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Il messaggio di Licinia Eudossia a Genserico


antvwaIa

Risposte migliori

Tre foristi mi hanno chiesto di non abbandonare questo tema ma di svilupparlo. Lo faccio con piacere e prometto che sarò buono: non litigherò con nessuno (almeno non con persone attuali, perché invece, litigherò con Procopio e soprattutto con Marcellino, cronista del VI secolo che nel suo Chronicon diffamò Giusta Grata Onoria, la mia amata, affermando che durante la seconda indizione del consolato di Areobindo e Aspar (434) “Honoria Valentiniani imperatoris soror ab Eugenio procuratore suo stuprata concepit, palatioque expulsa Teodosio principi de Italia transmissa Attilanem contra occidentalem rempublicam concitabat”. Quindi farò il buono.... ma non troppo!

La discussione sarà assai più storica che numismatica, assai più femminista che maschilista (infatti privilegerò sempre il punto di vista delle Augustae in quanto, tranne una, mi sono più simpatiche e sono pure molto carine) e le monete che via via posterò saranno ragionate in termini numismatici, più che nell'aspetto del collezionista. La visione del collezionista è soprattutto descrittiva, quella del numismatico è interpretativa: ovvero vuol capire perché è stata coniata proprio quella moneta in quel momento, quali ne siano le ragioni storiche, politiche e sociali sottintese, quali le dietrologie....

Ero incerto dove postare questa discussione, assai più storica che numismatica e nella quale appariranno monete romane del V secolo e vandale. Arka mi ha invitato a farlo in questa sezione e quindi colgo con molto piacere l’invito di Arka.

Antvwala

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Perché proprio Licinia Eudossia? Perché di fronte a una moneta (e a una donna) di cotanta bellezza non si può restare indifferenti.

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Eppoi perché è l'occasione per ritrovarmi con alcune mie care amiche: la stessa Licinia Eudossia, le sue figliuole Eudocia e Placidia, la suocera Galla e, soprattutto, con sua cognata, che più che cognata le fu sorella, Giusta Grata Onoria, che non ho mai cessato di amare.

In mezzo a loro, purtroppo, ci sta Valentiniano III. Con che piacere lo avrei ucciso io stesso con la mia mano! ma non ebbi mai l'occasione di farlo, né posso ora ignorare la sua ingombrante e sgradita presenza.

(Già questo incipit vi fa comprendere quanto io sia parziale: ma come si fa ad essere imparziali quando nel bel mezzo ci sta l'amore?).

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Ma forse è il caso di presentare alcuni altri protagonisti della nostra vicenda. Sono Galla Placidia e i suoi due figli: Valentiniano e Onoria.

I loro volti ci sono noti poiché è giunto sino a noi una miniatura con il loro ritratto, opera di Bounneri Kerami, pittore della corte di Costantinopoli che verso il 433 era in visita a Ravenna. La miniatura è inserita nella Croce del re longobardo Desiderio ed è conservata nel Museo Civico di Brescia.

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Al centro sta Galla Placidia, severa, composta: i suoi occhi mostrano tutto il dolore che dovette sopportare e, soprattutto, il rimpianto per la sua grande storia d'amore con Ataulfo, quando fu regina dei visigoti. A sinistra ci sta Valentiniano, dodicenne ma già imperatore e a destra Giusta Grata Onoria, la mia amata. Guardate lo sguardo corrucciato e già truce di Valentiniano, coglione! (Sidonio Apollinare lo chiama semivir amens, epiteto non meno ruvido del mio). A destra Onoria, così simile alla madre, vi guarda da lontano: il suo sguardo è profondo ed è conscia che l'essere donna gli ha precluso il trono, un trono che per la sua intelligenza invece le spetterebbe e potrebbe occuparlo degnamente! Un voto sciagurato pronunciato da sua madre, quand'era ancora assai piccina, le ha precluso il matrimonio e l'ha obbligata a una indesiderata castità perpetua.

E' la stessa Onoria che ci racconta qualcosa di più di questo ritratto:

"Allora io era una ragazzetta forse di una quindicina di anni, non ricordo bene, quando su richiesta della madre mia eseguì un piccolo ritratto con i nostri busti – l’augusta Placidia al centro, mio fratello a sinistra e io alla destra – su un tondo di vetro: una miniatura da incastonare come fosse un medaglione. Per l’occasione, la madre mia volle che intorno al mio collo ci fosse un giro di perle in luogo della sottile catenina d’oro con la croce di Cristo che indossavo d’abitudine, anche se non voleva mai che indossassimo gioielli fuori delle occasioni formali, come i ricevimenti ufficiali della corte; lei, invece, neppure in quell’occasione accettò di collocarsi qualunque ornamento: riteneva che non fossero consoni a chi aveva assunto quale priorità per la sua vita, dedicarsi a ingrandire la gloria e la potenza della vera Chiesa. Realizzò anche un piccolo ritratto al mio augusto fratello, che fu inviato alla corte di Costantinopoli, così come da loro ricevemmo una miniatura nella quale era ritratta Licinia Eudossia, figlia dell’augusto cugino imperatore e della bellissima Elia Eudocia, sposa promessa dell’imperatore Valentiniano, il mio viziatissimo fratello. Mi fece piacere rivedere il volto di Licinia Eudossia, bellissimo quanto quello della madre sua!".

Modificato da antvwaIa
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Ma il messaggio dove sta? Dove se ne parla?” sento che mi state rimbrottando. Suvvia, un po’ di pazienza! Se proprio volete saperne subito qualcosa, ecco qui cosa dice Procopio di Cesarea a proposito di questo messaggio.

In quei giorni tra i senatori viveva un certo Massimo, parente di quel tiranno di egual nome spento dal signor Teodosio e la cui sconfitta era un anniversario festivo dei Romani. Valentiniano, invaghitosi della moglie di costui, [donna] di grandissima onestà e bellezza, disperando di averne l’affetto, studiò come compiere i suoi desideri con artifizio abominevole; perciò mandò un ordine a Massimo di presentarsi tosto nella reggia, e preso a giocare insieme a lui ai dadi appostando denaro, lo vinse; e per regolare quanto pattato tra loro, quale saldo di quanto posto [in gioco] ne ebbe l’anello. Poi lo fece giungere segretamente alla matrona in nome del suo consorte, sollecitandola appena ricevuto quel segno di recarsi a corte per salutare l’imperatrice Eudossia. Ella obbedì e al suo arrivo fu accolta da persone complici del tradimento e condotta dritto nel gineceo dove pronto giunse Valentiniano per eseguire la trama ordita. La meschina tornata infine alla sua abitazione lacrimava mesta per il sofferto oltraggio e rimproverava acerbamente il marito supponendolo partecipe di tanto delitto. Massimo, ribollente d’ira, meditò come vendicarsi coll’offensore, ma trovando grave ostacolo ai suoi disegni nel duce supremo [Ezio….] complottò prima di tutto come [… renderlo] sospetto al monarca. […] Comperatosi dunque l’affetto degli eunuchi ai quali, in premio per la loro fedeltà, l’imperatore aveva affidato la custodia del suo corpo, li induce a persuadere Valentiniano che Ezio macchinava delle insidie contro di lui; ed egli, credendo loro con faciloneria avendone già in sospetto le azioni valorose, ordina che perisca con il ferro. Si dice poi che interrogando un Romano che stava accanto a lui in merito a tale morte, gli fosse risposto: “Se da questa sentenza [uccisione] ne avremo utile o danno, spetta a te giudicarlo, o sire; sta però ben chiaro nella mia testa che con l’opera della sinistra è stata tagliata la mano destra”. […] Massimo poi fece uccidere Valentiniano, ed essendo in quei giorni già vedovo, s’invaghì di Eudossia e la sposa. Ma avendole confessato tra i piaceri del talamo che preso oltre misura di lei non aveva potuto trattenersi dal renderla vedova, la matrona, la quale già da tempo non provava alcuna simpatia verso costui, si esacerbò maggiormente udendo tali atrocità e desiderò vendicare il consorte tradito. Sicché appena si dileguarono le tenebre [giunse l’alba], mandò frettolosamente [un messaggio] a Cartagine pregando Genserico di accorrere e castigare l’empio tiranno per l’assassinio di Valentiniano e per il cattivo trattamento cui ella stessa doveva soggiacere; aggiunse inoltre che se il perfido [Massimo] fosse riuscito a usurpare il potere supremo, tutto sarebbe andato perduto; concluse infine rammentandogli l’obbligo che aveva di prestarle soccorso in base all’amicizia e ai patti che lo legavano all’imperatore ucciso e la sua impossibilità di sperare di ricevere alcun aiuto da Bisanzio dove, non essendo più vivo Teodosio, regnava Marciano.” (Da Procopio di Cesare, La guerra vandalica, Libro I, capitolo IV, § III-VI, Paolo Molina Editore, Milano 1833).

