue e la base su cui esse poggiano i piedi potrebbero far pensare che realmente le Ninfe qui riportate fossero delle colonne/cariatidi intagliate nel legno di quercia e poste come colonne del tempio delle Virae che presiedevano al culto dei Lari, figli di Acca Larenzia. Quindi, la rappresentazione del R/ di questo denario non sarebbe altro che la stilizzazione del fronte di un antico tempio romano. Notiamo, poi, che le tre figure portano abiti differenti: la prima, quella a sinistra, ha un drappo che dalla spalla sinistra scende trasversalmente fino al lato destro del fianco; le altre due portano abiti uguali e rigidi, con una ripresa della stoffa sotto il petto per creare delle pieghe decorative che scendono dritte verso il basso. Quindi, in base a questo particolare da noi notato, forse per la prima volta, possiamo affermare con una certa sicurezza che le tre figure non costituiscono la Diana tricorpe di Nemi, bensì tre divinità nettamente distinte le une dall'altra, che, insieme non formano un unico corpo come dovrebbero fare nel caso di Diana Nemorensis. In quest'ultimo caso, le tre figure dovrebbero essere tutte uguali. Ultimo particolare che condurrebbe all'identificazione delle tre figure con le suddette Ninfe: i fiori che reggono le statue/colonne alle due estremità non sarebbero altro che il risultato di un'usanza romana secondo cui, due volte all'anno, si provvedeva ad ornare con fiori di vario genere i templi dei Lari e delle loro custodi, le Virae. Tale tradizione, andata perduta gradualmente con l'avvento di nuovi culti, ritornò in auge sotto Augusto.

Credo che, almeno per ora, la nostra analisi riguardo questa particolare moneta sia ormai giunta al termine. Prima di concludere, però, vorrei lasciarvi due curiosità sempre restando in tema:

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FIG. 5.

Denario ibrido: Obverse type of Man. Acilius Glabrio, reverse type of P. Accoleius Lariscolus. Denarius, 3.28g. (h). After 43 BC. Obv: Head of Salus right, SΛLVT behind. Rx: Three statues of nymphs standing facing. Cf. Crawford 442/1b (obverse) and 486/1 (reverse). Ex Phillip Davis Collection .
Notare che, nonostante lo stile più approssimativo, al R/ sono visibili dei tronchi veri e propri tra gli intercolumni formatisi tra le cariatidi delle Ninfe. Ciò potrebbe avvalorare l'ipotesi che collegherebbe le tre figure al bosco sacro dei Lari sul Celio. Tale particolare, però, è completamente assente nei conii di P. Accoleius Lariscolus: siamo davvero di fronte ad un ibrido?


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FIG. 6.

Particolare del D/ di un denario della tipologia di cui abbiamo finora parlato. Si noti la particolarità nella legenda di LARISCOLVI.

____________________________

1 Gennaro Riccio, Le monete delle antiche famiglie di Roma fino allo Imperadore Augusto inclusivamente co' suoi zecchieri dette comunemente monete consolari etc. etc. seconda edizione, Napoli 1843.

2 Henry Cohen, Description gènèrale des monnaies de la Rèpublique Romaine communèment appelèes mèdailles consulaires. Paris-Londres, 1857.

3 Ernest Babelon, Description historique et chronologique des monnaies de la Rèpublique Romaine vulgairement appelèes monnaies consulaires. Tome premier. Paris-Londres, 1885.

4 Morto proprio nel 43 a.C., durante la battaglia di Modena, in cui combattè nelle file dell'esercito senatorio contro Marco Antonio, come ipotizzato dal Babelon per il nostro Accoleio Lariscolo, fu questore o legato di Cesare durante la conquista della Gallia e dal 54 a.C. magistrato monetale. Roscio Fabato, quindi, trova moltissimi punti in comune con Accoleius Lariscolus e la sua vicenda potrebbe non essere molto dissimile.

5 G. Riccio, Op. cit., p. 3.

6 H. Cohen, Op. cit., p. 4.

7 E. Babelon, Op. cit., p. 99.

8 H. A. Grueber, Coins of the Roman Republic in the British Museum. Volume I, London 1910. In particolare, vedi la nota numero 1 alla pagina 569. Le varianti di tale denario sono descritte ai numeri compresi tra il 4211 e il 4214 alle pagine 569-570.

