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Storia di Roma e delle sue monete


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INTRODUZIONE

 

La storiografia romana antica è carente e contraddittoria in materia di monetazione.

L’unico riferimento alle origini è un passo di Plinio[1], in cui si afferma che “Servius rex primus signavit aes. Antea rudi usos Romae Timaeus tradit. Signatum est nota pecudum unde et pecunia appellata” (“Il re Servio [Tullio] per primo segnò il[2] bronzo. Timeo[3] riferisce che a Roma, in precedenza, era in uso il[4] [bronzo] rude[5]. [Il bronzo] fu segnato con un’immagine di pecore e perciò [le monete] furono chiamate «pecunia»”). Questo passo è tuttavia ritenuto attendibile solo in ordine al fatto che venisse usato bronzo rude e poi segnato, mentre il riferimento a Servio Tullio è oggi ritenuto leggendario.

La moneta più importante della storia di Roma, che continuò a essere emessa per molti secoli e si diffuse in tutto il mondo antico, fu il denario, moneta in argento. La data di introduzione del denario è molto dibattuta, come si vedrà; anche riguardo a essa abbiamo due testimonianze di Plinio[6], che però non aiutano perché sono molto oscure e parzialmente contraddittorie. La prima testimonianza afferma “Populus Romanus ne argento quidem signato ante Pyrrhum regem devictum usus est” (“Il popolo romano neppure usò argento segnato prima della sconfitta del re Pirro”, avvenuta nel 275 a.C.). La seconda invece riferisce che “Argentum signatum anno urbis CCCCLXXXV Q. Ogulnio C. Fabio coss. quinque annis ante primum Punicum bellum. Et placuit denarium pro X libris aeris valere” (“L’argento [fu] segnato quando erano consoli Quinto Ogulnio e Gaio Fabio, nell’anno 485 della città, cinque anni prima della prima guerra punica. E si decise che il denario avesse valore di 10 libre di bronzo”; l’anno indicato è il 269 a.C.): si noti che le due frasi, quella sull’ “argentum signatum” e quella sul “denarium”, sono giustapposte; considerato che l’opera di Plinio è estremamente sintetica, non è detto che egli parli in entrambre della stessa moneta.

A partire da un certo anno in poi si verificò a Roma un fenomeno unico nella storia antica (e forse anche moderna): l’iconografia[7] dei denarî cambiava ogni anno; la città che dominava ormai il mondo poteva infatti permettersi il lusso di emettere migliaia di monete differenti e nessuno, nel suo vasto impero, dubitava che quei dischetti d’argento provenissero dall’Urbe. Questa mutevolezza si spiega con la volontà dei nobili che prestavano la loro opera come monetieri (ossia la magistratura preposta all’emissione delle monete, in Latino “tresviri aere argento auro flando feriundo”, “tre uomini responsabili di fondere e battere bronzo, argento e oro”), di utilizzare le immagini impresse sulle monete per fare pubblicità alla propria gens (e quindi, indirettamente, a sé stessi). Questa situazione ha portato gli studiosi moderni a cercare di indovinare l’anno esatto di emissione di ogni moneta (tenendo conto che in uno stesso anno potevano esserne emesse anche più di una); non c’è alcuna sicurezza su queste datazioni, però sono state ottenute incrociano una serie indizi[8] e pertanto si possono ritenere abbastanza indicative, per il periodo più antico (fine del IV e III secolo a.C.), e sostanzialmente attendibili, per quello più recente (II e I secolo a.C.). Questi sforzi sono stati raccolti e compendiati da Michael Crawford in un’opera fondamentale, Roman Republican Coinage, edito nel 1974, in cui egli elenca tutte le monete note al suo tempo (alcune, rarissime, sono state scoperte dopo[9]), le raccoglie in “serie”, assegna loro un numero di elenco e ne propone la datazione. Quindi, quando si trova scritto nei testi di numismatica “RRC 100/1” oppure “Cr. 100/1” significa “la moneta che Crawford, nel libro «Roman Republican Coinage», elenca come la n. 1 della serie n. 100”.

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Esistevano nell’antichità due tecniche per produrre le monete, fusione e coniazione.

Nella fusione, l’immagine della moneta viene riprodotta in negativo all’interno di uno stampo (di terracotta o, in epoca moderna, di materiali sintetici), dopo di che viene fatto colare il metallo fuso all’interno dello stampo; quando il metallo si raffredda viene aperto lo stampo e se ne estrae la moneta. I disegni che nell’antichità si potevano ottenere con questa tecnica erano, tuttavia, molto molto grezzi.

Nella coniazione, invece, l’immagine della moneta viene riprodotta in negativo sulla faccia di un’incudine e su quella di un martello, detto “martello di conio” o anche solo “conio”. A questo punto si appoggia sull’incudine un dischetto di metallo riscaldato, detto “tondello” (preparato prima, per fusione) e lo si batte con forza con il martello, imprimendovi così il disegno. La coniazione, a differenza della fusione, permette di realizzare monete con disegni piccolissimi e precisissimi.

Osservando le differenze nei disegni delle singole monete (dovute al fatto che i conî venivano incisi a mano), si può oggi distinguere quali di esse provengono dallo stesso conio e, quindi, calcolare quanti conî sono stati usati per produrre i pezzi giunti fino a noi. Supponendo che ciascun conio di rovescio venisse sostituito, a causa dell’usura, dopo che erano state battute (secondo le diverse opinioni degli esperti moderni) da 10.000 a 30.000 monete (un po’ meno per quelli di dritto, maggiormente esposti all’usura), si può oggi stimare il volume di emissione di una moneta; talvolta, ammonta a milioni di pezzi.

Quando si illustrano le due facce di una moneta, ci si riferisce a esse come “dritto” e “rovescio”. Nelle monete coniate, il dritto è la faccia risultante dal colpo di martello, il rovescio quella appoggiata sull’incudine. Siccome inoltre i Romani avevano l’abitudine di raffigurare spesso, al dritto, la testa di un dio (e in seguito quella dell'imperatore), si parla di “dritto” anche per le monete fuse, con riferimento alla faccia su cui è presente tale testa.

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Viene naturale chiedersi, a questo punto, quanto valevano le monete romane?

Possiamo farcene un’idea con riferimento alla metà del II secolo a.C. Polibio infatti narra (II, 14, 35) che in Gallia Cisalpina, ove egli si recò fra il 151 e il 150, “un medimno siciliano di frumento costa per lo più 4 oboli, uno d’orzo 1 obolo e un metrete di vino costa quanto un medimno di orzo”; egli stesso riferisce che l’obolo, moneta di tradizione greca, era cambiato per 2 assi romani. Considerato che un medimno (misura di capacità corrispondente a 51,8 l) poteva contenere circa 40 kg di grano mentre il metrete era paro a 39 l, si ricava che con una asse si potevano comprare 5 kg di grano o 20 l di vino. Si capisce tuttavia, dal resoconto di Polibio, che egli riteneva questi prezzi estremamente bassi; supponendo che a Roma essi fossero circa 5 volte più elevati[10], ne consegue che con un asse si potesse comprare 1 kg di grano oppure 4 litri di vino (non pregiato).

Si può quindi affermare che a metà del II secolo a.C. un asse valeva circa 4 €[11]; per quanto riguarda il denario, non sappiamo se all’epoca fosse cambiato a 10 o 16 assi (ci fu una riforma, proprio in quegli anni), per cui poteva valere da 40 a 65 €. Ovviamente, prima di tale data l’asse valeva di più, in seguito invece di meno (perché ci fu un costante fenomeno di svalutazione, nei secoli). Sappiamo che un secolo dopo, ossia alla metà del I secolo a.C., i braccianti di Pompeo ricevevano da 5 a 16 assi al giorno.

NOTE

[1]     Naturalis Historia, XXXIII, 3, 13.

[2]     Nel senso di “fece apporre un segno al”.

[3]     Storico di cui non ci è pervenuta l’opera.

[4]     Letteralmente: “riferisce gli utilizzi in precedenza, a Roma, del”.

[5]     Nel senso di “grezzo”.

[6]     Naturalis Historia, XXXIII, 42 e XXXIII, 44

[7]     In numismatica, per “iconografia” o “tipologia” si intende la scelta dei “tipi”, ossia dei disegni riportati sulle due facce delle monete.

[8]     Fra cui: i risultati archeologici (se una moneta è rinvenuta nelle rovine di un tempio distrutto nell’anno X a.C., deve essere precedente; se due monete sono rinvenute assieme e una è nuovissima, l’altra molto usurata, è probabile che la seconda sia stata emessa prima); il peso (nei secoli, il peso delle monete è diminuito sempre più); l’identificazione del monetiere (se una moneta è firmata “Pinco Pallo” e sappiamo che un certo Pinco Pallo è stato console nell’anno X, supponendo che sia la medesima persona se ne ricava che possa essere stato monetiere alcuni anni prima di X); il significato delle immagini (una moneta che inneggia alle vittorie di Silla non può essere stata emessa quando a Roma governavano i seguaci di Mario).

[9]     Tutte le monete repubblicane oggi note possono essere visionate nell’archivio al link https://numismatica-classica.lamoneta.it/.

[10]   A conferma di questa supposizione rileva la notizia per cui, poco dopo il 124 a.C., la lex frumentaria di Gaio Gracco impose di riabbassare i prezzi del grano (che, nel frattempo, erano aumentati) a 6 assi al modio; considerato che un modio (circa 8,75 litri) poteva contenere circa 7 kg di grano, si ricava che Gracco fece riabbassare i prezzi a 1 asse per 1,15 kg.

[11]     Solo per dare un’idea, dato che un conto esatto imporrebbe di conoscere il prezzo di un ampio paniere di prodotti.

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QUANDO A ROMA GOVERNAVANO I RE

 

In origine, a Roma si diffuse l’idea che anziché barattare le merci fra loro, fosse più utile scambiarle con un bene prezioso e durevole; nacque così l’idea di barattare il bronzo con le merci. Questa cosa la sappiamo per quattro motivi: perché è stato così in tutte le civiltà di cui si hanno notizie (seppure usando beni-rifugio differenti: argento, conchiglie, etc.); perché ce lo riferisce Plinio (“rudi usos Romae”); perché ne resta memoria nel diritto romano, che prevede una serie di accordi compiuti “per aes et libram” (letteralmente “per mezzo del bronzo e di una bilancia”, ossia quindi “pesando il bronzo ricevuto in cambio”); e, infine, perché ci sono importanti testimonianze archeologiche, dato che sussistono diversi casi in cui i pezzi informi di bronzo sono stati rinvenuti insieme a monete vere e proprie. Interessantissimo, in proposito, è il deposito votivo scoperto nel 1852 a Vicarello e ora parzialmente ricostruito nei sotterranei del Museo Nazionale Romano: infatti, si trattava di un pozzo dove i fedeli gettavano una moneta (come oggi si fa a Fontana di Trevi) e lo strato più basso era composto da pezzi di bronzo informe; subito sopra di essi c’erano monete del tipo “aes grave” (di cui si dirà nel prosieguo), a testimonianza che i pezzi informi avevano effettivamente una funzione di tipo monetale ed erano in uso prima dell’aes grave.

Per questo tipo di proto-moneta si usa oggi il termine di aes rude (sulla base del citato passo di Plinio, “rudi …”); il suo utilizzo è attestato in contesti archeologici databili dall’VIII secolo a.C. (forse, addirittura dall’XI) sino al IV. Quando Romolo fondava Roma, gli scambi si facevano con l’aes rude.

Fra i pezzi di bronzo rinvenuti in contesti archeologici alcuni non sono informi, ma presentano forme ben precise, di natura geometrica (gocce, barre, lingotti, dischi, etc.) o naturalistica (ghiande, astragali, etc.). Non c’è alcunché di strano: se il bronzo veniva scambiato a peso, ben si poteva utilizzare anche metallo dotato di una forma, magari anche per immagazzinarlo meglio. Peraltro, fra quelli di forma geometrica, molti risultano frammenti, ossia sono stati tagliati (a caldo) per ottenere lo specifico peso di cui c’era bisogno. Alcuni studiosi usano la locuzione (inventata) aes formatum per distinguere queste proto-monete da quelle informi, ma sono solo un tipo di aes rude.

È importante fare una precisazione: qualunque pezzo di bronzo poteva essere scambiato a peso, per cui oggi c’è un unico modo per distinguere un vero aes rude o formatum da un qualunque altro pezzo di bronzo, ossia ritrovarlo in un preciso contesto archeologico (come a Vicarello); poiché tuttavia i reperti archeologici non possono essere liberamente venduti, ne consegue che non c’è alcun modo di sapere se i pezzi in bronzo venduti da negozi e case d’asta siano effettivamente aera ruda o meno. Si possono inserire in collezione al fine di “riempire un vuoto”, ma occorre sapere che non c’è alcuna possibilità di avere certezza che siano antichi e, quand’anche lo fossero, di sapere se siano stati veramente scambiati a peso (e quindi effettivamente utilizzati come aera ruda) o fossero solo residui di fonderia.

Un discorso a parte deve essere fatto per molti oggetti a forma di conchiglia, spesso in piombo e talvolta in bronzo, che vengono rinvenuti in scavi archeologici (databili ai secoli VI-III a.C.) eseguiti nella Pianura Padana e nell’area governata dagli Etruschi. Alcuni studiosi (ad esempio Franco Pezzi, Conchiglie di piombo, Mantova 2010) ipotizzano che siano proto-monete (e, quindi, aes formatum), ma altri non sono d’accordo e propongono che si tratti di oggetti votivi (spesso presentano un forellino di sospensione; la conchiglia simboleggiava la vulva, quindi la fecondità), oppure proiettili asimmetrici per le fionde o ancora pesi per le bilance. L’ipotesi più probabile è che si trattasse di decorazioni o paracolpi per utensili fittili, cui venivano saldate con mastici, argilla o di piombo fuso (spesso infatti presentano tracce di terracotta sulla faccia piatta), oppure di piedini per pentole metalliche. Comunque sia, nulla esclude che le conchiglie in bronzo venissero anch’esse scambiate a peso, come aes formatum, quando occorreva.