Eccolo, dunque, il messaggio! Ma se non vi racconto qualcosa di più, se non vi narro quali sono le circostanze vissute da Licinia Eudossia in quei giorni che precedettero il sacco di Roma, come farete a valutare voi stessi se tale messaggio fu davvero inviato, o se è un'invenzione di Procopio?

Dunque abbiate un po' di pazienza e seguitemi ancora nel racconto, se così vi aggrada....

Antvwala

Modificato da antvwaIa
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Bellissimo il medaglione di vetro con i ritratti di Galla e dei suoi figli. Effettivamente ci si può innamorare di Onoria... Molto bello anche il racconto delle vicende che, credo, siano poco note ai più...

Infine una cortesia Antvwala. Capisco che Valentiniano III Ti stia antipatico, ma se potessi usare epiteti meno ''crudi'' renderesti il tutto perfetto.

Restiamo tutti in attesa del seguito...

Arka

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grazie Antvwala, è sempre un piacere e un arricchimento leggere i tuoi interventi.

vedo che l'autore del medaglione si è firmato.

Kerami mi fa venire in mente ceramica. forse prima di diventare il nome era la sua professione?

Attendiamo sviluppi...

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Awards

Prima di interrompere la narrazione con il testo di Procopio e il messaggio di Licinia Eudossia a Genserico (troppo presto ne ho parlato, ma vi sentivo impazienti che arrivassi al dunque...) eravamo rimasti alle parole della cara Onoria, lieta di rivedere i volti di Licinia Eudossia e di Atenaide, sia pure solo ritratti ad olio su una tavoletta di rame.

Onoria conobbe Atenaide, la bellissima moglie di Teodosio II, quando sua madre dovette riparare a Costantinopoli con i figli, discacciata dalla corte di Ravenna dal suo fratellastro Onorio, alle cui indecenti voglie incestuose si era opposta. Allora si era nel 424 e Licinia Eudossia era appena nata, ma certamente anche in seguito ricevettero a Ravenna suoi ritratti.

Prima che l’udienza avesse termine” è ancora Onoria che ci sta narrando i fatti “l’augusta Pulcheria si rivolse a me, domandandomi dei miei studi e dei miei precettori e informandosi soprattutto sulla mia conoscenza di quanto concerneva la fede cristiana: risposi con garbo alle sue domande, le dissi quanto amassi lo studio, che già da oltre un anno mi stavo applicando alla conoscenza delle lettere e che riuscivo a scrivere e a leggere, e che, tra i miei precettori, vi era anche un filosofo greco che m’insegnava l’armoniosa lingua di Atene. Volle, allora, l’augusta Atenaide rivolgersi a me in greco, ed io le parlai nella stessa lingua che sin da piccola comprendevo poiché era parlata anche dalla madre mia, Placidia. E mi resi conto che le due auguste si compiacquero per le mie risposte”.

Ed ecco che c’incontriamo con altre due auguste che tanta importanza hanno nella nostra storia. Pulcheria, energica sorella di Teodosio II e di fatto reggente dell’impero d’Oriente, e Atenaide, la colta ed elegante sposa dell’imperatore.

Eccola qui, Atenaide, in un prezioso e raro doppio solido coniato verso il 437 (assente dal RIC), quando Licinia Eudossia quindicenne convogliava a nozze con Valentiniano III.

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Quella che descrissi prima fu l’unica occasione d’incontro tra Onoria e Atenaide: ma la mia amata giunse a conoscerla assai bene attraverso gli occhi della stessa Licinia Eudossia, che, come dissi, più che cognata le fu sorella. E pure io, a mia volta, imparai a voler bene ad Atenaide e a guardarla con gli occhi cenerini di Giusta Grata.

Antvwala

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Bellissima storia, che rende bene anche il fosco clima di quel tormentato periodo. Troppo spesso trascuriamo il ruolo, spesso importante, delle donne di corte, sempre costrette a stare dietro le quinte.

Gli storici e i cronisti dell'epoca erano uomini e molto volentieri narravano gli eventi dal punto di vista esclusivamente maschilista, sminuendo e alterando il ruolo delle Auguste, spesso calcando la mano su sgradevoli episodi come stupri o, per converso, eccessive libertà sessuali. Non nego che fra le mura delle reggie di quel periodo siano stati frequenti questi episodi di violenza o di licenza, ma resta il fatto che molto spesso fatichiamo a inquadrare la personalità e l'effettivo ruolo delle Auguste, che pure ebbero spesso l'onore di essere raffigurate sulle monete anche d'oro.

Attendiamo fiduciosi la continuazione della bella narrazione di Antwala, che si sta sforzando a gettare la giusta luce su questi personaggi storici.....

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Atenaide, come appare in un'icona del X secolo

Atenaide era la figlia del filosofo Leonzio. Nacque ad Atene verso il 401da una famiglia molto colta e legata agli ambienti ancora classicheggianti e di tradizione pagana. Il padre, filosofo e matematico, ebbe probabilmente contatti con l’alessandrina Ipazia.

Educata alla tolleranza e a vedere in ogni credo quanto di positivo esso possiede, ad Atenaide appena quattordicenne quanto sarà costato capire l’atroce persecuzione mossa dai cristiani nei confronti degli ebrei di Alessandria, scacciati tutti dalla città con i loro bambini al seguito, senza permettere loro di portare nessun cibo e neppure un po’ d’acqua, scortati dai legionari sino ben dentro il deserto e lì abbandonati a morire di stenti e di sete. E che avrà detto, un anno più tardi, quando giunse ad Atene, inorridita, notizia dell’atroce morte di Ipazia ad opera dei monaci cattolici arringati e istigati dal vescovo Cirillo (415)?