9 Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma e si è occupata spesso di numismatica antica, in particolare romana, e dei risvolti storico-ideologici delle iconografie ivi riportate. In merito al denario che stiamo analizzando, la studiosa si sbilancia a favore della tesi del Grueber, di cui ne ricalca fedelmente i punti principali senza aggiungere nulla di nuovo. Ceci, come il Grueber, crede che il busto appartenga ad Acca Larenzia piuttosto che a Climene o Diana Nemorensis.

10 H. A. Grueber, Op. cit., p. 569, nota.

11 G. Riccio, Op. cit., p. 3.

12 Macrobio, Saturnalia, I, 10, 12-15; Plutarco, Vita di Romolo, 5, 1-3.

13 Livio, Ab Urbe condita, I, 4; Lattanzio, Divinae institutiones I, 1, 20.

14 Tacito, Annales, IV, 65.

15 L'abitudine di raffigurare le divinità con fattezze umane fu importata a Roma dalla Grecia che l'aveva trasmessa anche alla vicina Etruria.

16 Borghesi "croit que les trois figures du revers sont trois nymphes qui prèsidaient au bois sacrè des Lares."

Modificato da Caio Ottavio
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Staff

Ottima disamina Caio Ottavio, l'iconografia di questo denario in effetti è parecchio dibattuta.
Come hai già detto, esistono principalmente due teorie interpretative:
1) Al dritto Acca Larentia ed al rovescio le Ninfe Querquetulane
2) Al dritto Diana Nemorensis ed al rovescio la triade Diana Selene ed Ecate

La raffigurazione del dritto è purtroppo totalmente priva di quegli attributi utili a darci una qualche certezza ed è quindi molto importante concentrarci sulla più ricca rappresentazione del rovescio.
Secondo il mio parere, l'attenzione va posta sulle due figure laterali, quella di destra regge un fiore e su questo non ci sono dubbi, mentre l'oggetto tenuto da quella di sinistra è stato visto anch'esso come un fiore oppure come un arco.

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Da questo piccolo ma sufficientemente rappresentativo confronto l'impressione che si ha è che non sempre pare possibile riconoscere un fiore mentre, di contro, in tutti i casi credo proprio sia possibile vedere le linee essenziali di un arco. I dubbi interpretativi nascono evidentemente da quelle tipologie di conio ove sono presenti delle decorazioni ai puntali dei flettenti, simili a quelle che appaiono anche in altre tipologie monetali .

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Sono piuttosto convinto che l'attributo della figura di sinistra sia un arco e non un fiore, ma questo elemento, seppur importante, non è il solo che deve essere tenuto in considerazione.
Il fiore tenuto dalla figura di destra è infatti altrettanto importante e trova una spiegazione non solo se visto come un emblematico attributo di una ninfa, ma anche se associato alle peculiarità di Ecate.
Indubbiamente quest'ultima divinità ctonia e psicopompa è maggiormente attestata con una fiaccola, una chiave, un serpente o un cane, ma nella sua sfera di influenza e tra i suoi attributi rientrano anche quei fiori veleniferi in grado di procurare la morte (l'aconito su tutti).


Altro elemento a sostegno della tesi che vede nell'iconografia un richiamo al culto Diana Nemorensis è costituito dal rinvenimento, citato dall'Alföldi, ripreso dallo Zehnacker (p.520) e ribadito dalla Ghini e dalla Diosono (Il santurario di Diana a Nemi: recenti acquisizioni dai nuovi scavi - Rivista di antichità, volume speciale 2012) di una base circolare recante l'iscrizione M.IVLIVS.M-F.M.ACCOLEIVS.M.F.AED.D.S.S , attestante le presunte origini aricine della gens Accoleia.

Ecco esposti gli elementi sui quali si basa l'altra ipotesi che, unitamente all'intervento di Caio Ottavio, ci consentono di avere un quadro più completo della situazione.

Naturalmente ci sono ancora alcuni punti, anche piuttosto impegnativi, degni di ulteriori approfondimenti ;).

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Nel mentre vi mostro le epigrafi presenti nei Database con gli Accolei

1. Ritrovata a Lanuvio
EphEp, 09, 00599 (1)

Bellonae ḍ[eae? - - -]
L(ucius) Sextius Eros C[- - -]
permissu C(ai) Sex[(ti) - - -]
et P(ubli) Accolei Larisc[oli - - -]

1 d.C. / 200 d.C. (palaeographia)

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2. Ritrovata a Nemi, Nemus Dianae
CIL 14, 04196

M(arcus) Iulius M(arci) f(ilius) M(arcus) Accoleius M(arci) f(ilius) aed(iles) d(e) s(enatus) s(ententia)

Datazione non presente

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La seconda epigrafe, che sorregge l'ipotesi di Rapax, è una tipica lastra nella quale vengono citati i due magistrati del posto, in questo caso due Edili, un certo Marco Iulio figlio di Marco e Marco Accoleio figlio di Marco.
Ora, questo confermerebbe l'associazione della gens Accoleia a Diana, però, c'è da dire che l'unica epigrafe con anche il cognomen, Lariscoli, porta con se il prenomen Publio.
Questo vuol dire poco, è vero, però è giusto, a questo punto, mettere tutte le carte in tavola che abbiamo a disposizione.