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A partire da una certa data, ai pezzi di aes rude e formatum cominciano ad aggiungersi altri, che recano un segno inciso nel metallo. Si parla al riguardo, sulla base del citato brano di Plinio, di aes signatum; sotto questo nome si distinguono, tuttavia, tre categorie di oggetti abbastanza differenti.

La prima categoria è composta pezzi di bronzo sostanzialmente informi, che recano tuttavia una o più contromarche (cioè, disegni elementari o lettere incise nel metallo). I più diffusi, rinvenuti sia in varie località dell’Italia centrale sia nei Balcani, presentano due contromarche sulle facce contrapposte, una costituita da un punto centrale e 4 raggi che se ne dipartono, l’altra da un arco di cerchio; si ritiene che raffigurino rispettivamente il sole e la luna. Haeberlin, importante numismatico tedesco del XIX secolo, dopo aver esaminato numerosi esemplari di questa tipologia di aes precisa che su altri pezzi esistono anche le combinazioni sole/nulla, sole/sole e luna/luna.

Una seconda categoria, molto interessante, è quella del cosiddetto “ramo secco”. Si tratta di lingotti di bronzo a forma di parallelepipedo schiacciato, di peso variabile e fattura grezza, che recano un'immagine in rilievo somigliante a un ramo privo di foglie (più raramente sono presenti altri segni, altrettanto grezzi: lisca di pesce, clava, delfino, crescente lunare), la cui esatta natura è tuttavia discussa (secondo alcuni autori sono un espediente tecnico per far fuoriuscire i gas durante la fusione, oppure segni utili a facilitarne la frammentazione). I lingotti con “ramo secco” sono stati rinvenuti in tutta la penisola e in Sicilia, interi o (più spesso) tagliati in frammenti; quelli interi hanno pesi compresi fra 0,8 e 2,1 kg.

Il fascino del “ramo secco” è quello di costituire un oggetto sicuramente utilizzato a Roma (esemplari sono stati infatti rinvenuti in scavi eseguiti in città) e sicuramente databile all’epoca in cui i re governavano sull’Urbe: infatti, un frammento di 0,425 kg rinvenuto presso il santuario di Bitalemi (Sicilia), in uno strato sigillato databile al periodo 570-540 a.C.[1], dimostra l’esistenza di questi manufatti nel VI secolo a.C.

Una terza categoria di aes signatum è costituito da un altro genere di lingotti di bronzo, che si distinguono dai “ramo secco” per una iconografia più varia ed elaborata, una forma più definita, un peso più leggero ma anche più omogeneo (tra i 1,8 e 1,2 kg), definiti correntemente “quadrilateri”. A differenza dei “ramo secco”, sono molto rari. Gli studiosi sono concordi nel ritenere che siano stati prodotti a Roma (un tipo presenta anche la legenda “ROMANOM”, forma arcaica per Romanorum); Crawford, inoltre, è convinto che avessero funzione monetale, per cui li elenca nel RRC. Giova comunque precisare che altri studiosi non sono così sicuri che i quadrilateri fossero monete, sebbene indubbiamente alcuni siano stati rinvenuti in ripostigli[2] (a Santa Marinella, La Bruna, Ariccia) assieme a esemplari di aes grave.

Ci si potrebbe chiedere, a questo punto, se uno dei tipi di aes formatum noti possa essere quello di cui parla Plinio, inventato da Servio Tullio (che avrebbe regnato dal 578 al 535 a.C.), e permetta così di affermare che la moneta, a Roma, è nata nel VI secolo a.C.; la risposta, tuttavia, sembra essere negativa. In primo luogo, se quella testimonianza fosse attendibile la prima moneta romana dovrebbe essere stata un lingotto con pecora, ma un simile lingotto non è stato rinvenuto (il che ovviamente rende improbabile, ma non impossibile, che sia esistito). I lingotti romani che ci sono pervenuti - ossia i quadrilateri -, peraltro, sono molto posteriori all’epoca regia, probabilmente dell’epoca compresa fra la fine del IV secolo a.C. e gli inizi del III, come dimostrano i ripostigli[3], la legenda ROMANOM (che, ancorché arcaica, appare molto posteriore al Latino di epoca regia, attestato dal lapis niger e dalla fibula praenestina) e la circostanza che un tipo rechi l’elefante (animale ignoto ai Roma prima della guerra contro Pirro, iniziata nel 280 a.C.). Certo, il “ramo secco” esisteva già all’epoca di Servio Tullio, ma non è affatto sicuro che avesse uno scopo monetale (è stato rinvenuto in contesti votivi a Bitalemi e a Terravecchia di Grammichele, ma qualunque oggetto d'arte o di valore, non solo le monete, può costituire l'offerta a un dio) e comunque la sua ampia diffusione fa ritenere che non fosse un manufatto esclusivamente romano (Roma, ai tempi di Servio Tullio, esercitava la sua influenza politica e commerciale su un territorio molto più piccolo). Il passo di Plinio non può quindi essere accettato alla lettera; probabilmente non è vero che la moneta, in Italia, sia stata inventata da Servio Tullio.

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Come detto, varie civiltà arcaiche usavano un sistema proto-monetale consistente nel baratto tra le merci e un metallo prezioso; la moneta vera e propria nacque quando alcune autorità statali decisero di far punzonare questi metalli, per garantirne il peso (e quindi il valore) e velocizzare, così, i commerci (perché diveniva inutile pesare il metallo). Questa evoluzione si verificò dapprima in Cina (tra l’VIII e il VII secolo a.C.), poi, in modo separato e indipendente, in Asia Minore. Qui infatti era tradizione scambiare le merci con palline di elettro (una lega di argento e oro); a un certo punto (secondo la tradizione, nel VI secolo a.C., a opera di Creso re della Lidia; secondo gli studiosi moderni prima, attorno alla metà del VII secolo a.C.) i governanti cominciarono a far punzonare queste palline, che presentavano quindi un segno “in incuso” (cioè incavato, rispetto alla superficie della moneta). Poco dopo si cominciò ad apporre un segno anche sull’incudine e nacque, così, la tecnica della coniazione; inoltre, furono prodotte anche monete d’argento, oltre che di elettro.

La moneta ricosse subito un grande successo; tutte le città greche dell’Asia Minore cominciarono a produrla e a diffonderla, attraverso la loro fitta rete di contatti commerciali, in tutto il mediterraneo, occidente compreso.

Tornando alla Roma arcaica, sembra strano che all’epoca dei re dentro l'Urbe non si usassero monete (come si vedrà in seguito, le prime monete romane, aes grave e monete romano-campane, sono probabilmente databili alla fine del IV secolo a.C.) e ci si limitasse a ricorrere al baratto fra le merci e il bronzo a peso (aes rude e formatum). Si ritiene, infatti, che il tempio eretto nel Foro Boario nel 495 a.C. (l’Ara massima di Ercole) non fosse altro che la monumentalizzazione di un altare preesistente (e, quindi, risalente all’epoca regia), dedicato a una divinità locale assimilata al fenicio Melqart, protettore dei mercanti; sarebbe quindi questa una testimonianza indiretta che in quel luogo in epoca antichissima, addirittura prima della fondazione di Roma, esistesse un sito di scambio fra merci portate dai mercanti fenici e prodotti locali, ma è tuttavia difficile immaginare l’esistenza di scambi commerciali di portata addirittura internazionale senza l’utilizzo di un qualche genere di moneta.

Per queste ragioni, uno studioso[4] ha ipotizzato che la Roma arcaica non abbia emesso proprie monete perché utilizzava proprio monete greche arcaiche; non c’è alcuna prova archeologica al riguardo, però c’è un importante indizio. Infatti, tra il 1862 e il 1867 sono stati rinvenuti una serie di ripostigli di piccole monete di tipo ionico, risalenti al VI-V secolo a.C., a Morella e Pont de Molins (in Spagna), Auriol[5] (presso Marsiglia, città fondata dai Greci) e Volterra, città etrusca; ciò dimostra che gli Etruschi utilizzavano monete greche. Siccome a Roma, nel VI secolo a.C., dominava una stirpe etrusca (i Tarquini), è molto probabile che monete analoghe siano state utilizzate anche nell’Urbe.

NOTE

[1]     Si definisce “sigillato”, in archeologia, uno strato di terreno che appare chiaramente separato dagli strati sovrastanti (generati da eventi o attività successivi), senza interruzioni o intrusioni (causate da riutilizzo del terreno, erosione, contaminazione o distruzione) che potrebbero averne alterato il contesto originario. Gli oggetti rinvenuti in uno strato sigillato sono sicuramente databili all’epoca dello strato. Su questi scavi ha scritto Piero Orlandini in “Annali dell'Istituto Italiano di Numismatica”, 1965-1967.

[2]     È molto frequente trovare gruppi di monete duranti gli scavi, perché nell’antichità nasconderle era un modo per conservare i propri risparmi; tali gruppi sono oggi definiti “ripostigli” o “tesoretti”.

[3]     È bene notare, tuttavia, che i ripostigli, anche quando possono essere datati con relativa sicurezza (come negli strati sigillati), forniscono solo indizi e non certezze sull’epoca di emissione delle monete, perché non si sa per quanto tempo esse abbiano circolato prima di essere state nascoste.

[4]     Amisano, La storia di Roma antica e le sue monete, vol. 1, 2004.

[5]     Siccome il rinvenimento di Auriol è il più numeroso (circa 2.130 monete), si parla al riguardo di “monetazione tipo Auriol”.

 

ILLUSTRAZIONI

Esposizione di aes del Museo nazionale Romano. Al centro, frammenti di aes rude raccolti in una bilancia. In alto, due quadrilateri, RRC 4/1 (con pegaso e ROMANOM) e RRC 7/1 (con raffigurazione di uno scudo). A destra, un “ramo secco”

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Ricostruzione del deposito di Vicarello, dal Museo Nazionale Romano

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Ramosecco del Museo Civico Archeologico "A.C. Simonini"

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Il "ramosecco" rinvenuto a Bitalemi

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Monetazione "tipo Auriol" rinvenuta a Volterra

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L’INSTAURAZIONE DELLA REPUBBLICA

 

Nei primi due secoli della sua storia la Repubblica lottò per la propria stessa sopravvivenza, sopraffatta dai molti che la ritenevano, a torto, troppo debole per sopravvivere. I Romani affrontarono allora prove che avrebbero potuto essere fatali; il ricordo di quegli eventi, seppur enfatizzati, rimase impresso nella loro memoria.

Nel 509 a.C. Tarquinio il Superbo fu cacciato da Roma da due suoi parenti, Lucio Giunio Bruto e Lucio Tarquinio Collatino, che furono poi eletti primi consoli della Repubblica.

Il re, tuttavia, non si rassegnò e, pur di riconquistare il trono, cercò l’alleanza dei nemici di Roma. Dapprima chiese l’aiuto di Lars Porsenna, lucumone[1] di Clusium (odierna Chiusi), che nel 508-507 assediò Roma, ma si ritirò accontentandosi di imporre all’Urbe il pagamento di pesanti tributi, senza restaurare la monarchia.

Tarquinio si rivolse allora a Ottavio Mamilio, dittatore di Tuscolo, che aggregò un’alleanza di popoli latini decisi a liberarsi del giogo di Roma, la Lega Latina. Nel 496 a.C. scoppiò la guerra; la battaglia decisiva fu combattuta al lago Regillo (oggi prosciugato) e in quell’occasione i Latini furono sul punto di vincere e schiacciare il nemico. Giunsero, allora, due giovani e sconosciuti guerrieri su cavalli bianchi, che con il loro valore trascinarono l’esercito romano alla vittoria; compiuta l’impresa, galopparono verso Roma dove annunciarono al popolo la sconfitta di Tarquinio e fecero abbeverare i cavalli nella vasca del Foro. Essi erano i Dioscuri, mitici principi Spartani figli di Giove (chiamati per questo “ragazzi di Zeus”, Διός Kύροι).

Nel 439 a.C. un ricco demagogo plebeo, Spurio Melio, tentò di farsi nominare re dal popolo; fu ucciso da Gaio Servilio Strutto Ahala, magister equitum (cioè, sostanzialmente, il vice del dittatore, che nell’occasione era il celeberrimo Lucio Quinzio Cincinnato), che così salvò la Repubblica.

Nel 396 a.C., all’esito di un assedio durato addirittura 10 anni, Roma conquistò la città etrusca di Veio.

Attorno al 400 a.C. una tribù di Celti[2], i Galli Senoni, al comando del re Brenno valicò le Alpi intenzionata a stabilirsi in Italia[3] e nel 391 a.C. pose l’assedio a Clusium, che chiese l’aiuto di Roma. L’Urbe inviò propri ambasciatori, che tuttavia si comportarono con arroganza; Brenno decise allora di condurre il suo esercito contro Roma e nel 390 si scontrò con due legioni, presso il fiume Allia (affluente del Tevere). I soldati romani si diedero alla fuga non appena sentirono le grida dei nemici: fu una disfatta e i Galli, stupiti anch’essi da un così facile successo, saccheggiarono la città, mentre i Romani si asserragliavano sul Campidoglio. Solo i senatori mantennero la calma glaciale che si confaceva loro: si fecero trovare seduti sui loro scranni, talmente immobili e impassibili da sembrare statue. Un Gallo provò a tirare la barba a uno di loro, e quegli lo colpì col suo bastone; allora i nemici capirono che erano uomini e li uccisero. Brenno si ritirò solo dopo aver inferto innumerevoli sofferenze e ricevuto un ricchissimo riscatto dai Romani.