Era il mese di marzo del 415, e correva la quaresima: un gruppo di cristiani «dall'animo surriscaldato, guidati da un predicatore di nome Pietro, si misero d'accordo e si appostarono per sorprendere la donna mentre faceva ritorno a casa. Tiratala giù dal carro, la trascinarono fino alla chiesa che prendeva il nome da Cesario; qui, strappatale la veste, la uccisero usando dei cocci. Dopo che l'ebbero fatta a pezzi membro a membro, trasportati i brandelli del suo corpo nel cosiddetto Cinerone, cancellarono ogni traccia bruciandoli. Questo procurò non poco biasimo a Cirillo e alla chiesa di Alessandria. Infatti stragi, lotte e azioni simili a queste sono del tutto estranee a coloro che meditano le parole di Cristo”. (Socrate Scolastico, cit., VII, 15).

Alla morte del padre, avvenuta verso il 420, i fratelli di Atenaide s’impossessarono di ogni suo bene, senza far caso della volontà del padre che aveva assicurato un importante lascito anche alla figlia. Fu per questa ragione che Atenaide, con una minuscola corte di ancelle e guardie del corpo, si recò alla corte di Costantinopoli per far valere le sue ragioni.

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Tremisse con il ritratto di Pulcheria (RIC 214)

Chiese udienza a Teodosio II e fu ricevuta dall’augusta Pulcheria, come spesso accadeva a chi domandava udienza. L’arcigna sorella dell’imperatore, religiosissima sino alla bigotteria, severissima con gli altri e ancor più con sé stessa, rimase impressionata dall’eleganza, dall’eloquenza e dalla vasta cultura di Atenaide. La ritenne la sposa giusta per il giovane fratello. Ma c’era un ostacolo da superare: Atenaide era pagana!

Costantinopoli ben vale una messa!” si disse la giovane ateniese accettando l’imposizione di Pulcheria di abbandonare il paganesimo e accettare il messaggio cristiano. Fu dunque battezzata con il nome di Elia Eudocia, un nome la cui somiglianza con quello della madre di Teodosio II, Elia Eudossia, era già una progetto matrimoniale.

Matrimonio che si celebrò a Costantinopoli con grande sfarzo il 7 giugno dell’anno 421.

Atenaide aveva vent’anni ed era una donna di grande classe, una degna imperatrice. Teodosio II aveva la stessa età della sua sposa, appena vent’anni; era un giovane dal corpo tozzo e dal volto poco aggraziato, ma era già allora un uomo di grande intelligenza, spessore culturale, dirittura morale e passione per lo studio.

Antvwala

Modificato da antvwaIa
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Non è vero! Non l’ho mai detta quella frase che mi avete attribuita! Non sono diventata cristiana per così convogliare a nozze con l’augusto Teodosio. L’ho fatto perché ero affascinata dal messaggio di Gesù. Lo ero già quando mio padre ero ancora in vita e la nostra villa suburbana nei pressi di Atene era punto d’incontro di filosofi e di artisti: non solo pagani erano i nostri amici, che ve n’erano anche di cristiani e di giudei. Ero piccolina e già m’incuriosiva quanto si diceva di Gesù e dei miracoli straordinari che compiva. Quando ragazzina, poi, più che i miracoli mi affascinava la sua mitezza e quando in suo nome i cristiani vollero lo sterminio dei giudei alessandrini, mi parve tanto più atroce proprio perché fatto in nome di colui che mai avrebbe usato violenza.

Neppure è vero che venni a Costantinopoli solo per rivendicare un’eredità. Ancora un po’ e direte: ecco, giunse Atenaide reclamando una villa e ottenne la metà di un impero!

I miei fratelli ebbero per me sempre antipatia. Io ero la preferita di Leonzio, nostro padre. E lo ero per la mia intelligenza, perché pendevo dalle sue labbra per cogliere la ricchezza delle sue parole. I miei fratelli erano rozzi: preferivano le corse dei cavalli e i festini ai dolci cori e ai garruli suoni dell’odeon. Tutto mi tolsero, i miei fratelli, alla morte di mio padre: lo fecero per gelosia, immemori delle sue ultime volontà. Per questo e non per altro venni presso la corte dell’imperatore reclamando giustizia.

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Busto di Teodosio II (Museo del Louvre, Parigi)

L’augusto Teodosio era giovane – aveva la mia stessa età – ma non era certamente bello! Eppure mi affascinò perché era davvero colto: sapeva di storia e di poesia, declamava i poemi omerici e le odi di Pindaro, conosceva le leggi degli antichi e dei moderni. L’augusta Pulcheria mi mostrò simpatia e fu lei che volle che assumessi quel nome che non sentii mai veramente mio: Elia Eudocia. Una simpatica che poi si volse in odio quando crebbi e cominciai a non sottostare più al suo volere, e soprattutto a incoraggiare il mio sposo a liberarsi dell’ingombrante tutoria di sua sorella.

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Solido in nome di Elia Eudocia coniato nel 423, l'anno in cui partorì Licinia Eudossia (RIC 228)

Quando partorì Licinia mi fu rimproverato di non aver dato un maschio all’impero che fosse il continuatore della casa teodosiana.Poi, però, mi compensarono con il titolo di augusta e coniando una moneta con il mio ritratto.

Ricordo quando l’augusta Galla Placidia venne a corte con i suoi due figli. Fu durante l’estate della VII indizione, essendo consoli Vittore e Castino [anno Domini 424]. Mi piacque Galla Placidia, così come subito provai simpatia per la piccola Onoria: aveva sì e no sei o sette anni, eppure vi era già maturità nei suoi occhi. Parlava un greco forbito, inatteso in una bimba così giovane, e mi piacque le cose che disse, ma soprattutto mi piacquero le domande che fece. Mostrava curiosità e dimostrava intelligenza. Mi rallegrai che le fosse stato conferito, pur così giovane, il titolo di augusta, anche se sapevo che lo sposo mio Teodosio lo fece in quanto ossessionato dal bisogno di dare continuità alla casa teodosiana e premunirsi qualora il piccolo Valentiniano fosse strappato dal mondo dei vivi.

E come potrei non ricordare quell’incontro? Un anno appena era trascorso da quando partorii la mia piccola Licinia Eudossia, o poco più, e già per decisione dell’augusto mio marito veniva promessa in sposa al cugino suo Valentiniano che allora aveva da poco compiuto i cinque anni. Decisione di Teodosio? No davvero!, che chi decideva davvero era sua sorella Pulcheria che pur essendo di due soli anni maggiore del fratello, lo dominava totalmente con la sua fortissima personalità.

In quanto all’imperatore, era gentile ma terribilmente formale anche nei momenti di maggiore intimità. Anche se avrebbe preferito che il suo primogenito fosse maschio, tuttavia mostrava interesse per la piccola Licinia Eudossia, ma senza mai farle un gesto d’affetto.

La vita di corte era un cerimoniale che imponeva ogni parola, ogni sguardo, ogni movimento della mano: non ero più un essere vivo, ma una marionetta sottomessa sempre e in ogni momento al cerimoniale di una corte che assomigliava tanto a un monastero. Ci raccoglievamo in preghiera al mattino, quando il cappellano celebrava la messa, e nuovamente c’inginocchiavano davanti alla croce sul far della sera. Tutti i mercoledì si praticava penitenza, pranzando vivande cotte con erbe amare e astenendoci dalle libagioni, poiché così voleva l’augusta Pulcheria. Non potevo ridere, che ridere era sconveniente; né dare mostra d’allegria o di tristezza, che un’augusta non deve mai evidenziare il suo sentire; né stringere al mio seno la mia piccola bambina quanto mi sarebbe piaciuto, poiché così voleva l’augusta Pulcheria.