Il prenome fa poco fede, però, intanto, possiamo notare come ce ne siano differenti di questi personaggi (ATTENZIONE, sto parlando senza conoscere la datazione di tutte queste epigrafi).

3. Ritrovata ad Ariccia, Aricia
CIL 14, 02185

Clodia |(mulieris) l(iberta) [3] / Q(uinto) Accoleio Q(uinti) l(iberto) A[3] / viro suo [3] / et Felici lib(erto?) [

Questo addirittura è un liberto di un Accoleio di nome Quinto.

4. Ritrovata a Roma
CIL 06, 10481 (p 3506)

L(uci) Accolei M(arci) f(ilii) [3]

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Qua, infine, abbiamo un Lucio figlio di Marco.

Ripeto, siamo in presenza di alcune epigrafi che attestano i personaggi, quasi sicuramente, di una sola famiglia, ma al momento, con i dati che abbiamo a disposizione, possiamo solo fare congetture, visto che non sappiamo il contesto di ritrovamento e la loro datazione (dati presenti nelle pubblicazioni, se già effettuate).

Un dato spaziale, però, possiamo ricavarlo, si nota che tutte le epigrafi ritrovabili nei Database rimandano a Roma e alla sua parte meridionale, intorno all'attuale Albano Laziale, vicino proprio a quel santuario di Diana a Nemi.

Mirko

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Awards

Interessantissimi interventi. E' una moneta che mi ha sempre affascinato.

Amisano propone che al retro possano essere raffigurate le tre Eliadi, sorelle di Fetonte che, inconsolabili per la morte del fratello, furono trasformate in pioppi da Zeus mentre lo piangevano sulle rive del Po

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Salve.

Grazie, Rapax, per aver indicato anche l'altra teoria interpretativa. I raffronti tra le monete sono molto chiari e credo che le estremità dell'arco, nella moneta di Accoleius Lariscolus, possano essere due tips, quando sono presenti, dato che non tutti hanno lo stesso disegno, cioè le estremità dei flettenti dell'arco su cui viene inserita e tesa la corda. Questo potrebbe giocare a favore della teoria che riguarda Diana Nemorensis e ci aiuta a schiarire un po' di più le idee.

Un grazie anche a Mirko che ha postato diligentemente le immagini delle iscrizioni di cui abbiamo parlato. Per me è stato difficile riuscire a trovare tali figure sul web e altre informazioni al riguardo, oltre a quelle rilasciate negli studi consultati. Un altro ottimo contributo che ha arricchito notevolmente questa discussione e, di conseguenza, anche la nostra curiosità.

Ringrazio Claudio I per il sostegno: tutta la bibliografia indicata nelle note l'ho trovata su internet qualche annetto fa e ne scaricai i volumi disponibili. Forse qualcosa puoi anche trovarla segnalata qui, sul Forum.

E grazie a Licinio Lucullo per il suo intervento. L'ipotesi di Amisano mi è sembrata la più recente continuazione di quella formulata in antico e che riguardava la figura di Climene e dei suoi familiari. Anche se, allo stato attuale delle cose, questa interpretazione non ha molto seguito, non credo che al R/ possano essere raffigurate le tre sorelle di Fetonte, altrimenti al D/ ritorneremmo a parlare del busto della madre Climene. Ma, quest'ultima era una ninfa: se veramente parliamo di personaggi vicini a Fetonte, perchè non mettere al D/ il busto di Apollo, suo padre, come si trova su molte altre emissioni repubblicane? Continuo a pensare che le ipotesi che più si avvicinano alla reale interpretazione possano essere quelle già esposte di Diana Nemorensis e di Acca Larenzia e i suoi figli divini.

Sono felice dell'esito positivo che ha avuto questo post e spero anche in nuove risposte che arricchiscano la questione concernente questo denario.