Dopo un così brutale saccheggio, molti cittadini proposero di abbandonare i colli sul Tevere, rivelatisi difficili da difendere, e rifondare l’Urbe sul sito di Veio; mentre la discussione ferveva un centurione in transito, forse spazientitosi, fece piantare la sua insegna militare al centro del Foro e sentenziò: “hic manemibus optime” (“resteremo benissimo qui”). Nessuno ebbe il coraggio di contraddirlo, e Roma fu ricostruita là dove era nata.

I Romani riuscirono a infiggere una dura sconfitta ai Senoni solo nel 360 a.C., quando Tito Manlio Imperioso li vinse presso il ponte sull'Aniene e si guadagnò il cognomen Torquatus per aver sottratto la torque (una sorta di girocollo indossato dai guerrieri celti) a un nemico, in duello. I Galli si ritirarono allora verso il territorio delle attuali Marche e da lì si diffusero progressivamente in tutta la Pianura Padana.

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L’umiliazione e le sofferenze subite per la codardia delle legioni, fuggite davanti al nemico nella battaglia dell’Allia, segnarono per sempre la coscienza collettiva romana. Fu quello il momento, secondo gli storici moderni, in cui nacque l’incredibile capacità di resilienza di Roma: da allora in poi, infatti, Roma non si arrese più e, anche quando i suoi eserciti furono sconfitti e letteralmente distrutti da forze maggiori (come a Canne, Arausio, Carre e Teutoburgo), si ripresentò sempre con nuove truppe, caparbiamente determinata a cercare a ogni costo la vittoria finale. Questo loro spirito indomito è pertanto definito, oggi, il “complesso dell’Allia”.

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Si venne così a definire la geografia dei popoli che, nei secoli successivi, Roma dovette combattere per espandere il proprio dominio.

La Pianura Padana, dominata da popolazioni celtiche, fu denominata Gallia Cisalpina.

La popolazione dell’Italia[4] era invece divisa tra tre stirpi: i popoli che vi abitavano prima dell’arrivo degli Indoeuropei, soprattutto Etruschi (chiamati anche Tirreni o Tusci, che in passato avevano esteso il loro dominio dalla pianura veneta a quella campana, dove pertanto si trovavano città, come Capua, da loro fondate) e Liguri; gli Italici, una congerie di nazioni indoeuropee (Latini, Sabini, Equi, Piceni, Volsci, Umbri, Sanniti, Apuli, Osci, etc.) diffusasi sul territorio, a macchia di leopardo, a partire dal X secolo a.C.; e gli Italioti, abitanti delle colonie fondate da Greci a partire dall’VIII secolo a.C., cumulativamente chiamate “Magna Grecia”[5].

Anche la Sicilia presentava una tripartizione analoga, tra Elimi (popolazione preesistente), Siculi (Indoeuropei, arrivati dall'Italia) e Sicelioti (abitanti delle colonie greche).

La Sardegna era invece abitata da un’antica popolazione di origine ignota, i Sardi.

Su entrambe le isole maggiori, inoltre, si andava estendendo il dominio di Cartagine, potente colonia fenicia, che arrivò nel III secolo a.C. ad assoggettare tutta la porzione meridionale della Sardegna e quella occidentale della Sicilia (nella parte orientale dominava, invece, la colonia greca di Siracusa).

NOTE

[1]        Massima carica del governo nelle città etrusche.

[2]        I Celti erano una stirpe indoeuropea che, grazie a un grande valore guerresco, aveva dilagato per l’Europa. Erano Celti, fra gli altri, i Galli, i Celtiberi (stanziati nella penisola Iberica) e i Gàlati (stanziati in Anatolia).

[3]        È bene precisare che il termine “Italia”, per i Romani dell’epoca repubblicana, non comprendeva la Pianura Padana né le isole; pertanto, nel presente scritto, viene sempre usato in tale accezione.

[4]        Si veda la nota precedente.

[5]        Si noti che la locuzione “Magna Grecia” comprendeva le sole colonie greche dell’Italia, non quelle della Sicilia o della Provenza.

 

ILLUSTRAZIONI

La vasca-abbeveratoio del Foro, ritrovata nel 1587 e collocata nel 1818 sul Quirinale, a formare una fontana insieme a due statue dei Dioscuri provenienti dalle terme di Costantino. Ovviamente, all'epoca della battaglia del lago Regillo doveva esisterne una versione antecedente

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"To be continued" ...

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14 ore fa, gioal dice:

Questa discussione è talmente bella, autorevole e di rilievo che andrebbe messa tra le importanti.

Da parte mia per comodità di lettura l'ho trasferita in un file pdf, che  riesco ad allegare in due parti.

 

Grazie. Quando l'avrò finita, metterò io il file pdf compelto

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LA PRIMA GUERRA SANNITICA E LA MONETAZIONE ROMANO-CAMPANA

 

La monetazione romano-campana nasce da un fatto straordinario: la deditio di Capua.

A metà del IV secolo a.C. Roma era una potenza regionale, che controllava a fatica il Lazio, dopo aver inferto una dura sconfitta ai Galli nella battaglia dell’Aniene (360 a.C.). La più popolosa città italica era invece, probabilmente, la ricchissima Capua, fondata dagli Etruschi quando i loro possedimenti si estendevano a sud fino alla Campania.

Nel 343 a.C. gli ambasciatori di Capua si presentarono al Senato, chiedendo la protezione di Roma contro le pressioni di un bellicoso popolo che la minacciava, i Sanniti. Il Senato negò questa protezione, in quanto aveva precedentemente stipulato un patto di non aggressione con i Sanniti, e allora accadde l’incredibile: gli ambasciatori “regalarono” Capua - con tutti i suoi beni, i suoi edifici e i suoi cittadini - a Roma, che ne facesse ciò che voleva. Tanta era l’autorità dell’Urbe, che i cittadini della più grande città italica preferirono rischiare di essere fatti schiavi, pur di entrare sotto la sua egida; questa fu la deditio di Capua. Costretti da questa mossa, i Romani entrarono in guerra contro i Sanniti per proteggere la città campana divenuta loro proprietà, e li sconfissero nel 341 a.C.

I Latini, erroneamente convinti che la guerra sannitica avesse prostrato Roma, approfittarono per tradirla e nel 340 a.C., alleatisi con i Volsci, la attaccarono; ripetutamente sconfitti, furono debellati nel 338 a.C.

Nell’occasione, i Romani vinsero il primo grande scontro navale della loro storia, la battaglia di Anzio (in realtà avvenuta al largo di Astura, ove oggi si erge l’omonima torre); smontarono allora i rostri delle navi nemiche, li portarono nell’Urbe e - a perenne memoria di quello evento - li collocarono come ornamenti ai lati della tribuna del Foro, da cui i magistrati parlavano alla folla. Tale tribuna, da allora, fu chiamata per sineddoche “rostra”.

Con l’annessione di Capua, Roma espanse il suo dominio in Campania; ne furono intimorite le altre due città che aspiravano a dominare quella regione, Nola (controllata dai Sanniti) e Taranto (il più importante centro della Magna Grecia). Nel 328 a.C. tutte e tre le città inviarono proprî ambasciatori nell’altro potente centro campano, la magno-greca Neapolis, chiedendone l’alleanza. Una fazione di Napoletani si schierò con i Sanniti, facendo entrare un loro esercito in città; accorsero allora le legioni e cinsero Neapolis d’assedio. Si ribellò la fazione favorevole a Roma e, con uno stratagemma, convinse i Sanniti ad allontanarsi. Fu così che nel 327 o 326 a.C. Roma e Neapolis strinsero un patto di alleanza, il foedus neapolitanum, che diede avvio a una stabile e duratura amicizia fra le due città. Per celebrare questo evento, quell’anno Neapolis emise una propria piccola moneta in bronzo, sostituendo la legenda NEAΠOΛITΩΝ con ΡΩΜΑΙΩΝ (in genitivo plurale); faceva così la sua comparsa una prima moneta coniata “dei Romani”, RRC 1/1, oggi estremamente rara.

Pochi anni dopo i Romani sentirono il bisogno di collegare stabilmente i due più grandi centri urbani dello Stato, Roma stessa e Capua. Fu così che nel 312 a.C. il censore Appio Claudio Cieco avviò i lavori per la costruzione della prima strada al mondo, la via Appia, terminata nel 308; per pagare i lavori fu emessa la prima, vera moneta romana coniata, (tenuto conto che RRC 1/1 aveva forse una funzione meramente commemorativa): la RRC 13/1; portava anch’essa la legenda in genitivo plurale, ma in Latino arcaico, ROMANO.

Dopo di allora, i Romani cominciarono a usare monete in argento e bronzo, che si ritiene che siano state coniate, per conto dell’Urbe, in zecche campane (molte, forse, proprio a Capua) e sono quindi definite “monete romano-campane”. La loro datazione è discussa, ma dovrebbe comunque risalire agli inizi del III secolo a.C.

Queste emissioni assomigliavano a quelle magno-greche per lo stile dei disegni, per il valore nominale (in particolare, le monete in argento erano didracme, ossia valevano due dracme; il valore di quelle in bronzo è invece dubbio, perché anche in ambiente italiota ce n’era una grande varietà) e per l’adozione di una legenda al genitivo maschile plurale (ROMANO; le monete greche erano infatti monete “dei popoli”, non “delle città”). Per quanto riguarda l’iconografia, talvolta essa di chiara ispirazione magno-greca (un bronzo copia, addirittura, una moneta dell’Egitto), ma non mancano tipi prettamente romani, come la lupa che allatta i gemelli sulla didracma RRC 20/1.

Particolarmente curioso è, in questo periodo, il bronzo di cui ci sono pervenute le quantità più grandi, RRC 17/1. Anch’esso reca la legenda ROMANO, ma esiste una grande varietà di errori ortografici (ROMAO, ROMAAO, ROMAAC, ROMAAOC, ROMNAO, ROMANC, ROMAAN, etc.); in alcuni casi le lettere latine sono frammiste a quelle greche (ROMΛΛC, ROΛNWO). Questo testimonia che gli incisori non conoscevano bene l’alfabeto latino essendo, probabilmente, di cultura greca; ma forse testimonia anche che, in un’epoca così antica, la scrittura era talmente poco diffusa che il Governo romano non aveva problemi a immettere in circolazione anche le monete “sbagliate”.

 

ILLUSTRAZIONI

La moneta di bronzo RRC 1/1, con legenda in Greco.

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La didracma RRC 13/1.

Di questa moneta sono noti 15 conî al dritto e 20 al rovescio; fu quindi, probabilmente, un'emissione abbondante. Babelon e Grueber la datano al 335 a.C., Coarelli al 326-312, Breglia al 320, Pedroni al 275, Crawford inizialmente (nel RRC) al 280 ma poi (in Coinage & Money under the Roman Republic, 1985) al 310, collegandola appunto ai lavori per l’Appia. Sembra quindi realistico datarla a fine IV secolo. È discusso il significato dell’iconografia; potrebbe essere una copia di tipi magno-greci, ma alcuni autori credono che si tratti di una precisa scelta legata alla tradizione di Roma: secondo Coarelli, infatti, la moneta richiama, al dritto, l’immagine dell’ara Martis e rinvia, quindi, al lustrum che concludeva la censura, mentre al rovescio allude la cavalleria e la Campania; complessivamente sarebbe quindi un’allusione a una recognitio equitum (censimento di cavalieri) campani che potrebbe essere avvenuta a seguito della concessione della cittadinanza optimo iure ai Capuani (avvenuta dopo il 338-334). Pedroni ritiene invece che la moneta alluda alla cerimonia, tipicamente romana, dell’October equus.

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Il bronzo RRC 16/1

 

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La didracma RRC 20/1

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Esemplari di RRC 17/1 con differenti legende (corretta la prima, errate le altre)

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LA SCONFITTA DEI SANNITI E LA MONETAZIONE COLONIALE

 

Alla fine del IV secolo Roma adottò un nuovo strumento per assicurarsi il controllo sui territorî italici strappati ai nemici: la deduzione di colonie di diritto latino. Si trattava di gruppi di ex soldati romani, inviati[1] con le proprie famiglie a fondare una città-roccaforte in una posizione strategica[2], con la certezza che sarebbero rimasti fedeli a Roma e avrebbero difeso i confini da incursioni nemiche o rivolte. Si poneva tuttavia il problema di coordinare queste iniziative con una costituzione che era ancora improntata al modello della città-Stato: ammettere che questi cittadini lontani potessero partecipare alle votazioni romane avrebbe creato gravi squilibri politici, oltre a evidenti difficoltà esecutive (i Romani votavano riunendosi tutti assieme nel Campo Marzio). Fu adottato uno stratagemma: a queste nuove colonie fu attribuito il “diritto latino”[3], nel senso che i loro cittadini sarebbero stati trattati - sul piano giuridico - come se fossero stati Latini[4]; ciò avrebbe permesso loro di godere di quasi tutti i diritti dei cives Romani, ma non di partecipare alla vita politica romana. Le colonie di diritto latino erano quindi fortezze di ex legionari, circondate da mura possenti, impiantate in territorî ostili.