Io non avevo ancora venticinque anni, e già mi ero spenta”.

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Correva l’anno Domini 424. Quante cose che avvennero in quell’anno che segnarono la storia dell’Impero d’Occidente!

Teodosio II dapprima era incerto sul da farsi. Aiutare la zia Galla Placidia a recuperare il trono imperiale, occupato da Giovanni Primicerio, con il rischio di scatenare una guerra fratricida, il che era quanto più aborriva il sovrano bizantino? Oppure accettare il fatto compiuto e riconoscere quel Giovanni eletto dal Senato romano – dunque non un usurpatore ma un imperatore legittimo! – ponendo così fine alla dinastia teodosiana alla quale tanto teneva?

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Roma, moneta celebrativa dei misteri isiaci con al dritto il volto di Iside e al rovescio la figura di Anubis.

Fu proprio Pulcheria a spingerlo a una scelta che avrebbe favorito Galla Placidia. Giovanni, infatti, uomo mite e tollerante, aveva decretato piena libertà di credo, autorizzando i pagani, ancora assai numerosi a Roma, soprattutto nelle classi più agiate per lo più addette ai culti misterici, a riaprire i templi che furono chiusi in obbedienza all’editto di Teodosio I. Questo parve intollerabile agli occhi di Pulcheria, e ancor più intollerabile che venissero coniate, proprio a Roma!, monete che celebravano Iside e Serapide e il loro culto misterico.

Si adoperò per convincere il fratello affinché aiutasse Galla Placidia a recuperare il trono romano e incoronasse il piccolo Valentiniano quale imperatore d’Occidente. E così fu fatto, ma Galla Placidia dovette pagare un prezzo per ottenere l’aiuto di Teodosio II, ovvero l’appoggio dell’esercito di Costantinopoli, per recuperare il trono: la cessione dell’Illiricum all’Oriente, ma soprattutto la formale sottomissione di Roma a Costantinopoli.

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Solido di Teodosio II. Al rovescio, Valentiniano è disegnato molto più piccolo di Teodosio, ciò che non è conforme alla tradizione iconografica imperiale, in quanto i due augusti, anche se molto diversi per età, venivano sempre disegnati con la stessa altezza in quanto entrambi avevano una medesima dignità. Disegnare Valentiniano più piccolo era un modo per sottolineare la sua sottomissione a Teodosio.

Mentre a Giusta Grata Onoria, pur così giovane, fu conferito il titolo di augusta, Valentiniano, invece, fu nominato cesare dello stesso Teodosio II, e in quanto cesare, a lui sottomesso.

Nel 425, dopo una breve battaglia nei pressi di Aquileia, Giovanni fu sconfitto (poi, per ordine della stessa Galla Placidia, fu barbaramente mutilato e quindi ucciso) e Galla stessa rientrò con i figli in quel palazzo imperiale dal quale era dovuta scappare due anni prima.

Due anni più tardi per Onoria, appena decenne, terminò l’infanzia.

“Quando ebbe inizio la X indizione, essendo consoli Ierio e Ardaburio (427), io oramai ero entrata nel mio decimo anno di vita: ero piuttosto alta e magra e dimostravo più della mia età. Soprattutto mi sentivo molto sola e rimpiangevo quando, alla corte di Costantinopoli, avevo l’augusta madre mia spesso disponibile a restare con me: rispondeva alle mie domande e uscivamo insieme a visitare la città. Ora gli incontri erano rari […]: era sempre impegnata con mille funzionari.

Avvenne, un giorno, che io incontrassi una miniatura scampata allo scempio che fece seguito alla conquista del sacro palazzo da parte delle legioni di Ardaburio: in essa, appariva una donna sconosciuta, molto bella e con un viso dolcissimo, forse di una trentina d’anni. Incuriosita, ma anche attratta da quel viso, conservai la miniatura; alcuni giorni più tardi, quando la mia augusta madre trovò un po’ di tempo per trascorrerlo con me, informandosi dei miei progressi negli studi e nei comportamenti, le mostrai il piccolo ritratto e le domandai chi fosse quella donna. L’augusta Placidia lo prese tra le sue mani e l’osservò in silenzio […]: “è Serena, che per me fu come una madre”. “E ora dov’è?”, le domandai. “Fu condannata a morte – mi rispose –io stessa firmai la sua condanna! […] Fui chiamata in Senato e mi venne sottoposta la sentenza di condanna, affinché apponessi la mia firma e il mio sigillo. Il vescovo di Roma Innocenzo voleva questa condanna, e anche la volevano gli imperatori Arcadio e Onorio. Io non avrei voluto, ma firmai, poiché questo mi esigeva la legge”.

Rimanemmo entrambe a lungo in silenzio […]: “Ma tu eri l’augusta!”, esclamai dopo una pausa, “avresti dovuto negarti a firmare quella sentenza!”. “Tutti devono obbedire alle leggi, augusta Onoria, figlia mia prediletta: anche i principi sono sottoposti ad esse! Nella solidità della legge si basa la solidità dell’imperatore”, concluse mestamente”.

Quel giorno Onoria si rese conto che la madre non sempre era giusta e buona, ma anch’ella sbagliava e poteva compiere gesti dei quali poi doversi vergognare una vita intera. E’ quello il momento nel quale l’infanzia termina davvero: quando per la prima volta ci sentiamo delusi dai nostri genitori. Giusta Grata Onoria è forte come una roccia: avrebbe voluto piangere ma ricacciò indietro le lacrime. Io che sono facile ad accendermi tanto nell’ira come nella commozione, piansi per lei.

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Grande Ant.. finalmente sei tornato all'antico splendore culturale :)

mi raccomando continua a deliziarci con questi bellissimi inserti storico-numismatici dei secoli bui (che "bui" non sono affatto..)

e che monete :shok:

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Devo fare una precisazione a proposito del solido di Teodosio II che lo rappresenta insieme con Valentiniano III. Che i due imperatori fossero sempre rappresentati di dimensioni uguali prima di questa emissione non è esatto. Molti dei solidi della serie VICTORIA AVGG rappresentano Valentiniano II più piccolo del collega.

Arka

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Devo fare una precisazione a proposito del solido di Teodosio II che lo rappresenta insieme con Valentiniano III. Che i due imperatori fossero sempre rappresentati di dimensioni uguali prima di questa emissione non è esatto. Molti dei solidi della serie VICTORIA AVGG rappresentano Valentiniano II più piccolo del collega.

Arka

Arka ha ragione. Ma la situzione fu analoga. Teodosio I soccorse Valentiniano II quando Magno Massimo usurpò il trono e s'incontrarono a Tessalonica, ma il soccorso di Costantinopoli ebbe il suo prezzo: la sudditanza di Valentiniano II a Teodosio, e per questo è rappresentato più piccolo, e la mano di Galla, l'adolescente sorella di Valentiniano, che fu impalmata dal non più giovane Teodosio, vedovo con i due figli Arcadio e Onorio.