Grazie nuovamente a tutti per gli interessantissimi interventi che avete fatto. :good:

Modificato da Caio Ottavio
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Staff

Ringrazio aemilianus per la preziosa integrazione, si tratta di un esemplare davvero notevole sotto molti aspetti.

A questo punto però mi pare doveroso tornare su alcune questioni che sono state lasciate in sospeso, in quanto le pertinenti osservazioni di Caio Ottavio hanno aperto, come si suol dire, un vaso di Pandora.

Sembra, infatti, poco probabile che una raffigurazione di una dea, triplice nella sua forma tricorpe, ma unica in generale, possa essere costituita da tre soli singoli personaggi per di più statici. Dato che nella tradizione antica il numero delle Ninfe non è specificato, chi disegnò tale motivo ne scelse tre per il semplice fatto che questo numero aveva una valenza magico-religiosa che ben si confaceva alla tematica della più remota religiosità romana, quella di Acca Larenzia e dei Lari con le loro Ninfe. Lo stesso significato che poi passò nel mondo cristiano. La trave sulle spalle delle tre statue e la base su cui esse poggiano i piedi potrebbero far pensare che realmente le Ninfe qui riportate fossero delle colonne/cariatidi intagliate nel legno di quercia e poste come colonne del tempio delle Virae che presiedevano al culto dei Lari, figli di Acca Larenzia. Quindi, la rappresentazione del R/ di questo denario non sarebbe altro che la stilizzazione del fronte di un antico tempio romano. Notiamo, poi, che le tre figure portano abiti differenti: la prima, quella a sinistra, ha un drappo che dalla spalla sinistra scende trasversalmente fino al lato destro del fianco; le altre due portano abiti uguali e rigidi, con una ripresa della stoffa sotto il petto per creare delle pieghe decorative che scendono dritte verso il basso. Quindi, in base a questo particolare da noi notato, forse per la prima volta, possiamo affermare con una certa sicurezza che le tre figure non costituiscono la Diana tricorpe di Nemi, bensì tre divinità nettamente distinte le une dall'altra, che, insieme non formano un unico corpo come dovrebbero fare nel caso di Diana Nemorensis. In quest'ultimo caso, le tre figure dovrebbero essere tutte uguali. Ultimo particolare che condurrebbe all'identificazione delle tre figure con le suddette Ninfe: i fiori che reggono le statue/colonne alle due estremità non sarebbero altro che il risultato di un'usanza romana secondo cui, due volte all'anno, si provvedeva ad ornare con fiori di vario genere i templi dei Lari e delle loro custodi, le Virae. Tale tradizione, andata perduta gradualmente con l'avvento di nuovi culti, ritornò in auge sotto Augusto.

Una triade costituita da ninfe offre numerosi riscontri comparativi, sia in differenti aree geografiche che in riferimento ad altri contesti cultuali, vedi ad esempio le attestazioni riguardanti le Matres-Matronae della Gallia Transalpina o Cisalpina Orientale. La concezione triadica riferita alle dee Diana, Selene ed Ecate è invece più complessa da inquadrare in quanto chiama in causa delle figure divine di primaria importanza, tra loro funzionalmente distinte. Nel complesso religioso propriamente romano e conseguentemente civico, un simile inquadramento è in effetti difficilmente spiegabile in quanto divinità come Diana Nemorensis, provviste dunque di un'ampia funzionalità, mal si inseriscono in un contesto ove le sfere di influenza e competenza religiosa risultano accuratamente suddivise tra una elevato numero di dei.

In quel di Nemi siamo di fronte ad una Diana dalla triplice epiclesi e perciò tricorporea, per quale motivo?

Per cercare di spiegare, pur a sommi capi, tale particolarità è necessario fare qualche passo indietro, ponendo l'accento, per prima cosa, sul fatto che questa dea fu introdotta nel pantheon romano per esigenze prettamente politiche, utili a sancire, anche in ambito religioso, la supremazia di Roma sulla Lega Latina. In questo frangente si è tuttavia importata una divinità caratterizzata da una vastissima sfera funzionale, perfetta quale somma dea di una comunità originariamente tribale, ma inadatta ad inquadrarsi in un contesto civico evoluto, minuziosamente strutturato a livello religioso per via di un più complesso ed articolato sistema sociale.

I tratti di una divinità di questo tipo posso essere tracciati solo se associati al contesto di origine che, com'è appurato, è da ricercarsi non in ambito esclusivamente romano, ma italico e latino.