La prima colonia di diritto latino fu probabilmente Cales (odierna Calvi Risorta), dedotta nel 335 a.C.; nel 328 ne fu fondata un’altra a Fregellae (città oggi scomparsa), in un territorio che i Sanniti consideravano come proprio e questo riaccese lo scontro tra Roma e il Sannio: nel 326 a.C. (anno del foedus Neapolitanum) scoppiò così la seconda guerra Sannitica. Nel 321 le legioni romane, mentre marciavano verso la città alleata di Luceria (odierna Lucera) per liberarla dall’assedio sannita, caddero in trappola e furono catturate; i Sanniti, sperando con ciò di spingere Roma ad accettare la pace, decisero di liberare i legionari, ma prima li umiliarono costringendoli a passare sotto le Forche Caudine. Erennio Ponzio, anziano politico sannita, sconsigliò questo trattamento, affermando che i Romani potevano solo essere trattati da amici oppure uccisi, perché “il popolo romano è fatto in modo tale da non sapersi rassegnare alla condizione di vinto. Sarà sempre vivo nei loro cuori il ricordo del marchio d'infamia [delle Forche Caudine] … fino a quando non vi avranno ripagato con una pena molte volte superiore”. Egli aveva capito che Roma poteva essere solo blandita o spezzata, ma mai piegata. Così fu: la guerra proseguì e i Sanniti, ripetutamente sconfitti, si arresero nel 304.

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Durante gli ultimi anni di guerra Roma aveva dedotto molte altre colonie di diritto latino, con l’evidente scopo di tagliare in due il territorio nemico; fra di esse si possono ricordare la stessa Luceria nel 314 a.C., Cales (che dovette essere riconquistata dopo essere stata presa dai Sanniti), Suessa Aurunca (odierna Sessa Aurunca) e Caiatia (odierna Caiazzo) nel 313, Nola nel 312. Molte di queste colonie emisero monete di bronzo identiche fra loro (di due tipi, uno con la testa di Apollo al dritto e la figura del toro androprosopo[5] al rovescio, l’altro con la testa di Minerva al dritto e un gallo e una stella al rovescio), differenziate solo nella legenda che recava l’indicazione del popolo che le aveva emesse[6]. Questo fenomeno, comunemente definito “monetazione latino-campana”, è sostanzialmente analogo a quello che si verificherà più di due millenni dopo con l’euro: popolazioni formalmente indipendenti emisero monete identiche e intercambiabili fra loro, limitandosi a indicare il proprio nome al rovescio. Un numismatico[7] ha evidenziato come questo sistema monetario sia stato, probabilmente, imposto da Roma, desiderosa che le proprie colonie si dotassero di una moneta comune, e lo data pertanto al 310 a.C. circa, anno in cui l’Urbe completò la rete di città-fortezza destinata controllare i bellicosi Sanniti; Altri studiosi propongono che esso sia del 272-240 a.C., ma l’ipotesi della fine del IV secolo sembra più plausibile.

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Le colonie non emisero solamente monete coniate, ma anche pesanti pezzi di aes grave; anzi è probabile, vista la cronologia delle conquiste romane, che la maggior parte dei pezzi di aes grave italico (se non, addirittura, tutti) siano stati emessi da popoli e città dopo che erano stati assoggettati a Roma, oppure trasformati in colonia.

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Nacque così il fenomeno della “monetazione coloniale”, poi evoluto in quello della “monetazione provinciale”. In sostanza, nel territorio controllato da Roma hanno sempre circolato sia le monete emesse da Roma stessa, sia quelle (normalmente definite “provinciali”, ma che per quanto riguarda l’Italia - che non fu mai assoggettata a provincia - è preferibile definire “coloniali”) emesse invece da altre città o popoli da essa assorbiti o assoggettati. Questo fatto, che sembra anomalo a noi moderni, si spiega facilmente considerando due fattori, uno politico e uno economico.

Da un punto di vista politico, il dominio di Roma non si presentava (almeno sino alla constitutio Antoniniana del 212 d.C.) come un moderno Stato unitario, bensì come un coacervo di persone e comunità che rispettavano la supremazia romana, ma soggiacevano a differenti regimi giuridici[8] e, pertanto, godevano di differenti livelli di autonomia; è quindi perfettamente coerente che ad alcuni di essi Roma lasciasse la facoltà di battere la propria moneta.

Da un punto di vista economico, si deve tener conto che il trasporto di oggetti pesanti aveva, all’epoca, un costo importante (soprattutto quello via mare, sempre esposto al rischio di affondamenti); era quindi insensato emettere monete a Roma e trasportarle in una terra lontana, soprattutto se il costo di trasporto era pari o addirittura superiore al loro valore; non poteva non conseguirne, come deliberata scelta di governo oppure come naturale fenomeno di mercato, che fossero prodotte in loco. A conferma di ciò rileva come le monete provinciali erano principalmente in bronzo, raramente in argento e mai in oro, proprio perché a parità di peso (e, quindi, di costi di trasporto) il bronzo aveva un valore inferiore all’argento e molto inferiore all’oro.

Le monete coloniali e provinciali del periodo repubblicano non sono state studiate come fenomeno omogeneo,

né catalogate nei moderni elenchi di monete romane[9]; tuttavia, è innegabile che esse fossero, da un punto di vista sociale e fattuale se non giuridico, “romane”, tanto quanto le città che le hanno emesse.

La monetazione coloniale e repubblicana provinciale è una testimonianza, tangibile, dell’espansione di Roma nel Mediterraneo.

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La pace con i Sanniti durò poco: nel 298 a.C. essi attaccarono i Lucani, che chiesero e ottennero l’aiuto di Roma; scoppiò così la terza guerra sannitica. Nel 295 a.C. fu combattuta una grande battaglia presso il lago Sentino, in cui si scontrarono gli eserciti di quasi tutte le popolazioni italiche (Sanniti, Etruschi, Umbri e Galli) alleatesi contro Roma; solo i Piceni rimasero fedeli all’alleanza con l’Urbe. Vinse l’esercito romano, guidato dal console Appio Claudio Cieco (lo stesso che aveva promosso la costruzione della via Appia). Dopo altre battaglie i Sanniti si dichiararono definitivamente sconfitti nel 290 a.C.

NOTE

[1]        Si parla di “deduzione” delle colonie, appunto perché i loro abitanti venivano deducti (“condotti fuori”) dal territorio romano.

[2]        Spesso le colonie venivano dedotte presso cittadine italiche preesistenti.

[3]        In precedenza erano state invece fondate colonie di pieno diritto romano (ad esempio, Fidene, Ostia o Anzio), ma erano più vicine alla capitale e quindi venivano immaginate come “quartieri distaccati” dell’Urbe. Dal II secolo cominciarono invece a essere fondate, anche lontano da Roma, colonie di diritto sia romano sia romano, secondo le convenienze; ad esempio, fra nel 194 e nel 192 a.C. furono fondate rispettivamente Crotone e Valentia (odierna Vibo Valentia), la prima di diritto romano, la seconda latino.

[4]        Interessante notare come i “veri” Latini, i Prisci Latini, dopo la sconfitta del 338 a.C. erano ormai destinati a scomparire come popoli autonomi, venendo progressivamente assorbiti e assimilati da Roma.

[5]        Cioè, con testa umana.

[6]        AQUINO (abitanti di Aquinum), CAIATINO (Caiatia), CALENO (Cales), SVESANO (Suesa Aurunca), TIANO (Teanum Sidicinum). In alcuni casi la legenda è in Greco (NΩΛAI per Nola, ΛAPINΩN per Larinum) o in dialetti italici (KVΠELTEPNVM per Cumpulteria, TIANUD per Teanum, VEINAE forse per Venafrum).

[7]        Pedroni, Ricerche sulla prima monetazione di Roma, 1993.

[8]        Cittadini romani a pieno titolo (optimo iure) o senza diritto di voto (sine suffragio), compresi quelli dei municipia e delle colonie di diritto romano; Latini, soprattutto quelli delle colonie di diritto latino; popolazioni a vario titolo alleate (socii, foederati, amici populi Romani) e, a partire alla costituzione della prima provincia (la Sicilia, tra il 241 e il 227 a.C.), i cittadini provinciali che, formalmente, erano in una situazione paragonabile a quella di stranieri sottomessi al potere militare.

[9]        Per quelle del periodo imperiale (e tardo repubblicano), invece, esiste anche un catalogo unitario denominato Roman Provincial Coinage (in sigla, RPC) edito in dieci volumi tra il 1992 e il 2006.

 

ILLUSTRAZIONI

Bronzi  latino-campani di Teanum, Cales e Caitia

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Asse fuso di Luceria (Thurlow-Vecchi 280). 

L’iconografia del R/ riprende quella di una didracma romana, RRC 15/1. 

Vincenzo La Notte data questa emissione al 314 a.C. in occasione della deduzione della colonia. Altri studiosi, sulla base del peso (allineato a quello dell’aes grave semilibrale di Roma) propongono un data tra il 225 e il 212. Se questo asse fosse effettivamente del 314 a.C., essa testimonierebbe che Roma adottava in epoca arcaica, per le colonie, un asse semilibrale. Si noti la grafia arcaica della “L”, con angolo acuto anziché retto, tipica dell’alfabeto osco.

 

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LA GUERRA CONTRO TARANTO E CONTRO CARTAGINE

 

L’allargamento del dominio romano verso l’Apulia, realizzato proprio con la deduzione della colonia di Luceria, impensierì la più potente città magno-greca, Taranto, unica colonia fondata da Sparta fuori dal Peloponneso. Dopo un primo limitato scontro Roma inviò propri ambasciatori, chiedendo la pace, ma furono apertamente scherniti dalla popolazione; il Senato dichiarò allora guerra e nel 281 a.C. un esercito romano strinse d’assedio la città nemica. Rimasta senza alleati in Italia (Neapolis aveva stretto il foedus di alleanza con Roma, i Sanniti erano stati sconfitti), Taranto chiese l’aiuto di Pirro, re dell’Epiro, cugino di Alessandro Magno (più esattamente, erano cugini i loro genitori) e famoso generale che aveva già, al suo attivo, numerose vittorie.

Pirro sbarcò in Italia 280 a.C. con oltre 30.000 soldati (compresi i rinforzi ricevuti dalla Magna Grecia) e 20 elefanti da guerra, convinto che avrebbe emulato, contro i “barbari” dell’occidente, le epiche gesta con cui suo cugino aveva sottomesso i popoli dell’Asia. Roma, che nel medesimo periodo conduceva anche un’altra guerra contro gli Etruschi, mobilitò circa 72.000 soldati (8 legioni e altrettanti socii), ma solo 18.000 di essi poterono essere mandati contro Pirro. Nel primo scontro, a Eraclea, gli elefanti impaurirono i Romani che subirono così una sconfitta; l’esercito nemico lasciò tuttavia sul campo ben 4.000 morti, talché Pirro commentò amaramente “Un'altra vittoria come questa e sono rovinato”. Il re inviò allora ambasciatori al Senato, proponendo una tregua, ma l’ormai anziano Appio Claudio Cieco convinse i compatrioti a non accettare. Rimasto in gravi difficoltà logistiche, Pirro si spostò in Sicilia, deciso a cacciare dall’isola i Cartaginesi, che tuttavia si arroccarono a Lilybaeum (odierna Marsala); tornò in Italia per aiutare Taranto, nuovamente posta sotto assedio dalle legioni, ma fu pesantemente sconfitto nel 275 a.C. a Maleventum (da allora ribattezzata Beneventum) e decise di tornare in Epiro. All’improvviso, in tutto il Mediterraneo si diffuse la fama di questa remota città “barbara” che aveva sconfitto e umiliato il cugino di Alessandro Magno; nel 273 giunsero a Roma gli ambasciatori di Tolomeo Filadelfo, re d’Egitto e figlio del diadoco, che chiesero e ottennero di stipulare un trattato di amicizia.

Taranto fu conquistata nel 272 a.C., dopo tre anni d’assedio; Rhegium (odierna Reggio Calabria), ultima città magno-greca indipendente, nel 271. Roma era padrona dell’Italia.

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Nel 265 a.C. i Mamertini (un gruppo di mercenarî campani impadronitisi del governo di Messana, odierna Messina), minacciati da entrambe le due potenze che si spartivano il governo dell’isola, Cartagine e Siracusa, chiesero l’aiuto di Roma. Il Senato rimise la decisione ai comizî, e il popolo decise di intervenire; nel 264 a.C. le legioni sbarcavano a Messina. Era iniziata la prima guerra punica. Nel 263 a.C. Siracusa, posta sotto assedio, decise di capitolare e firmò un trattato di alleanza con Roma; ne nacque un’amicizia salda e duratura. L’esercito cartaginese, invece, si ritirò sino ad Akragas (odierna Agrigento), che pure fu posta sotto assedio ed espugnata con la forza nel 261 a.C.

Una moneta romana, oggi rarissima, è testimone di questi epici avvenimenti: la didracma RRC 22/1 che reca al dritto (forse, per la prima volta nella storia romana) la personificazione di Roma e al rovescio, invece, la Vittoria che offre un ramo di palma. Sappiamo da Livio che l’uso di offrire rami di palma ai vincitori di gare atletiche (come oggi si fa con le coppe) fu introdotto in occasione dei Ludi Romani del 293, per cui possiamo dedurre che questa moneta celebri una grande vittoria di Roma, successiva a tale data, ma ci si domanda quale. Per Breglia essa celebra la vittoria del lago di Sentino; per Amisano, la conquista di Akragas. Per Crawford, che la data al 265-242 a.C., è invece un messaggio propagandistico nell’ambito della Prima Guerra Punica, con il significato di “Roma trionferà!”. Pedroni e Coarelli ritengono invece che essa celebri i due avvenimenti che avevano sancito l’ascesa di Roma a potenza mediterranea, l’accordo d’amicizia con l’Egitto e la presa di Taranto; sarebbero infatti state coniate ad Alessandria, in attuazione di clausole contenute nel trattato, con l’argento depredato alla città Magno-Greca nel 272[1].