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Avanza la flotta di Genserico attraversando il Canale di Sicilia alla volta di Cartagine. Qualche decina di navi frumentarie, le più grandi, cariche non di granaglie e olio, ma dei monumenti saccheggiati nella Città eterna; altre, più numerose, di minore dimensione ma più snelle e veloci, anch’esse cariche anche oltre ciò che sarebbe stato prudente; ma soprattutto una miriade di imbarcazioni minori – molte centinaia – anch’esse cariche del frutto del saccheggio e degli armati che lo compirono. Alcune delle navi frumentarie portano a Cartagine un prezioso carico umano: patrizi e senatori romani per i quali i vandali richiederanno un lauto riscatto. A bordo d’una di esse di esse naviga Genserico con alcuni dei suoi uomini più fidati: lo accompagnano, non sanno ancora se ospiti o prigioniere, Licinia Eudossia con le figlie, Eudocia e Placidia. Si trovano in una cabina improvvisata nella stiva della nave, che assicura loro un poco di privacità. Sono state trattate con rispetto, addirittura con garbo. Genserico ha cercato di assicurar loro qualche comodità, nel limite del possibile, e ora dormono distese su spesse coltri che attutiscono la durezza del tavolaccio. In effetti, solo le figliole dormono, che Licinia Eudossia non riesce a prendere sonno.

Avrò fatto la scelta giusta?”, è la domanda che ornai è da una ventina di giorni che si pone a ogni momento. Un paio di giorni prima la flotta dovette affrontare una violenta tempesta e una nave frumentaria, una tra le più grandi, andò perduta. Genserico, che di quando in quando passa a ossequiare le tre passeggere, le disse che andò perduta la grande statua enea di Giove Capitolino, tutta rivestita di foglia d’oro zecchino, e Licinia tacque, ma ne fu soddisfatta: che la più preziosa statua di Roma potesse essere esposta a Cartagine quale trofeo le pareva una beffa davvero inaccettabile.

Le viene da ricordare la sua infanzia, dominata dalla figura opprimente di Pulcheria, dalla mancanza di allegria, dal silenzio, dal frequente raccogliersi in preghiera. Pensava alla subdola rivalità tra sua madre Atenaide e l’augusta sua zia, a quando, piccolina, provava invidia per le figlie delle ancelle che godevano dell’abbraccio materno, che a lei era precluso: a volte Atenaide la stringeva al suo seno e le carezzava i capelli, quando era certa che Pulcheria non l’avrebbe potuta vedere.

Suo padre, l’augusto Teodosio, non era cattivo: mai lo aveva sentito alzare la voce, mai lo aveva visto incollerito. Piuttosto – ma questo lo comprendeva solamente ora che già era vecchia – era un uomo anafettivo, sempre immerso nei suoi studi storici e nella stesura del suo codice. “Un uomo imperatore suo malgrado” le venne da pensare, e le parve la definizione più giusta.

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Solido nuziale di Valentiniano III, probabilmente coniato dalla zecca di Tessalonica, con al rovescio Teodosio stante con Valentiniano e Licinia Eudossia ai suoi lati e legenda FELICITER NVBTIIS; di questo solido, quasi certamente dalla zecca di Tessalonica e che manca nel RIC, ne sono noti solamente quattro esemplari, tutti provenienti dalla stessa coppia di conii.

Una infanzia, la sua, in attesa che si celebrasse il matrimonio con Valentiniano, promessa sposa sin dalla sua nascita. Curiosa nei suoi primi anni di vita, contenta di andare in sposa a un uomo giovane anziché a un vecchio, alle soglie dell’adolescenza, timorosa quando si avvicinava il tempo stabilito per la celebrazione di quelle nozze, vedendo quanto i suoi stessi genitori fossero pentiti di queste promesse nozze, quanto poco stimassero l’augusto Valentiniano e quanto avrebbero desiderato una diversa soluzione, senza tuttavia deciderla, poiché avrebbe messo a repentaglio la pace dinastica.

Quando la celebrazione delle nozze era ormai improcrastinabile, l’augusto Teodosio tentò di restare loro importanza celebrandole a Tessalonica, ma Valentiniano fu inflessibile e volle che il matrimonio fosse contratto a Costantinopoli, con grande lustro. L’imperatore d’Oriente non volle neppure far coniare il consueto solido nuziale, e allora Valentiniano dispose che lo battesse, solo in nome suo, la zecca di Tessalonica.

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E’ vero: quella di mia figlia non è stata una bella infanzia! Scusate, se mi sono intromessa: sono Atenaide, la madre di Licinia Eudossia. Sono entrata senza neppure chiedere il vostro permesso… ma ormai sono qui con voi… Se penso alla mia infanzia nell’agro ateniese, coccolata dal padre mio, Leonzio (ero la sua prediletta), oltre che da mia madre, e la confronto con l’infanzia di mia figlia Licinia Eudossia, non posso se non provare un’infinita pena.

Avete detto il giusto: Teodosio, l’augusto mio sposo, è una persona molto retta, ma purtroppo anaffettivo. Non per sua colpa, ma proprio per essere nato cresciuto a corte. Qui tutto è scandito dall’etichetta ed è questa che ci rende così. Non ci è mai permesso manifestare un sentimento, che dobbiamo sempre essere impassibili e il nostro volto non tradire mai alcuna emozione, né il nostro sguardo alcun interesse. L’imperatore, poi, non ci crederete, ma era un uomo timidissimo.

Mi piace come ha detto mia figlia: imperatore suo malgrado. Un’osservazione acuta la sua, che calza a pennello. Era uno storico, un grande erudito, che amava a dismisura chiudersi nella ricca biblioteca del palazzo, circondato da migliaia di rotoli di pergamena e libroni cuciti con le copertine di legno a confrontare le leggi degli imperatori che lo precedettero, eliminare quelle incoerenti, armonizzarne altre, chiarirne il senso, e infine raggrupparle per materia e creare un’unica enorme legge, che lui chiamava codice del diritto romano. Non amava occuparsi della res publica, che lasciava ben volentieri alle incombenze di Pulcheria.

Già, Pulcheria! Lo dominava totalmente, come una madre domina un figlio gracile e malaticcio. Eppure aveva solamente due anni più di lui.

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Doppia siliqua (miliarense) di Elia Eudossia, madre di Teodosio II (Ric 46).

La loro madre, Elia Eudossia, non era romana, ma franca e Pulcheria ereditò il carattere volitivo di quel popolo. Quando morì lei aveva cinque anni e suo fratello Teodosio appena tre. Flacilla, la primogenita (erano cinque fratelli), morì un anno prima della loro madre, sicché fu lei, Pulcheria, quella che s’impose su tutti, ma anche quella dalla personalità più forte e forse si sarebbe imposta comunque. Poi c’era Arcadia, di un anno maggiore di Teodosio, ma il suo carattere era debole: dolce ma molto debole, un po’ come quello di suo fratello.

E’ vero che lo dominava, ma sarei ingiusta se non riconoscessi che Pulcheria amavo davvero tantissimo Teodosio. Lo apprezzava per la sua intelligenza, per la sua mitezza che ingiustamente qualcuno confondeva con la pusillanimità, per il suo rigore morale e la sua rettitudine. Ma era anche molto ambiziosa, voleva il potere, lo prese, e se lo teneva ben stretto.