Diana appartiene infatti ad una ben precisa categoria divina, quella delle potnie, ovvero le "signore degli animali e delle selve" (se non sbaglio ne avevamo già parlato in un'altra discussione, ma in modo piuttosto vago), divinità femminili i cui tratti risultano ben delineati quantomeno dall'epoca protostorica (con attestazioni provenienti dall'ultima fase del paleolitico), tra le quali è possibile annoverare Fauna-Bona Dea, Angizia, Marìca, Feronia, Retia ed anche i maschili Cernunnos e Fauno.

Gli studi comparativi del Dumézil hanno avvicinato queste divinità italiche al pre-vedico Rudra, "il dio di tutto ciò che non è ancora posseduto dalla civiltà", ma al tempo stesso hanno evidenziato una sostanziale differenza che vuole le potnie quali divinità in grado di porre le forze selvatiche al servizio degli uomini, della loro alimentazione, della loro salute, della loro fecondità, neutralizzando i pericoli propri degli ambienti selvaggi (George Dumézil , La religione romana arcaica, pp.363-364; Renato Del Ponte, Dei e miti italici, p. 172). Un significativo riscontro con Diana Nemorensis è stato messo in evidenza da Del Ponte che, parlando della venetica Reitia, scrive: "Fra gli attributi più interessanti di Reitia vi è certamente quello di Triavi, ossia "triplice", "trina", epiclesi (cioè invocazione) cui fan capo i tre cardini della vita: creazione, conservazione e distruzione. E' evidente il riferimento all'ellenica Ecate dai tre volti [...]" (ibid., p.175).

E' dunque piuttosto chiaro che ci siamo imbattuti non in divinità plasmatesi in un contesto cittadino e repubblicano, ma piuttosto tribale ed estremamente arcaico.

Non possiamo escludere la presenza di una Diana così concepita tra quei culti romani di sostrato sommersi poi dalla religione di stato, ma è altresì vero che una divinità avente tali caratteristiche poté essere introdotta in Roma con funzionalità ridimensionate e riadattate al culto pubblico e civico.

Venendo al dunque e parlando della triade Diana, Selene ed Ecate costituente Diana Nemorensis, ci troviamo sostanzialmente di fronte ad una potnia arcaica, le cui differenti ed ampie funzionalità, in epoche successive e sotto differenti influssi, furono giustificate mediante l'associazione ad altre figure aventi sfere d'influenza maggiormente circoscritte. Anche se un po' intricato, siamo di fronte ad un fenomeno sincretico, cambiano i nomi ed i numeri, ma a livello funzionale il quadro è stabile.

Non dimentichiamoci infine di un aspetto molto importante: il "ridimensionamento" della Diana romana non interessò affatto Diana Nemorensis (la cui area sacra era già frequentata nella media età del bronzo). Nel santuario ad essa dedicato la grande valenza della dea continuò ad essere riconosciuta, fu solo ripartita in quella triplice epiclesi che meglio si rifletteva in un più ampio ed evoluto sistema religioso.

Mi rendo conto che il discorso potrebbe apparire un po' complesso, ma relativizzando le figure coinvolte al tempo ed al luogo le cose si semplificano... almeno un po'! :D

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Grazie mille, Rapax, per questo intervento: è davvero completo e mi è piaciuto molto. Culti religiosi di questo genere affondano le radici in tempi lontanissimi e curiosi sono anche gli accostamenti che hai riportato con altre divinità, appartenenti ad altre culture.

Grazie anche ad Aemilianus253 per aver postato questa variante poco nota del detto denario. Suggestiva quella chioma libera, ma allo stesso tempo ordinata e accuratamente disposta lungo la schiena.

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Grazie a te Caio Ottavio, non dimenticare che sei stato tu ad aver ottimamente aperto questa discussione, tra l'altro con un lungimirante titolo che è a dir poco perfetto ;).

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Nei dintorni dell'antica città di Roma, tra l'Oppio e il Celio, si trovava un bosco di querce

Scusa la domanda ingenua. Ma se il denario riproduce le Virae e le Virae presidiavano un bosco di querce, perché sarebbero state rappresentate con i ... pioppi sulle spalle?

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Salve Licinio Lucullo.

Non è affatto una domanda ingenua: non credo ce ne siano in questo campo. :)

Il punto nodale della questione è che non tutti sono concordi sull'attribuire quelle fronde a dei pioppi. Chi, infatti, crede che le figure al R/ si riferiscano alle Virae Querquetulanae vede in quegli alberi le chiome delle querce che queste Ninfe proteggevano.

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