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Vinte le battaglie su terra, la Repubblica doveva riuscire a contrastare il dominio cartaginese sul mare. Accortasi che le quinqueremi puniche erano molto superiori alle proprie, poche navi da guerra, Roma ne individuò una affondata a la recuperò dal fondo del mare, per studiarne la fattura; dopodiché avviò la costruzione delle proprie quinqueremi, mentre in contemporanea addestrava 30.000 futuri rematori (in massima parte contadini non avvezzi al mare) su finte navi realizzate sulla spiaggia. Il primo scontro navale, nel 260 alle isole Lipari, fu un disastro, ma subito dopo Roma prevalse sconfiggendo duramente la flotta cartaginese al largo di Mylae (odierna Milazzo). Fu un evento incredibile: l’Urbe aveva inventato una flotta da guerra praticamente dal nulla, e aveva sopraffatto la più grande potenza navale dell’epoca.

Rinvigoriti dai successi, i Romani decisero di attaccare direttamente Cartagine e nel 256 a.C. un esercito di circa 10.000 uomini, al comando di Attilio Regolo, dopo aver forzato il blocco navale cartaginese (vincendo la più grande battaglia sul mare dell’antichità presso Capo Ecnomo, ove si scontrarono oltre 700 navi) sbarcò in Africa. Possiamo solo immaginare lo stato d’animo dei Romani: poco più di 100 anni prima i loro avi combattevano per la sopravvivenza della propria stessa città nella battaglia dell’Aniene, praticamente quindi alle porte di casa; ora essi, conquistata tutta la penisola e la Sicilia, si trovavano sulla spiaggia di un altro continente, decisi ad affrontare un nemico feroce e temuto. Inizialmente la campagna volse a favore delle legioni, che sconfissero i difensori e occuparono Tunisi.

A questo punto, la Fortuna voltò le spalle ai Romani: il Senato, convinto che la fine della guerra fosse a portata di mano, fece tornare in Italia parte dell’esercito; Cartagine, dal canto suo, ottenne l’aiuto di Santippo, generale spartano, che prese la guida delle truppe puniche; Regolo, infine, fu precipitoso nello scendere a battaglia, nel timore che un altro generale sarebbe arrivato da Roma a rubargli una vittoria che riteneva ormai prossima. Fu una pesante sconfitta per le legioni, distrutte dai nemici; Attilio Regolo fu fatto prigioniero. Nel frattempo la guerra continuava in Sicilia: non solo i Cartaginesi, guidati da un nuovo e valente generale, Amilcare Barca (futuro padre di Annibale), ottennero numerosi successi, ma Roma perse anche centinaia di navi da guerra in due disastrose tempeste (nel 253 e nel 249).

Nel 243 a.C., dopo oltre 20 anni di guerra, le due città erano allo stremo, prive di navi e di risorse. Fu allora che giunse in patria Attilio Regolo, inviato da Cartagine affinché convincesse i compatrioti a pattuire una tregua: davanti al Senato, tuttavia, egli rivelò che le condizioni economiche del nemico erano disperate e consigliò di trovare un modo per proseguire la guerra e abbatterlo; dopo di che, da vero Romano, tornò spontaneamente a Cartagine, affinché lo mettessero a morte per aver violato l’impego di chiedere la pace. Il Senato tentò una mossa disperata: chiese ai cittadini romani di prestare tutte le loro ricchezze per la costruzione di una nuova flotta. I Romani risposero all’appello: si narra di ricchi possidenti che offrivano il loro denaro trasportandolo addirittura con i carri (riferimento implicito, ma chiaro, al fatto che si trattava di aes grave); furono così allestite 219 nuove quinqueremi. Colti di sorpresa da questo ennesimo, incredibile atto di resilienza i cartaginesi furono duramente sconfitti nel 241 a.C. nella battaglia navale delle isole Egadi e si arresero. Ancora oggi, gli archeologi subacquei recuperano rostri di navi puniche e armi cartaginesi dal fondale marino di quelle isole.

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Una delle serie di monete più belle e più rappresentative della storia repubblicana è costituita dall’aes grave con la prora navis al rovescio, RRC 35. Si tratta di una serie di monete che recano tutte, al rovescio, la raffigurazione di una prua di nave da guerra; al dritto, invece, c’è una testa di divinità: Giano (asse), Saturno (semisse), Minerva (triente), Ercole (quadrante), Mercurio (sestante) o Roma (oncia). Esiste anche un unico quincusse, di dubbia autenticità, che reca anch’esso la raffigurazione di Giano.

L’impatto culturale di queste monete fu sicuramente enorme: infatti, mentre l’iconografia degli argenti, come già detto, dopo una certa data cominciò a cambiare ogni anno, quella dei bronzi rimase quasi immutata sino alla fine della Repubblica (l’asse RRC 479/1, datato 45 a.C., reca ancora una testa gianiforme al dritto e una prora navis al rovescio). Addirittura, nel V secolo d.C. Macrobio, nei Saturnalia narra ancora che “pueri denarios in sublime iactantes capita aut navia lusu teste vetustatis exclamant” (“i fanciulli, gettando in aria le monete, gridano «teste o nave», essendo il gioco una prova di antichità”). Ma cosa aveva di tanto speciale questa iconografia, per imprimersi tanto nella tradizione romana?

Per quanto riguarda il dritto, è probabile la sequenza con cui compaiono gli dei non fosse casuale: non solo Ianus e Saturnus iniziano con la stessa lettera che è simbolo del valore delle rispettive monete, ma esiste forse anche un collegamento con la più antica mitologia romana, secondo la quale i colli del Tevere furono abitati all’origine dei tempi da Giano; in seguito vi avevano vissuto Saturno e, dopo, Ercole (che aveva ucciso, un mostro malvagio là insediatosi, Caco); ultima, era arrivata Roma.

Ben più interessante è il rovescio. Perché una potenza terrestre come Roma decise di riportare, su tutti i suoi bronzi, il disegno stilizzato di una prua di nave da guerra? Viene naturale pensare che la Repubblica celebrasse, così, un’importante vittoria sul mare, un evento in seguito al quale la prora navis era divenuta simbolo della consapevolezza che il potere marittimo avrebbe aperto a Roma nuovi orizzonti di conquista e di consolidamento del potere. Tre eventi antichi rispondono a questo requisito e, per conseguenza, tre date si possono proporre per l’adozione di queste monete: battaglia di Anzio del 338 a.C., la battaglia di Mylae del 260 oppure quella delle Egadi del 240[2].

L’ipotesi più probabile sembra essere la battaglia di Mylae, che deve essere sembrata un evento prodigioso: infatti, si scontrarono una potenza marittima contro una terrestre, le migliori navi esistenti contro le copie di un relitto recuperato dal fondo del mare, i marinai più esperti contro contadini addestratisi facendo finta di remare sulla spiaggia; eppure, vinse Roma. Per quella vittoria fu concesso il trionfo a Gaio Duilio, che lo celebrò nel 258 a.C.; nell’occasione (come sappiamo dal suo elogio funebre, che ci è pervenuto), “praedad popolom [donavit]” (“distribuì la preda bellica al popolo”, in Latino arcaico), probabilmente come parziale risarcimento delle ingenti tasse (tributa) che erano state imposte per finanziare la guerra. È probabile che egli abbia distribuito proprio queste monete, fuse (per l’appunto, tra il 260 e il 258) con il bronzo sottratto ai Cartaginesi sconfitti.

NOTE

[1]        Infatti, la didracma presenta che un sistema di simboli di controllo che risultano del tutto identici a quelli adottati, ad Alessandria, per coniare monete dedicate ad Arsinoe II, figlia e sorella di Tolomeo II Filadelfo, che vengono datate proprio al 272 a.C. I simboli di controllo sono piccoli disegni che venivano talvolta inseriti nelle monete, in aggiunta alla loro iconografia standard; si ritiene che fossero diversi per ogni conio e servissero, quindi, a controllare quanti pezzi potevano esser prodotti con ognuno di essi.

[2]        Propendono per il 338 Hill, Cesano, Breglia, Alteri, Panvini Rosati (Forzoni ritiene che siano addirittura più antiche). Alteri, in particolare, spiega il basso peso medio (circa 273 g per l’asse) ipotizzando che la libra osco-latina da 240 scrupoli sia stata la più antica, introdotta in Campania dai Focesi e utilizzata prima che i Romani “inventassero” quella da 288 scrupoli (che, quindi, Varrone definisce “noster”. Propendono invece per il 260-258 Mattingly, Thomsen, Zehnacker, Pedroni e Coarelli, per il 240 Thurlow e Vecchi. Crawford, convinto che l’aes grave sia più recente, propone la data (che non sembra realistica) del 225 a.C.

 

ILLUSTRAZIONI

La didracma RRC 22/1

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Rostro punico recuperato alle Egadi nel 2022

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L'asse RRC 35/1

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Davvero complimenti!

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Complimenti e grazie a Gabriele per l'ennesimo regalo offerto a tutto il forum. Sono certo che grazie alla tua competenza e chiarezza espositiva riuscirai a risvegliare un po' di interesse per la monetazione repubblicana, che ultimamente langue.

PS non sarà un trattato di numismatica, ma meriterebbe di diventarlo

 

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LA NUOVA ZECCA DI ROMA E IL QUADRIGATO

 

Nel 269 a.C., durante il periodo intercorso fra la fine della guerra contro Taranto e l’inizio di quella contro Cartagine, a Roma furono adottate due iniziative di politica monetaria.

In primo luogo fu creata una zecca, all’interno o nei pressi del tempio capitolino di Giunone “Moneta” (cioè “Ammonitrice”; proprio per questa collocazione della zecca il termine passò a significare, per metonimia, la moneta stessa). Sappiamo da Zonara (storico di epoca bizantina) che questa innovazione fu resa necessaria a seguito dell’afflusso a Roma di ingenti quantità di metallo prezioso da monetare; si ritiene che esse siano quelle depredate due anni prima a Rhegium, delle quali ci narra un altro storico, Dionigi di Alicarnasso.

In realtà, la magistratura preposta a controllare l’emissione di moneta, i tresviri aere argento auro flando feriundo, esisteva a Roma già da 20 anni[1]; si ritiene tuttavia che la zecca sia stata istituita solo in seguito perché inizialmente l’aes signatum e grave poteva essere fuso in officine estemporanee, mentre la produzione di monete coniate veniva appaltata a Capua o altre zecche campane.

La seconda innovazione è quella di cui riferisce Plinio, quando afferma che quell’anno fu “segnato” l’argento; sembra doversi intendere che, in occasione dell’apertura della zecca capitolina, Roma emise una moneta d’argento in qualche modo innovativa e resta da capire quale essa fosse. Sappiamo che nel corso del secolo si succedettero tre tipi di monte d’argento in qualche misura innovative, ossia (in ordine cronologico) didracme romano-campane con legenda “ROMA”, quadrigati (che sono anch’essi didracme, ma abbastanza innovative) e denarî; collocare una di tali monete al 269 a.C. fa slittare, avanti o indietro nel tempo, le altre, modificando di conseguenza tutta la cronologia della monetazione repubblicana.

In passato molti numismatici ritenevano che nel 269 fosse stato introdotto il denario, ma occorre specificare che oggigiorno questa teoria ha pochissimi sostenitori.

Nella neonata zecca di Roma potrebbero allora essere state emesse, per prime, le monete romano-campane con legenda “ROMA”. Infatti, a un certo punto della loro storia i Romani cambiarono la legenda delle proprie monete coniate (non solo quelle d’argento, ma anche quelle di bronzo) dal genitivo plurale “ROMANO” al nominativo singolare “ROMA”; sembrerebbe ovvio pensare che questa modifica significhi che venivano coniate “all’interno della città” e non solo “per conto dei suoi abitanti”. Questa ipotesi sembra avvalorata dal fatto che la legenda “ROMA” compare anche su un unico pezzo di aes grave, un asse che molti autori datano al 263 a.C.[2]

Successivamente, Roma introdusse un’altra, importante riforma della monetazione romane-campana, che consistette nel terminare la produzione di monete (proseguì invece quella di aes grave, seppure di peso progressivamente ribassato per effetto della svalutazione), nel modificare la didracma e nell’introdurre, accanto a essa, anche la dracma (sempre d’argento) e due monete d’oro, che valevano rispettivamente uno statere e mezzo statere (anche lo statere, come la dracma, era un valore in uso nella Magna Grecia). Soprattutto, le nuove didracme si distinsero da quelle precedenti perché presentavano un’iconografia decisamente romana, perché mantennero inalterata tale iconografia per decenni (le didracme più antiche, invece, presentavano differenze a ogni nuova emissione) e perché ne vennero coniate in grandissimo numero, come dimostra lo studio dei conî.

Le nuove didracme presentavano al dritto una testa gianiforme imberbe, al rovescio Giove, raffigurato su una quadriga volta a destra mentre tiene lo scettro colla sinistra e sta per scagliare il fulmine colla destra; dietro di lui, una piccola Vittoria regge le redini della quadriga; sotto, compare la legenda ROMA. La figura gianiforme presenta difficoltà di interpretazione: per alcuni studiosi si tratta di Giano, ma questa ipotesi sembra contraddetta dal fatto che tale dio era sempre raffigurato anziano e barbuto. Per altri autori potrebbero essere i Dioscuri (così, in particolare, pensa Crawford), o i Penati Publici, o infine Fons o Fontus, figlio di Giano e Giuturna. La quadriga invece potrebbe ispirarsi alle numerose analoghe statue che ornavano molti templi, comprese quelle presenti nel tempio di Giove Capitolino fin dall'età dei Tarquini (fittili in origine, poi sostituite nel 298 con quadrighe di bronzo); proprio per la sua presenza queste monete furono definite “quadrigati” (talché la dracma è oggi definita “mezzo quadrigato”).