Io non fui battezzata per convenienza, ma perché m’incantava il messaggio di pace e di serenità proposto da Gesù, questo suo vedere nell’Onnipotente un padre e non una divinità lontana e indifferente. Ma – devo essere sincera – non sono per niente una persona mite, al contrario! Sono volitiva, facile all’ira e amo il potere e lo voglio, tanto quanto lo ama e lo vuole Pulcheria. Era inevitabile che ci scontrassimo poiché entrambe volevamo che Teodosio compisse la nostra volontà, mentre il poveretto cercava in qualche modo di rabbonire l’una e l’altra, un po’ facendo caso alla sorella e un po’ alla moglie, e così ci scontentava entrambe.

Io amavo tantissimo mia figlia Licinia Eudossia, ma ero schiava dell’etichetta di corte. Mi rendevo conto di quanto soffrisse – quanto mi sarebbe piaciuto donarle anche solo per un giorno un’infanzia come fu la mia! – ma non avevo scelta. Il volto crede che noi, gli augusti, siamo quasi onnipotenti. E’ vero, abbiamo un potere enorme nelle nostre mani, le nostre ricchezze sono quasi infinite, migliaia e migliaia di servi sono in attesa di un nostro cenno per esaudire ogni nostro comando. Ma poi siamo schiavi dell’etichetta di corte: ancor più schiavi del più umile dei nostri servi.

Succhiava ancora il seno della nutrice, la mia Licinia Eudossia (mai mi fu permesse di allattarla: sarebbe stata cosa sconveniente!), che già era stata promessa in sposa a Valentiniano. Chi lo decise? Pulcheria, naturalmente! Ma anch’io intendevo che era la cosa giusta, né, allora, avrei immaginato che l’augusto Valentiniano sarebbe stato un imperatore così poco degno.

Però, se devo essere sincera fino in fondo, e voglio esserlo, a me più di tanto non piaceva “fare la madre”. Io ero una donna di cultura, credevo nel valore della cultura, venivo da una famiglia non ricca di beni, quanto di sapienza, e quale imperatrice romana volli creare una istituzione a Costantinopoli dove si insegnassero le matematiche e l’astronomia, le lettere e la storia, insomma tutto lo scibile, ma nel migliore dei modi: la chiamammo Università degli Studi. In quell’opera, Pulcheria non mi fu d’intralcio, anche se impose che coloro che insegnavano ai giovani fossero sempre cristiani, approvati dal patriarca costantinopolitano. Io, dal canto mio, amavo scrivere in versi esametri e composi un poema per celebrare la vittoria dei romani in Persia, che fu molto apprezzato dall’augusto marito mio.

Seppur pagana, la dimora della nostra famiglia ad Atene ospitava spesso alcuni amici giudei, che sempre ci furono molto cari. Incuriosita dalla loro lingua, dalla scrittura così strana, volli impararla (fui previdente, perché poi mi verrà d’aiuto). Pulcheria detestava i giudei, poiché – diceva lei – erano testardi e rifiutavano di riconoscere il vero Dio; io, invece, li difendevo e cercavo di persuadere l’imperatore affinché promulgasse leggi più miti e tolleranti, mentre mia cognata le chiedeva più impositive. E l’augusto Teodosio, ora ne leniva la durezza, ora ne inaspriva i castighi.

Trascorrevano gli anni senza ch’io riuscissi a partorire un erede al trono. Ebbi un figliuolo maschio, Arcadio fu il suo nome, ma raggiunse ben presto il mondo degli Inferi. Poi, quando Licinia Eudossia aveva già otto anni, nacque Flacilla. Fu un parto terribile e disperai di uscirne con vita: invece sopravvivemmo entrambe ma il verdetto unanime di tutti i medici ai quali ricorremmo fu che ormai non avevo più alcuna possibilità di partorire. Ma la vita di Flacilla fu breve.

Per l’augusto Teodosio sapersi senza un discendente maschio al quale trasmettere lo scettro del potere fu terribile e me ne fece una colpa che mai mi perdonò.

Fu per questo che non appena Licinia Eudossia convogliò a nozze e io rimasi sola, con la sola compagni dell’ostilità dell’augusto marito mio e di Pulcheria, chiesi licenza di compiere un pellegrinaggio a Gerusalemme, accompagnata dalla patrizia Melania che sempre mi fu sinceramente amica. Entrambi accolsero con sollievo la mia richiesta e mi permisero partire alla volta di Gerusalemme: era la primavera della VI indizione, essendo consoli Teodosio e Fausto (anno Domini 438)”.

Antvwala

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Credo che questa bellissima ricostruzione storica di Ant meriterebbe di essere salvata (quando terminata) e postata a parte nei contributi al Forum o alle sue piattaforme in modo da restare a disposizione per ogni successiva consultazione da parte di studiosi e interessati.

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Vorrei farvi notare come la mia Licinia Eudossia stesse ancora succhiando il latte dalle mammelle della nutrice, eppure il suo futuro matrimonio, e con esso il destino della sua vita, era già stato deciso: dagli uomini, naturalmente, che noi donna non siamo nient’altro che oggetti decorativi, che una merce di scambio!

Atenaide

E’ quanto successe a Eudocia, la mia figlia primogenita. I suoi primi dentini avevano da poco fatto la loro comparsa, è già era stata promessa in sposa al figlio del re vandalo!

Licinia Eudossia

Fui sempre gelosa dell’augusto fratello mio, fin da bambina, ora ne sono pienamente cosciente. Capivo ciò che lui non comprendeva, m’interessavo all’arte del buon governo quando lui si annoiava, imparavo ad essere un’augusta mentre lui si dedicava a soddisfare i suoi piaceri anche illeciti. Non mi pareva giusto non essere io l’imperatrice reggente quando avevo sacrificato tutta me stessa per esserlo, essere messa a parte, allontanata dalla corte.

Ma non è tutto. Credo che lo stimolo che più d’ogni altro mi condusse a fare la scelta che feci – e che non rinnego certamente! – e a comportarmi come mi comportai, fu il desiderio di emulare la madre mia, l’augusta Galla Placidia; di compiere quegli stessi gesti che lei compì trent’anni prima di me; dimostrarle quanto fossi brava nel seguire il suo esempio sino a portarlo a compimento. Arroganza, superbia, orgoglio, vanità: queste le mie colpe. Imperdonabili, è vero. Ma mai cedetti alla lussuria, mai volli la disgrazia della repubblica: quelle sono colpe che non ho.

La superbia acceca. Credevo nella mia arroganza di muovere le fila di coloro che mi stavano attorno, come avviene nel teatrino greco con le maschere. Invece – ora me ne avvedo bene – ero io la maschera del teatrino ed erano gli altri coloro che muovano le fila mentre io danzavo la loro marcia, dimenavo le mie braccia e le mie gambe, scuotevo il mio capo, così come loro tiravano i fili dall’alto dello scenario. Credevo di porre Attila e gli Unni al servizio di Roma, di usarli per riconquistare le provincie perdute, mentre coloro che manovravano le cordicelle alle quali era legato ogni organo del mio corpo, avevano obiettivi più modesti ma ben più concreti: la madre mia voleva allontanare il generale Aezio, l’augusta Pulcheria distruggere l’eunuco Crisafio, l’imperatore Teodosio mantenere subordinato il suo augusto cugino. Credevo di essere artefice della mia vita e addirittura una protagonista della Storia, quella con la S maiuscola, e invece non ero nient’altro che uno strumento nelle loro mani. Alla conclusione di tutto, solamente l’augusta Pulcheria ottenne quanto voleva e, avendolo ottenuto, dimenticò persino il mio volto”.