Sebbene siano tutte catalogati da Crawford in poche categorie (soprattutto RRC 28/3), in realtà i quadrigati si differenziavano molto fra loro; in prima approssimazione (l’evoluzione effettiva fu più complessa e articolata), può dirsi che ne furono emessi due generi distinti: quadrigati con legenda in incuso su tavoletta, più antichi, costituiti da buon argento, con diametro largo e peso medio di 6 scrupoli (circa 6,8 g); quadrigati con legenda in rilievo entro una cornice, sicuramente posteriori, spesso fatti di argento mischiato a rame, con diametro più piccolo e peso inferiore a quello teorico (anche addirittura, di soli 2,5 g).

Per la datazione di queste monete, sappiamo da Livio[3] che circolavano ancora dopo la battaglia di Canne (216 a.C.) e da Zonara che la decisione di mischiare il rame all’argento fu adottata dopo la sconfitta subita al lago Trasimeno (217 a.C.). Possiamo dedurne che i quadrigati furono emessi in grandi quantità per sostenere esigenze di guerra, svalutati (aggiungendo rame) nel 217 a.C. e coniati almeno fino al 216; ma quando iniziò la loro emissione?

Coarelli[4] sostiene che siano proprio essi la moneta che, secondo Livio, fu emessa dalla nuova zecca di Roma nel 269 a.C.; la loro emissione sarebbe allora iniziata monetando l’argento depredato a Rhegium e continuata, con numeri elevati, inizialmente per sostenere lo sforzo bellico della Prima Guerra Punica (salvo proseguire sino alla seconda). A conferma di questa ipotesi c’è il ritrovamento di quadrigati a Kerkouane e a Selinunte, sebbene non ci sia certezza che siano stati interrati prima della distruzione delle due città (avvenuta la prima, a opera di Attilio Regolo, nel 256 a.C., la seconda nel 250). Se così fosse, il rovescio potrebbe alludere alla recente sconfitta di Pirro (Giove era il protettore delle legioni, Vittoria ovviamente era simbolo di vittoria). Per altri autori, invece, l’emissione del quadrigato è successiva alla fine della Prima Guerra Punica (241 a.C.); fra l’altro, il dritto - se effettivamente raffigurasse Giano - potrebbe alludere alla chiusura delle porte del tempio del dio, avvenuta nel 235 a.C. al termine della conquista della Sardegna. Infine, Crawford colloca addirittura la data di inizio emissione al 225, collegando l’intera produzione di quadrigati al finanziamento della sola Seconda Guerra Punica[5].

Insieme al quadrigato, come detto, furono introdotte le prime monete romane d’oro, gli stateri, del peso di 6 scrupoli (e i mezzi stateri, di 3 scrupoli). Plinio riferisce che la prima emissione d’oro avvenne 51 anni dopo quella dell’argentum signatum e, quindi, nel 218 a.C.; questa data sembra abbastanza attendibile e dovrebbe riferirsi proprio agli stateri.

Al dritto, essi raffigurano la stessa testa gianiforme presente sul quadrigato. Molto più interessante invece è l’iconografia del rovescio: viene infatti raffigurato un giuramento militare (da cui il nome moderno dato a queste monete, “stateri del giuramento”), con due guerrieri di fronte che puntano le spade verso un porcellino tenuto in braccio da un terzo guerriero in ginocchio. Il guerriero di sinistra, forse italico o greco, è barbato, indossa un'armatura cinta al busto e colla sinistra si appoggia a una lancia; il guerriero di destra, chiaramente romano, è imberbe, porta una corazza e, colla sinistra regge il fodero della spada e la lancia (rivolta in basso). Le ipotesi per interpretare questa scena sono tante e tutte suggestive: il giuramento di alleanza tra Romolo e Tito Tazio (750 a.C.); la concessione del diritto di cittadinanza romana ai Campani e a parte dei Sanniti (334); la riappacificazione tra Romani e Sanniti, dopo la resa di questi ultimi (290); il trattato di alleanza tra Roma e Siracusa (263); la “leva tumultuaria” con cui Roma, per intimidire i Cartaginesi, ordinò a tutti gli alleati di contare il numero massimo di combattenti che erano in grado di mobilitare (225); il giuramento con cui Romani e Latini rinnovarono l’impegno a combattere assieme, dopo il disastro di Canne (216).

NOTE

[1]     Pomponio infatti riferisce che la loro istituzione fu contemporanea a quella dei tresviri capitales e Livio pone questi ultimi in connessione con la fondazione delle colonie Castrum, Sena Gallica e Hatria, rispettivamente datate 289, 284/283 e 289 a.C.

Si noti che, anche se l’istituzione dei tresviri risale verosimilmente al 289 a.C., il loro nome deve essere stato modificato in seguito perché a quell’epoca Roma non aveva monete d’oro.

[2]        Si tratta dell’asse RRC 37/1, che per la sua iconografia viene interpretato come una celebrazione della raggiunta alleanza anti cartaginese tra Roma (il cui nome, come detto, compare in legenda), Siracusa (simboleggiata al dritto dal ritratto di Minerva, analogo a quella di alcune monete della città siceliota) e i Mamertini (simboleggiati al rovescio dal toro, rappresentazione dell’Italia - nome che deriva dall’osco ϝίτλυ -, da cui essi provenivano).

[3]   Livio, XXII, 52, 3; 54, 3; 54, 1; 58, 4.

[4]   Coarelli, Argentum signatum, Roma 2013.

[5]   Bernard (The Quadrigatus and Rome's Monetary Economy in the Third Century, in “Numismatic Chronicle 177”, 2017) osserva che gli studi metalloscopici dimostrano la provenienza dell’argento di moti quadrigati dalle miniere spagnole, conquistate da Roma con la Seconda Guerra Punica. Inoltre, molti tesoretti di quadrigati siano stati rinvenuti proprio in Spagna, teatro di combattimenti durante la Seconda Guerra Punica, non la prima.

 

ILLUSTRAZIONI

Le rovine del tempio di Giunone Moneta, sul Campidoglio alle spalle dell’Ara Coeli. Molte delle monete repubblicane provengono fisicamente da qui.

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Didracma RRC 26/1, con legenda "ROMA"

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Quadrigati RRC 28/3, il primo con legenda in incuso su tavoletta e il secondo con legenda in rilievo entro cornice. Si noti la grafia arcaica della "A".

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Asse RRC 37/1 con legenda ROMA

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Statere "del giuramento" RRC 28/1

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L’ATTACCO DI ANNIBALE

 

Dopo la sconfitta, Cartagine versava in uno stato di prostrazione economica. Amilcare Barca, il generale che aveva combattuto in Sicilia, propose di conquistare l’Hispania (attuale penisola iberica); sebbene non autorizzato, partì comunque di propria iniziativa con un gruppo di mercenari e il figlio Annibale (di 10 anni), percorse in marcia la costa africana, attraversò lo stretto di Gibilterra e, in pochi anni, conquistò gran parte della penisola. I Barca crearono così un nuovo Stato (seppur formalmente vassallo di Cartagine) e ne posero la capitale in una città fortificata da loro stessi fondata, Qart Hadasht (odierna Cartagena).

Nel 221 il comando dei territori punici in Hispania fu assunto da Annibale, che aveva solo 26 anni. Prima di lasciare Cartagine il padre l’aveva condotto in un tempio e, al cospetto degli dei, gli aveva fatto giurare odio eterno contro i Romani: il giovane non aveva dimenticato quel giuramento e intendeva onorarlo. Attaccò e distrusse Sagunto, città alleata di Roma; iniziò così nel 219 a.C. la Seconda Guerra Punica.

Annibale, con una manovra inaspettata e passata alla storia, aggirò le legioni inviate a combatterlo e, valicate le Alpi, si presentò nel 218 direttamente in Gallia Cisalpina, dove sconfisse l’esercito romano prima sulle sponde del Ticino, poi su quelle della Trebbia.

Nel tentativo di tagliare le linee di rifornimento cartaginesi Roma, nel 218 e 217, inviò due eserciti in Hiberia (area settentrionale dell’Hispania), agli ordini di Gneo Cornelio Scipione e di suo fratello Publio.

Nel frattempo, tuttavia, in Italia Annibale riportava un’altra grande vittoria, presso il lago Trasimeno.

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Roma reagì schierando una forza imponente per schiacciare l’invasore, 80.000 fanti contro 40.000. Lo scontro titanico fra i due eserciti avvenne nel 216 a.C., nella pianura di Canne. Fu, come noto, una disfatta totale: morirono 50.000 soldati, un console, due questori, ventinove tribuni e ottanta appartenenti alla classe senatoria; altri 15.000 furono fatti prigionieri. All’improvviso, Roma non aveva più un esercito, né una classe dirigente.

Una parte dei sopravvissuti scortarono l’altro console a Roma; altri 10.000 legionarî, invece, si asserragliarono a Canosa. Qui un nobile li convinse dapprima che era necessario abbandonare la Repubblica, ormai condannata a soccombere, per cercare fortuna come mercenarî in Oriente; fu un tribuno, Publio Cornelio Scipione (figlio dell’omonimo[1] inviato a combattere in Hiberia), che aveva solo 20 anni ma aveva già combattuto sia al Ticino sia a Canne, a convincerli a non disertare. Il Senato tuttavia, saputo della loro seppur momentanea mancanza di lealtà, li condannò all’esilio: furono riorganizzati in due legioni (da allora denominate Cannenses) e inviati in Sicilia, dove avrebbero atteso sino alla fine della guerra.

La capitolazione di Roma dovette sembrare prossima: negli anni successivi la tradirono molti alleati, fra cui Capua (216 a.C.) e Siracusa (215); entrò in guerra, al fianco di Annibale, anche Filippo V re di Macedonia (215); scoppiò una rivolta in Sardegna (215) e gli eserciti cartaginesi conquistarono Agrigento (213) e Taranto (212).

In Hispania, infine, Asdrubale, fratello di Annibale, sconfisse e uccise i due Scipione (212): solo la strenua resistenza opposta dall’esercito romano sul fiume Baetis (odierno Guadalquivir) evitò una disfatta totale.

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In questi primi, concitati anni di guerra Roma continuò a finanziare lo sforzo bellico con le monete che già possedeva, il quadrigato e l’aes grave, che subirono un costante e accentuato fenomeno di svalutazione. Per quanto riguarda i bronzi, nel 217-215 a.C. Roma emise la serie semilibrale[2] RRC 38 che comprendeva tutti i nominali dall’asse alla quartoncia, ma presentava una particolarità: mentre asse, semisse, triente e quadrante furono realizzati per fusione e costituirono una delle ultime emissioni di aes grave, i nominali più piccoli furono realizzati per coniazione e costituirono, quindi, le prime monete coniate di valuta romana (espresse, cioè, in once). Per quanto riguarda l’iconografia, fu ripetuta la sequenza della serie RRC 35 (Giano, Saturno, Minerva, Ercole, Mercurio e Roma, con la prora navis al rovescio) ma furono aggiunti due nominali più piccoli, semioncia e quartoncia, riproponendo rispettivamente Mercurio e Roma. Peraltro, questa fu l’unica occasione in cui fu emessa la quartoncia.

Ma successe anche un fatto peculiare: fu emessa, in contemporanea, un’altra serie interamente coniata, la serie collaterale[3] RRC 39, comprendente i soli nominali dal triente alla semioncia.

La particolarità e la bellezza di questa serie consiste nelle iconografie: sul triente, una testa diademata femminile (forse Giunone) al dritto, Ercole che afferra per i capelli un centauro e impugna la clava al rovescio; sul quadrante, la testa di Ercole avvolta nella pelle leonina al dritto, il toro rampante sopra a un serpente al rovescio; sul sestante, la lupa che allatta Romolo e Remo al dritto, un’aquila o corvo con un oggetto nel becco (un fiore? cibo per i gemelli?) al rovescio; sull’oncia, la testa (con vista frontale) del Sole al dritto, il crescente della luna e due stelle al rovescio; sulla semioncia, infine, una testa turrita (forse Roma, oppure Cibele) al dritto, un cavaliere al galoppo con la frusta in mano al rovescio. Tutte portano la legenda “ROMA” al rovescio e tutte (eccetto la semioncia) il simbolo del valore su entrambe le facce.

L’interpretazione di queste iconografie resta un mistero; fra l’altro, fu la prima volta in cui Giunone, il Centauro, l’aquila, il toro con il serpente, Cibele e il Sole vennero raffigurati su monete.

Un’ipotesi è che le monete, lette in sequenza, narrino una storia mitologica, ma non si capisce quale[4]. Un’altra, è che si tratti simbologie slegate fra loro: “La serie colpisce per l’essere molto curata artisticamente e per la tematica, in parte estranea alla compassata tradizione repubblicana. … Il centauro trova riscontro nelle monete di Larino, la testa del sole ed il crescente nelle monete di Venusia. Per contro la tipologia del sestante è tipicamente romana … . Il quadrante, con il toro cozzante, trova riscontro sia in una precedente tipologia dell’aes grave, che nella monetazione di Arpi, Posidonia e Thurii. Giunone, diademata e con scettro, era venerata a Roma come a Lanuvium. I tipi quindi non sono originali ma sembrano un misto di tipologie dei diversi stati centro italici (principalmente campani) gravitanti su Roma”[5].

Una terza ipotesi, suggestiva, è che questa serie sia stata emessa per stimolare nei Romani il desiderio di rivalsa, dopo la disfatta di Canne, auspicando la sconfitta di Cartagine sui nominali maggiori (dove la vittoria finale sarebbe simboleggiata da Ercole che uccide il centauro sul triente e dal toro che schiaccia il serpente sul quadrante) e parallelamente magnificando la grandezza di Roma su quelli minori; l’oncia, in particolare, potrebbe essere un’allusione alle tradizioni del mondo contadino, legato ai cicli del sole e della luna[6], e al mos maiorum. Per quanto riguarda la semioncia, qualora essa raffiguri Cibele e non Roma, la circostanza potrebbe essere collegato al fatto che anni dopo, nel 204 a.C., per scongiurare proprio il pericolo di Annibale (che ancora spaventava l’Urbe), secondo un consiglio tratto dai Libri Sibillini, una pietra nera, simulacro della dea, fu prelevata a Pessinunte e trasportata a Roma, dapprima nel Foro poi sul Palatino: è forse possibile quindi che un’invocazione alla medesima dea fosse già stata fatta anni prima, e questa moneta la richiami.

Resta il grande fascino di questa serie, fascino alimentato anche proprio dal mistero che avvolge il significato celato nelle sue rappresentazioni.

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Anche se sembrava sull’orlo della disfatta, Roma non si arrese. Schiacciò la rivolta sarda (215 a.C.). Organizzò un nuovo esercito e lo inviò contro Filippo V (214). Assediò e conquistò Siracusa (214-212) e Capua (212-211).

___________________________

Nel 211 a.C. Annibale cominciò a capire che sarebbe stato difficile piegare Roma e decise di tentare una mossa disperata: marciò, a sorpresa, direttamente contro l’Urbe.

La sua iniziativa provocò spavento e turbamento, ma i Romani non si persero d’animo; un esercito al comando del proconsole Fulvio Flacco, pur essendo dietro a quello cartaginese, riuscì a marce forzate a superarlo e giunse a Roma prima di esso, apprestandosi a difenderla. Annibale fece allora accampare i suoi soldati vicino alle mura di Roma; l’ostinata determinazione di Roma a non arrendersi doveva aver già provato il suo morale, quando giunse una notizia che, seppur banale, gli fece capire quanto poco i Romani lo temessero: dentro le mura dell’Urbe, il terreno su cui aveva posto il proprio accampamento era stato venduto, e il prezzo non era per nulla diminuito malgrado la sua presenza.

Scoraggiato, si ritirò con il suo esercito in Campania.

NOTE

[1]   I nobili romani avevano l’abitudine di dare, ai maschi primogeniti, il medesimo nome del padre. Questo crea a volte (non qui) incertezze sull’esatta identificazione di alcuni personaggi storici.

[2]   Così denominata perché l’asse aveva un peso teorico di mezzo asse librale (anche se, nella realtà, pesava spesso di meno: gli assi pervenutici vanno da 100 a 160 g circa).

[3]   Così chiamata perché emessa “a lato” della RRC 38.

[4]   Ercole e il centauro, ad esempio, sembrano alludere alla lotta fra il semi-dio e Nesso (centauro della Tessaglia), di cui non si conosce alcun collegamento con la leggenda della lupa che allatta i gemelli.

[5]   Salati e Bassi in “Cronaca Numismatica”, 5/6/2020.

[6]   Le due stelle potrebbero essere i Dioscuri, o Phosphorus ed Hesperus, rispettivamente stella del mattino e della sera.

 

ILLUSTRAZIONI

Asse fuso RRC 38/1

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Quartoncia coniata RRC 38/8

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Sestante della "serie collaterale" RRC 39/3

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Sestante RRC 42/3. Questa moneta, oggi rarissima, fu emessa in Sicilia, forse a Katana (Catania), durante l’assedio di Siracusa; si pensi: era là, quando un legionario uccise, per errore, Archimede.

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Modificato da L. Licinio Lucullo
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Inviato

@L. Licinio Lucullo

Complimenti era un po' che mancavano e non leggevo nel sito interventi del genere, competenti, con approfondimenti degni di un vero appassionato e studioso.

Complimenti davvero.......Magnus es

 

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5 ore fa, Scipio dice:

Complimenti e grazie a Gabriele per l'ennesimo regalo offerto a tutto il forum. Sono certo che grazie alla tua competenza e chiarezza espositiva riuscirai a risvegliare un po' di interesse per la monetazione repubblicana, che ultimamente langue.

PS non sarà un trattato di numismatica, ma meriterebbe di diventarlo

 

 

E' ben di più di un trattato di numismatica: è un manuale di storia romana raccontata attaraverso le monete, particolarmente completo nella sua sinteticità; ed è un manuale di numismatica con gli indispensabili collegamenti storici.

Io stavo cercando di fare altrettanto per cercare di capire sia la storia che le monete, in quanto i libri che leggevo erano sempre insoddisfacenti (spesso perché incompleti per chi, partendo da quasi zero, aveva neecessità di integrarli con altri libri); ma non avevo ancora le necessarie competenze. Ora mi trovo, senza sforzo, il lavoro fatto.

Certamente un lavoro che con le dovute integrazioni meriterebbe di essere pubblicato.

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  • petronius arbiter ha evidenziato questo topic come importante
Inviato
Il 19/6/2025 alle 02:05, gioal dice:

Questa discussione è talmente bella, autorevole e di rilievo che andrebbe messa tra le importanti.

Sono d'accordo... fatto ;)

petronius :)

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Inviato

Grazie, grazie, grazie!

Bello, bello, bello!

Ti chiedo scusa per la banalità, @L. Licinio Lucullo, ma qualunque cosa possa dire non sarebbe commisurata e mi limito al semplice… non mi occupo di monete antiche ma ho sempre pensato che, se dovessi appassionarmi ad una monetazione classica, sarebbe stata quella di Roma repubblicana… e ora so perché!😊

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Inviato

Ho corretto un po' di refusi ed errori di digitazione ...


Inviato (modificato)

LA RIFORMA DENARIALE

 

A causa delle ripetute sconfitte subite da Annibale, Roma - dovendo finanziare lo sforzo bellico, in una situazione di crescente carenza di risorse economiche - continuò a svalutare le sue monete. Questo portò sicuramente a una forte inflazione (crescita dei prezzi), tanto che fu avvertita l’esigenza di poter disporre di monete da 10 assi: in effetti, con una delle ultime due serie di aes grave (RRC 41) fu emesso (oltre a dupondium, tressis e quincussis) il decussis, di cui oggi esistono solo più 4 esemplari (più un quinto, oggi disperso).

Si trattava tuttavia, con ogni evidenza, di monete ingombranti, con un diametro di circa 11 cm e un peso iniziale di 1 kg (anche se poi furono svalutate, arrivando a pesare “solo” 650 g). Occorreva qualcosa di più pratico.

Fu in questo contesto, probabilmente, che Roma adottò la sua più grande riforma monetaria, sviluppata attraverso tre passi: adozione dello “standard sestantale” per le monete di bronzo; creazione di nuove monete d’argento e d’oro, svincolate dai sistemi monetari magno-greci; “aggancio” delle monete in bronzo, articolate su base duodecimale, a quelle d’argento e d’oro, articolate su base decimale. Nacqui così il denario, la moneta che per secoli fu simbolo della potenza - anche economica - di Roma, emesso sino al III secolo d.C.

Il primo passo, come detto, fu quello di fissare uno “standard sestantale”, ossia di determinare in due once (da intendere, qui, come misura di peso) il peso dell’asse (ancorché rimanesse suddiviso in dodici once, da intendere invece, in questo caso, come misura di valore).

Ciò significa, ovviamente, che l’asse avrebbe dovuto pesare 54,5 g (ossia, un sesto di 327); in effetti ci sono pervenuti alcuni assi di circa 60 g, in particolare RRC 59/2 e RRC 60/2, ma sono decisamente pochi.

La stragrande maggioranza degli assi di quel periodo, in realtà, presenta un grande variabilità, tra 16,5 e 66 g, con prevalenza di quelli da 35-40 g. Come conseguenza ovvia, anche i sottomultipli hanno pesi variabili e, normalmente, più bassi della teoria, soprattutto semissi (10,5-31 g) e trienti (3,5-17,3 g). Questo fenomeno è stato spiegato supponendo che le pressanti esigenze belliche abbiano portato a svalutare subito, sebbene appena creato, l’asse di standard sestantale; in altri termini, non sapendo in che altro modo finanziare la guerra, Roma dichiarava di emettere assi del peso di 54,5 g, ma in realtà li emetteva di peso molto inferiore. Questo “taglio” incideva di più sui nominali più grossi perché erano quelli su cui si poteva risparmiare più metallo.

Di questi bronzi furono emessi tutti i nominali, dal dupondio alla semioncia; a eccezione del primo (di cui sono noti solo 16 esemplari, peraltro tutti provenienti dagli stessi 2 ripostigli), tutti gli altri sono molto comuni. Sono stati raccolti da Crawford nella serie RRC 56, ma molti studiosi sono ormai convinti che siano esistite varie emissioni, differenti per stile, tempo e peso, che oggi sono per noi difficili da distinguere (in altri termini, la serie RRC 56 non è omogena, ma è un “raccoglitore” di monete che è difficile, per noi, catalogare in modo più esatto).

Il secondo passo fu quello di creare nuove monete d’argento che, per la prima volta nella storia di Roma, fossero del tutto slegate dai sistemi in uso presso i popoli magno-greci.

Come s’è visto, la tipica moneta delle città italiote era la didracma che a Roma, nel terzo secolo, pesava 6 scrupoli (il cosiddetto quadrigato). Roma emetteva inoltre la dracma, di 3 scrupoli.

Con la riforma, l’Urbe decise di introdurre una propria, nuova moneta d’argento e ne fissò il peso il 4 scrupoli (circa 4,55 g). Furono adottati anche due sottomultipli, rispettivamente da 2 scrupoli (2,27 g) e 1 scrupolo (1,14 g). Nella realtà anche in questi casi (come in quelli delle monete di bronzo, seppur in modo meno marcato) si registrarono pesi più bassi, sicuramente per le stesse esigenze di finanziamento bellico.

Per l’iconografia, furono scelte immagini fortemente evocative della città. Su tutte e tre le monete, infatti, fu raffigurata, al dritto, la testa della dea Roma, rivolta a destra, con elmo attico alato; al rovescio, invece, vennero rappresentanti i Dioscuri, con le lance in mano in sella a cavalli rampanti (chiaro riferimento alla carica del lago Regillo) e, in esergo (ossia, nella parte bassa della moneta), la legenda ROMA.

Oltre alle monete d’argento furono prodotte anche nuove monete d’oro, definite genericamente “aurei”, anch’esse nella misura di 4, 2 e 1 scrupolo; in questo caso (visto il valore dell’oro), i pesi teorici risultano rispettati con grande precisione. L’iconografia, anche per esse, è identica per tutti e tre i nominali: la testa di Marte con elmo corinzio al dritto, l’aquila che porta un fulmine fra le zampe (simbolo di Zeus e delle legioni) al rovescio, con legenda ROMA in esergo.

Il terzo passo, come detto, consistette nell’ “agganciare” il valore delle monete di bronzo di quello delle monete d’argento e d’oro (tecnicamente, si dice “definire il rapporto di parità” tra i differenti metalli). L’argento da 4 scrupoli fu tariffato 10 assi, e quindi chiamato denario[1]; i sottomultipli furono quindi chiamati quinario e sesterzio[2]. Gli aurei invece vennero tariffati, rispettivamente, 60, 40 e 20 assi. Questi valori furono scritti sulle monete: X, V e SII (ossia, un semisse più due assi) sugli argenti; LX (con grafia arcaica della “L”, costituita da una freccia rovesciata), XXXX e XX sugli aurei. Si trattava quindi di un sistema in parte duodecimale (gli assi restarono divisi in 12 once), in parte decimale.

È interessare notare come la moneta principale fosse il denario; molti prezzi tuttavia, come sappiamo dalle fonti letterarie, cominciarono a essere definiti in sesterzî.

Contemporaneamente, tuttavia, Roma continuò a emettere anche la moneta da 3 scrupoli, ossia la dracma. Essa presentava al dritto la testa di Giove e al rovescio la Vittoria che pone una corona sopra a un trofeo d'armi con, in esergo, la legenda ROMA; fu pertanto chiamata vittoriato.

Il vittoriato era palesemente avulso dal sistema duo-decimale del denario, come dimostra il fatto che non aveva il simbolo del valore in assi; inoltre fu realizzato con argento misto a una percentuale rilevante di rame, a differenza dei denarî che presentano argento in un elevato grado di purezza. È probabile (ma non sicuro) che fu emesso per i pagamenti a favore dei popoli stranieri abituati a usare la dracma, con il vantaggio ulteriore di rifilare loro un metallo “non così buono” come quello usato per denarî, quinarî e sesterzi.

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Per completare questa sintetica illustrazione della riforma denariale, resta da chiarire quando essa sia avvenuta.

Questa è la questione maggiormente discussa fra gli studiosi di numismatica romana repubblicana; dalla datazione del denario discende, a cascata, quella di gran parte delle altre monete dell’epoca, con l’effetto talvolta di cambiarne anche l’interpretazione. Un punto fermo è stato messo negli anni ’60 del secolo scorso, quando un denario, un aureo da XX assi e molti quinarî e sesterzi sono stati rinvenuti durante gli scavi archeologici di Morgantina (odierna Serra Orlando), in uno strato sigillato databile al 211 a.C. (anno in cui Roma riconquistò la città e la rase al suolo); la riforma denariale non può, quindi, essere successiva a questa data.