Giusta Grata Onoria

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Ma chi credete ch’io sia? Un’erinne malvagia? Sono forse Megera? oppure Aletto? o forse Tisifone? Pensate ch’io nacqui dal sangue di Urano evirato? Io son Pulcheria, figlia dell’augusto Arcadio e sorella dell’augusto Teodosio! Augusta io stessa, ho governato per quarant’anni l’impero d’Oriente al posto di mio fratello, dando prosperità alle sue provincie, migliorando lo stato dei più umili, e soprattutto difendendo sempre la vera fede in Cristo!

Siete ingiuste nelle vostre parole: lo sei tu, Elia Eudocia che preferisci essere ancora chiamata Atenaide svilendo il battesimo ricevuto (ma non mi stupisce, giacché se sempre stata una filo- giudea); lo sei tu Licinia Eudossia che grazie a me diventasti imperatrice dei romano d’Occidente; e ancor più lo sei tu, Giusta Grata Onoria, che trovasti in me chi prese le tue parti quando dopo aver rotto il tuo voto di castità giungesti a Costantinopoli chiedendo il nostro aiuto, e l’ottenesti.

Lo sei anche tu, sconosciuto Antvwala, che commenti le nostre parole in modo così poco obiettivo… ma tu stesso scrivesti che saresti stato di parte – eccome che lo sei! – in quanto innamorato di Onoria. Riconosco il tuo buon gusto nell’amare Onoria, stante la sua bellezza e, soprattutto, la sua grande intelligenza: ma questo non giustifica la tua smaccata mancanza d’imparzialità!

Mi avete persino accusata di complicità nella morte di Ipazia, quasi ne fossi stata io la mandante. Ho difeso il vescovo Cirillo e ho impedito che fosse processato, è vero: ma pensate questo processo, se si fosse svolto, quale danno avrebbe provocato alla fede nel vero Dio? Io ho lamentato la morte di Ipazia, una terribile morte, ma non posso dimenticare che Ipazia era pagana, fedele ai riti misterici del Serapeo: aveva un grande fascino, ma con il suo fascino corrompeva le menti dei giovani, facendo loro credere che il sole fosse al centro dell’universo, contraddicendo le Sacre Scritture, e che le orbite degli astri planetari obbedissero alle leggi della matematica, anziché al comando divino. E io avrei dovuto permettere che si processasse un vescovo della vera Fede per difendere te, Ipazia, arrogante pagana?

Almeno tu, augusta Galla Placidia, non ti sei unita a questo coro di calunnie. Ma mi sarei aspettata da parte tua di leggere parole in mia difesa. O ti sei scordata che il fratello mio, l’augusto Teodosio, voleva riconoscere Giovanni quale imperatore d’Occidente? Che già aveva conferito a Flavio Castino, che tanto ti avversava la mia augusta madre, il consolato per la VII indizione insieme a Flavio Vittore (anno Domini 424)? L’augusto fratello mio tutto avrebbe accettato, pur di evitare un intervento dell’esercito di Costantinopoli contro quello di Roma. Io lo convinsi a prendere le tue parti, a nominare il figlio tuo Valentiniano quale suo cesare, a fornirti un esercito per riprendere il trono dell’Occidente, a conferire la porpora al tuo figlio, che poi ne fu così indegno, essendone per un decennio tu la reggente. Dimentichi tutto questo, augusta Galla Placidia?

Non è facile essere donna e mantenere il timone del governo nelle proprie mani. Questo gli uomini lo avversano. Forse che noi donne abbiamo minore intelligenza? Minore capacità per comprendere e risolvere i problemi? Meno energia per governare? Nulla di tutto ciò. Solo, noi donne, non abbiamo quel minuscolo e lascivo organo tra le gambe. Solo questo ci separa dagli uomini. E’ forse quell’organo serpentiforme che dà agli uomini la capacità di porsi al di sopra della donna?

Nulla avete scritto su quanto io feci proprio per valorizzare la donna, affinché ci fosse riconosciuta dagli uomini pari dignità. E lo feci nel modo migliore, quello davvero indiscutibile: rivendicando il ruolo della donna nell’Onnipotente, denunciando la femminilità nella stessa Trinità divina.

Fu Celestino a indire il I Concilio a Efeso, quello dove si affermò che la natura umana e divina del Cristo sono inscindibili e che, pertanto, Maria madre di Gesù, è madre anche della sua natura divina: per quello è giusto chiamarla Theotokos, anziché Christotokos. Ma se credete che questi siano sofismi, vi sbagliate di grosso. Quando si tenne quel Concilio, dietro c’era la nostra volontà, mia e dell’augusta Placidia. A Costantinopoli e a Roma c’erano due auguste quali reggenti: era dunque giunto il momento di valorizzare il ruolo di Maria, e attraverso il suo, il ruolo della donna, che non va collocata al margine, ma a quel centro che le corrisponde. L’essere umano ha bisogno dell’aspetto femminile della divinità, non ne può fare a meno, anche se gli uomini vogliono contenere il ruolo delle donne.

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Le vierges ouvrantes, frequenti sino al Rinascimento, sono la corretta rappresentazione iconografica di Maria madre di Dio (Theotokos) e non solo madre della mera natura umana di Cristo (Christotokos). Le implicazioni teologiche sono enormi. Se Maria è madre di Dio nella sua integrità, e quindi nelle tre Persone che lo compongono, essendo Dio infinito ed eterno, lo è anche Maria. Ella, dunque, viene a essere parte stessa dell'essenza divina. Per questa ragione, le rappresentazioni delle Vierges Ouvrantes furono distrutte dai Protestanti e anche dai Cattolici dopo la Controriforma perché considerate teologicamente fuorvianti ed ora ne restano in tutto solo una quarantina. Esse subirono addirittura la condanna papale di Benedetto XIV nel 1745. Tuttavia anche se di fatto l’idea di “Maria madre di Dio” è considerata eretica, formalmente non è stata mai cancellata per non dover smentire una risoluzione teologica adottata in un Concilio ecumenico.

Tutti i culti degli antichi stanno morendo, anche se sopravvivono nelle campagne e dove il popolo è più incolto. Tutti, tranne uno, il culto di Iside, della grande Madre. Ma ora sì che sta morendo anch’esso poiché abbiamo offerto ai fedeli una vera grande Madre da venerare e nella quale confidare, allo stesso modo come agli imperatori è data la presenza di un’augusta nella quale confidare e dalla quale ricevere consiglio. Come vedete, riaffermare che Maria è madre di Dio, non solo della natura umana del Cristo, significa difendere il nostro ruolo. L’eunuco Crisafio sostiene gli eretici monofisiti, come Dioscoro ed Eutiche perché attraverso questa eresia vuole sminuire il ruolo delle auguste, allontanarci dalla Corte. Ecco perché non dovete credere che dietro le dispute teologiche ci siano solamente dei sofismi: esse nascondono, invece, le lotte che si svolgono nel cuore delle Corti e delle sedi vescovili per impugnare lo scettro, tanto dell’Impero, quanto della Chiesa. Diamo a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio. Diamo a Costantinopoli il primato del governo dell’impero e a Roma quello della chiesa”.