In passato era opinione diffusa, soprattutto tra gli studiosi italiani, che essa andasse datata al 269, sulla base del noto passo di Plinio (e quindi sarebbe il denario, non le didracme a legenda ROMA o il quadrigato, l’argentum che fu signatum quando la zecca di Roma iniziò la sua attività). A sostegno di questa teoria, si osserva che le produzioni di didracme (quadrigati compresi) sembrano oggi troppo ridotte, per ammettere che con esse Roma abbia finanziato l’immane sforzo bellico della Prima Guerra Punica. Inoltre, un altro denario è stato rinvenuto durante gli scavi archeologici di Adranon (odierno Monte Adranone), cittadina assediata nel 262 a.C.[3]; lo strato, tuttavia, non era sigillato, per cui il denario può essere stato perso lì, in seguito[4].

Oggi, tuttavia, la maggior parte dei numismatici ritiene che il denario sia stato introdotto proprio nel 211 a.C., o al massimo 1 o 2 anni prima (fra l’altro, l’esemplare ritrovato a Morgantina era palesemente nuovissimo). L’argomentazione più forte a favore di questa ipotesi deriva da un esame comparato dell’andamento dei pesi delle monete in Italia e Sicilia: in epoche più antiche, infatti, sarebbero risultate anomale sia la fissazione dello standard sestantale per il bronzo, sia quella di un rapporto di parità di 1:120 con l’argento[5].

NOTE

[1]   Che significa “composto da 10 parti”; in Italiano restano in uso, in questo senso, gli aggettivi “binario” e “ternario”.

[2]   Sestertium deriva da semi-tertium, ossia “composto da (due parti e) metà della terza parte”.

[3]   De Miro e Fiorentini, Monte Adranone, in “Kokalos”, 1972-1973, pp. 241-244.

[4]   La stessa Fiorentini non esclude che il sito sia stato sporadicamente frequentato da guarnigioni romane anche durante la Seconda Guerra Punica.

[5]   Il denario da 4 scrupoli d’argento valeva, infatti, 10 assi di bronzo, ciascuno dei quali pesante 2 once di 24 scrupoli; se ne ricava un rapporto 4:480, riducibile a 1:120.

 

ILLUSTRAZIONI

Il decussis RRC 41/1

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Un asse coniato di circa 60 g., RRC 60/2

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Un asse sestantale "tipico", RRC 56/2, di circa 45 g.

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Aureo  da XXXX assi, RRC 44/3

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Denario anonimo, RRC 44/5. I denarî e le altre monete di questo periodo sono definiti “anonimi” perché (a differenza dei successivi) non sono contraddistinti da alcun simbolo né dal nome del monetiere. Essi sono stati suddivisi da Crawford in differenti categorie, sulla base di piccole differenze nel disegno (ad esempio: la visiera dell’elmo di Roma, le zampe dei cavalli, i riccioli di Giove, il gonnellino del trofeo); per questa ragione, le monete qui rappresentate non hanno tutte la stessa classificazione RRC. Viene naturale supporre che alcune serie siano più antiche di altre, ma la datazione esatta è ormai difficile.

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Vittoriato RRC 53/1

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LA RISCOSSA DI ROMA

 

In Italia, la guerra contro Annibale versava in situazione di stallo: i Romani pressavano i Cartaginesi, negando loro libertà di manovra, ma non trovavano l’occasione per sconfiggerli; i Cartaginesi riuscivano ancora a sconfiggere i Romani in battaglia, quando ne avevano l’occasione, ma per carenza di risorse umane non riuscivano a sfruttare il vantaggio. Serviva una svolta.

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Alla fine del 211 a.C. il Senato decise di inviare un nuovo generale in Hispania (dove il territorio ancora controllato da Roma era limitato alla sola zona circostante Tarraco, odierna Tarragona) ma - non sapendo chi nominare - delegò la scelta al popolo. I comizî centuriati diedero allora una risposta unanime: Publio Cornelio Scipione, figlio dell’omonimo generale ucciso da Asdrubale.

Alla fine del 210[1] il giovane (aveva solo 25 anni) si presentò a Tarraco con i poteri di proconsole; trascorse l’inverno a rincuorare i soldati demoralizzati e nella primavera del 209 si mosse per combattere i Cartaginesi.

L’esercito cartaginese in Hispania poteva contare su forze tre volte superiori a quelle romane, ma proprio per questo aveva dovuto svernare diviso in tre accampamenti separati. Quando Scipione mise in marcia il suo esercito, non rivelò ad alcuno dove intendesse colpire; tutti però (gli amici, e le spie nemiche) immaginavano che avrebbe assalito l’accampamento punico più vicino.

Egli invece si diresse a marce forzate verso sud, penetrò per oltre 500 km nel cuore del territorio nemico e portò il suo esercito direttamente di fronte alle mura di Qart Hadasht. Scipione infatti, come sua prima mossa, voleva riuscire là dove Annibale aveva fallito: espugnare la capitale nemica.

La città era ritenuta inespugnabile, in quanto circondata su tre lati dal mare e da una laguna; il governatore schierò allora la sua guarnigione sulle possenti mura che difendevano il quarto lato, e attese che i tre eserciti punici convergessero a schiacciare i Romani.

Ma i soldati Romani non attaccarono i bastioni difesi dalla guarnigione cartaginese: camminarono sull’acqua della laguna, guidati personalmente da Scipione, e scalarono le mura nel punto in cui erano prive di difesa, senza essere visti. A molti sembrò un prodigio divino; in realtà il proconsole - nei mesi invernali - aveva interrogato i pescatori e studiato i venti e le maree, scoprendo che periodicamente emergeva un guado.

Qart Hadasht, l’imprendibile capitale dei Barca, fu conquistata in poche ore. Scipione si appropriò così dell’oro e delle derrate che vi erano immagazzinati; inoltre liberò i molti nobili ispanici là tenuti ostaggio, guadagnando l’amicizia delle rispettive tribù alla causa di Roma.

La città fu ridenominata Nova Carthago. Nei tre anni successivi (208-206 a.C.) Scipione completò la conquista dell’Hispania, cacciandone definitivamente i Cartaginesi.

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Durante il loro dominio in Hispania i Cartaginesi avevano coniato, nella zecca di Qart Hadasht, diverse monete in bronzo raffiguranti al dritto un dio barbuto (Melqart o Tanit). Su alcune di esse, tuttavia, il ritratto al dritto è privo di barba; di questi ritratti glabri esistono due stili differenti, uno chiaramente punico, l'altro invece romano. Un numismatico[2] ha ipotizzato che il primo sia un ritratto di Annibale (o comunque di un Barcide), mentre il secondo altri non possa essere che Scipione: probabilmente, per un breve periodo successivo alla conquista della città, la zecca sarebbe rimasta in funzione sotto il controllo romano e, in segno di omaggio, i monetieri locali emisero bronzi con il ritratto di Scipione, anziché di Annibale.

Durante la Repubblica, i Romani avevano un tabù in campo numismatico: ritenevano assolutamente vietato rappresentare il ritratto di un essere umano ancora vivo sulle monete, perché questa era una prerogativa dei re (e, notoriamente, l’istituto della monarchia fu sempre aborrito dal popolo romano, dopo la cacciata dei Tarquini). Sino al 44 a.C. si verificheranno quindi solo due eccezioni a questa regola ferrea, rese possibili dal fatto che le relative emissioni avvenissero in terra straniera (si trattava, cioè, di monetazione “provinciale”[3]): questi bronzi e (alcuni anni dopo) lo statere emesso per Tito Quinto Flaminino.

_______________________

Un esercito punico, forte di 20.000 soldati più 10.000 mercenari galli, riuscì a sfuggire dall’Hispania e, agli ordini di Asdrubale (fratello di Annibale), si diresse verso l’Italia. Qui la situazione di Annibale si era fatta difficile: dopo che Roma aveva riconquistato Agrigento (nel 210 a.C.) e Taranto (nel 209), egli aveva disperato bisogno di rinforzi. Nel 207 a.C., pertanto, il generale cartaginese si asserragliò a Canosa, attendendo di potersi ricongiungere con il fratello e le sue truppe. Quell’anno, quindi, i due consoli romani furono destinati uno, Claudio Nerone, a tenere a bada Annibale, l’altro, Marco Livio Salinatore, a cercare di intercettare e fermare Asdrubale.

Fu in questo contesto che i Romani portarono a termine un’altra incredibile manovra tattica, culminata nella battaglia del Metauro. Successe che i soldati di Nerone catturarono una staffetta cartaginese, che portava un messaggio con cui Asdrubale voleva invitare il fratello a ricongiungere i loro due eserciti a Fano, ove egli si stava dirigendo. Il console, intuito il pericolo e l’urgenza di reagire, prese una decisione coraggiosa: lasciò un piccolo contingente a fronteggiare Annibale, con l’ordine di eseguire manovre giornaliere (per fare finta di essere ancora molto numerosi), e con il resto dell’esercito marciò da Teanum Apulum (città non più esistente, vicino Foggia) a Sena Gallica (attuale Senigallia). Fu una marcia incredibile, eseguita solo col buio (per sfuggire alle spie cartaginesi): in otto notti i legionarî coprirono circa 500 km, con una media di oltre 60 km a notte[4]. A Sena Gallica le legioni dei due consoli si riunirono e riuscirono a schiacciare l’esercito di Asdrubale, presso il fiume Metauro; dopodiché Nerone, con la stessa velocità con cui era giunto, tornò a Canosa, ove fece informare Annibale (che non si era neanche accorto della sua assenza) che suo fratello Asdrubale era finalmente arrivato, consegnandogliene la testa.

_______________________

Nel 204 a.C. Scipione prese un’altra decisione strategica rivoluzionaria: portare la guerra direttamente a Cartagine, come mezzo secolo prima aveva cercato di fare Attilio Regolo. Questa impresa fu ancora più straordinaria, per il fatto che egli volle compierla insieme ai reietti; si fece infatti assegnare il comando delle legiones Cannenses, ancora stanziate in Sicilia: sarebbero stati loro, i soldati umiliati da Annibale e scampati al massacro di Canne, che proprio Scipione stesso aveva convinto 12 anni prima a non tradire Roma, a lavare l’onore della patria debellando la città nemica.

Scipione e le legiones Cannenses sbarcarono in terra d’Africa e sconfissero ripetutamente i Cartaginesi.

Il senato punico, terrorizzato, ordinò che Annibale lasciasse l’Italia, dove per oltre 15 anni aveva seminato morte e distruzione, e accorresse a difendere la capitale. Così fu: i due condottieri si incontrarono di persona nel 202, da soli, su una collina presso Zama; dopo essersi parlati tornarono nei ranghi dei rispettivi eserciti e si scontrarono in una delle battaglie decisive per le sorti della storia dell’Occidente. Com’è noto, vinse Scipione, e fu quindi soprannominato “l’Africano”.

La guerra era finita; Annibale fuggì in esilio, mettendosi al servizio dei reami del Vicino Oriente.

Scipione combatté in seguito un’altra guerra vittoriosa, contro il regno di Siria. Accusato dai suoi avversari politici di essersi appropriato di parte del bottino di guerra, abbandonò sdegnosamente Roma in volontario esilio; morì di malattia nel 183 a.C. a Liternum (odierna Villa Literno). Sembra che il suo grande avversario, Annibale, sia morto suicida quello stesso anno, in Bitinia (nella penisola anatolica).

Publio Cornelio Scipione l’Africano non fu mai sconfitto, in battaglia. Anni dopo la sua morte un’altra moneta, questa volta un denario ufficiale della Repubblica, riproporrà il suo ritratto.

NOTE

[1]   Non è chiaro, nelle fonti, se la nomina di Scipione a proconsole sia avvenuta già a fine 211 o (come sembra più probabile) nel 210; di conseguenza, non è chiaro se egli abbia iniziato le operazioni militari nel 210 o nel 209.

[2]     Robinson, Essays in Roman Coinage Presented to Harold Mattingly.

[3]     In realtà, le monete d’oro di Flaminino sono censite nel RRC (RRC 548/1); Crawford tuttavia le elenca alla fine del suo catalogo, anziché collocarle in ordine cronologico, proprio perché egli stesso dubita che possano considerarsi repubblicane “ufficiali” anziché “provinciali”.

[4]   Questa velocità fu resa possibile dal fatto che i Romani non si portarono al seguito le salmerie, in quanto ottennero cibo e acqua dalle popolazioni che attraversavano (le quali, secondo le fonti, li accorsero esultanti, stufe delle razzie di Annibale). Nondimeno, questa resta una delle marce a piedi più veloci di tutta la storia militare.

 

ILLUSTRAZIONI

Ricostruzione pittorica di Qart Hadasht

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Bronzi con il presunto ritratto di Scipione: sopra, moneta del valore di 1 calco (SNG BM Spain 127 e 128); sotto, moneta da 1/5 di calco (SNG BM Spain 127 e 129)

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Inviato

Complimenti! Un'opera davvero utilissima, per chi desidera associare evento storico e monetazione del periodo è oro colato! Grazie ❤️

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Bellissimo post, non avevo ancora scritto niente perchè non volevo interrompere la successione dei capitoli, devo ancora finire di leggere tutto ma è veramente interessante e utilissimo per approfondire degli aspetti di un periodo che amo molto. Attendo con ansia un pdf completo per poterlo archiviare/stampare nella mia libreria o nel caso la pubblicazione 😃 

Modificato da Rufilius
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