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Sono di nuovo io, che vi parlo, Licinia Eudossia.

Avevo meno di quindici anni quando sposai l’augusto Valentiniano. La cerimonia parve non terminare mai: prima, durante e dopo sempre qualcuno mi diceva cosa dovessi dire e fare, come muovermi o non muovermi, dove dirigere il mio sguardo. Mai come allora trovai opprimente l’etichetta. Fu quella la prima volta che vidi il mio sposo, che era ben ritratto nelle miniature che di quando in quando da Ravenna ci furono inviate alla corte: era giovane, piacevole e soprattutto era un imperatore e avrebbe fatto di me un’imperatrice. Quanto si è stolti quando si è ancora così giovani e non si sa nulla della vita! Mi sembrava che dopo tanti anni trascorsi nel palazzo, dove la vita scorreva monotona e scandita dal richiamo delle preghiere, finalmente avrei iniziato a vivere davvero!

Ottobre volgeva già alla fine e la navigazione non era più possibile: perciò pochi giorni dopo lo sposalizio raggiungemmo Tessalonica lungo l’antica via consolare, seguiti da una imponente scorta: colà attendemmo l’inizio primavera, quando si celebra la pittoresca festa del carrus navalis che contrassegna la riapertura della navigazione marittima. All’inizio di marzo c’imbarcammo alla volta di Salona, dove fummo accolti con grandi festeggiamenti e la celebrazione di giochi equestri e fummo ospitati nel palazzo che fu del grande imperatore Diocleziano. Quindi attraversammo il mare Adriatico, alla volta del porto di Ancona e, infine, giungemmo a Classe, il porto ravennate. Marzo volgeva al suo termine. Era una giornata grigia e nebbiosa quando entrammo a Ravenna per insediarci nel Sacrum Palatium e mi parve tutto molto deludente: Ravenna, con le sue strade strette e tristi, il palatium, non brutto ma così modesto rispetto a quello in cui ero vissuta sino ad allora…

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Il Sacro Palazzo di Ravenna. Mosaico di S. Apollinare Nuovo (Ravenna)

Licinia cara, permetti all’augusta Onoria, che ti fu sorella più che cognata, di dirti quanto compresi la tua delusione.

Ero appena una bimbetta quando viaggiai a Costantinopoli. Mia madre l’augusta Galla Placidia, fuggendo dalla vendetta del suo fratellastro, l’imperatore Onorio, aveva una tempesta nel cuore e la notte nell’anima quando dal bordo della nave divisammo il profilo della capitale d’Oriente. Ma io ero troppo piccola per rendermene conto, ero appena nel mio sesto anno di vita.

Ricordo il viaggio sulla galea, anche se in modo molto confuso. Tutto m’incuriosiva, avevo sempre delle domande da porre, mi sembrava di vivere un’avventura. Mio fratello Valentiniano, che non aveva ancora la dignità di augusto, invece, si annoiava e non provava curiosità per nulla. Ma quando giungemmo a Costantinopoli, rimasi sbigottita! Ravenna era un borgo misero e sporco, al suo confronto! E anche Roma, nonostante la sua vastità e tutti i suoi monumenti, non poteva rivaleggiare in bellezza con la capitale dell’Oriente.

Era il pomeriggio inoltrato di una bella giornata degli ultimi giorni della primavera quando Costantinopoli apparve ai miei occhi: alle mie spalle il sole era basso e davanti a me, sulla sponda collinosa, si distendeva una città incredibile, dove i tetti e le cupole erano d’oro! Mi fu spiegato che m’ingannavo, che sembravano tali, ma erano ricoperti da tegole di rame dorato: ma le spiegazioni non m’interessavano; da allora nella mia fantasia Costantinopoli rimase l’Urbe dai mille tetti d’oro. A mano a mano che ci avvicinavano al porto, la città acquistava vita: le strade salivano e scendevano per la collina, affollate da una miriade di persone, portantine, cavalieri sui loro cavalli: non riuscivo a staccarmi da quell’immagine e dovettero insistere per far sì che mi preparassi a sbarcare. Ero eccitatissima, mentre la mia augusta madre sembrava triste, preoccupata.

Attendemmo a lungo in un grande salone nel palazzo del magister del porto, mentre un servitore si recò a corte per dare notizia del nostro arrivo. Era già prossima la notte quando finalmente vennero a riceverci con alcune lettighe. Mentre percorrevamo una via che saliva verso il sacro palazzo, disubbidendo alla madre mia, scostavo leggermente la cortina per guardare fuori: allora dimenticai gli insegnamenti dei miei precettori che insistevano affinché non mostrassi mai segno di giubilo, né di pena, né di stupore. Ma come non stupire vedendo che la via era tutta illuminata da lumi posti sulle facciate delle case, e così pure le vie laterali che sbucavano in quella che percorrevamo: era come se il cielo stellato, anziché restare immoto lodando la gloria di Dio, fosse disceso sino a noi, celebrando la gloria della capitale d’Oriente.

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Costantinopoli (da un codice medioevale miniato).

Mentre a Roma, ovunque si guardasse, si vedevano enormi palazzi e templi un tempo maestosi ma ora trascurati, quando addirittura non ridotti a rovina, a Costantinopoli tutto era nuovo e ovunque si vedevano edifici in costruzione. Nonostante ormai fosse notte, per le strade vi era tale vivacità che pareva fosse l’ora quando il sole, nel suo percorso intorno alla terra, raggiunge la sua massima altezza nel cielo.

Il Sacro Palazzo pareva una città dentro della città, circondata dalle mura e con una suntuosa porta d’entrata, presidiata da numerosi legionari: al suo interno, palazzi e basiliche, corti e fontane, obelischi e oratori. Come potrei non comprendere la tua delusione, Licinia Eudossia che mi sei tanto cara, quando giungesti nella nebbiosa e piccola Ravenna!”.

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Chiedo scusa se m'intrometto: preferisco che siano le protagoniste a narrare le loro vicende e restare nascosto in un angolino. Non ho neppure ribattuto quanto scrisse Pulcheria, eppure non condivido quasi nulla di ciò che disse. Ma è giusto ch'io me ne stia da parte.

Piuttosto non vorrei che voi possiate credere che quanto narrano Atenaide, Onoria, Licinia, Pulcheria, sia frutto di fantasia, che così non è.

Forse pensate che la descrizione di Costantinopoli con le sue vie di notte illuminate da mille e mille luci sia il sogno di una bimba che non ha ancora sei anni. Ma non è così.

Quello che ci raccontano le protagoniste-antagoniste di questa lunga vicenda corrisponde assolutamente a verità, almeno alla verità così come è interpretata da ognuna di loro, e le loro parole sono corroborate dai cronisti coevi, tanto da sembrare parole che citano i cronisti.

Per esempio, la descrizione di Costantinopoli è soprattutto tratta d Procopio (De Aedificiis). Sapevate che Costantinopoli fu la prima città del mondo antico ad avere un'illuminazione notturna nelle strade? La sua realizzazione ebbe inizio già alla fine del IV secolo e venne completata per opera del praefectus Ciro di Panopoli, molto legato ad Atenaide, tra il 426 e il 441, estendendosi a tutte le vie principali della città, sbalordendo i viaggiatori del tempo, per cui in alcuni cronisti se ne trova meravigliata menzione.

Antvwala

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