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Storia di Roma e delle sue monete


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LA MONETE CON SIMBOLI E LETTERE

 

Studiando le monete della fine della Repubblica, è chiaramente evidente che i Romani ne consideravano ufficiali e legittime due tipologie differenti: quelle emesse sotto la supervisione dei tresviri, probabilmente previa autorizzazione del Senato, e quella emesse invece in forza dell’imperium. Poiché infatti l’imperium era concepito come un potere quasi assoluto (soprattutto fuori Roma), si consideravano valide le monete che i magistrati cum imperio avevano ordinato di coniare; cosa che, normalmente, essi facevano quando si trovavano fuori dall’Urbe, per finanziare campagne militari, servendosi di zecche ausiliarie (o addirittura dei tecnici delle legioni[1]), talvolta delegandone la supervisione a questori o proquestori[2].

Le monete emesse in forza dell’imperium sono dette oggi “imperatoriali”, con riferimento all’ultimo cinquantennio della Repubblica (quando il fenomeno crebbe di importanza), o “itineranti” (perché prodotte da zecche che si spostavano sul territorio, al seguito delle truppe), con riferimento alle epoche precedenti. Da un punto di vista teorico, tuttavia, non c’è differenza fra imperatoriali e itineranti.

Precisato quanto sopra, ci si chiede quando il fenomeno della monetazione itinerante sia nato; infatti, se la moneta non reca il nome del magistrato che ne ha ordinato l’emissione (come avverrà spesso - ma non sempre - per le imperatoriali), è difficile distinguerla da un’emissione ordinaria. Viene qui però in evidenza un altro fenomeno: alcuni quadrigati e alcuni bronzi precedenti alla riforma sestantale presentano un simbolo al rovescio, una spiga di grano[3]; con l’introduzione del denario e del vittoriato la varietà di simboli cresce enormemente (oltre alla spiga, ancora, apex, pentagramma, crescente, bastone, etc.) e, inoltre, compaiono molte monete con una lettera o un piccolo gruppo di lettere (M, C, VB, MA, AVR, etc.). È opinione comune (corroborata dai rinvenimenti nei ripostigli) che questi simboli e lettere siano stati introdotti proprio per distinguere le monete emesse fuori Roma[4] da quelle invece prodotte nella zecca dell’Urbe; poiché inoltre - come si è visto - tutte queste monete sono normalmente datate all’epoca della Seconda Guerra Punica[5], se ne deduce che il fenomeno della monetazione itinerante sia nato in quel periodo, per evitare spostamenti di denaro tra l’Urbe e i suoi eserciti, attraverso territorî resi insicuri dalla presenza di truppe cartaginesi.

In altri termini, le prime emissioni con simboli o lettere costituiscono l’esempio più antico di monete prodotte e usate direttamente dai legionarî.

 

Secondo Crawford, le emissioni con simboli o lettere che si devono considerare come itineranti, per le esigenze della Seconda Guerra Punica, sono quelle che egli ha raggruppato nelle serie da RRC 59 a RRC 111 e da RRC 125 a RRC 131.

In seguito tuttavia, seppur terminata la guerra, si continuò a produrre monete con simboli, anche presso la zecca di Roma. Probabilmente, distinguere le proprie monete mediante apposizione di simboli era diventato una specie di “moda”, che piacque e fu seguita anche dai tresviri, come si vedrà in seguito[6].

NOTE

[1]      Un esempio di conio utilizzato dalle legioni è quello illustrato a pag. 5.

[2]      Per questo, alcune monete imperatoriali recano la legenda “Q” o “PRO Q”, eventualmente col nome del questore.

[3]      Come nel caso del sestante raffigurato a pag. 30.

[4]      In particolare, simboli e monete potrebbero indicare la zecca (ad esempio, la spiga di grano potrebbe fare riferimento alla Sicilia, l’ancora alla zecca di una flotta) oppure il magistrato che ha ordinato l’emissione (ad esempio, AVR potrebbe stare per Aurunculeius).

[5]      Compresi i quadrigati con spiga di grano, RRC 42/1, che costituirebbero una delle ultime emissioni di questa moneta (Crawford li data al 214-212 a.C.).

[6]      È possibile che non solo levlettere, ma anche alcuni simboli servissero a identificare il monetiere: ad esempio, l’asino presente sui bronzi della serie RRC 195 (datata 169-158 a.C.) potrebbe alludere, secondo Grueber, al cognomen Silanus (perché, nella mitologia greca, Sileno viaggiava spesso in sella a un asino).

 

ILLUSTRAZIONI

Vittoriato RRC 95/1. Al retro, monogramma "VB".  Secondo Crawford questa moneta fu emessa nel 211-208 per finanziare la guerra annibalica; secondo Thomsen, invece, nel 215-214 per preparare la spedizione contro Filippo V di Macedonia. Il monogramma al rovescio (VB) potrebbe indicare la zecca di Vibo Valentia oppure (secondo Thomsen) di Vibinum (città apula, oggi scomparsa).

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Denario RRC 172/1.  Le monete di questa serie sono di verosimile provenienza sarda, come dimostra il fatto che sono state prevalentemente rinvenute sull’isola e che i bronzi di questa serie sono spesso ribattuti su monete sardo-puniche. Crawford le data al 199-170 a.C. e le attribuisce a Publio Manlio Vulsone, pretore in Sardegna nel 210; è difficile, però, ammettere che le emissioni portassero ancora la sigla MA in un periodo che va da 10 ad addirittura 40 anni dopo la sua pretura  (anche ammettendo che Vulsone sia rimasto alcuni anni sull’isola dopo la fine del suo mandato, come propretore). Breglia, invece, attribuisce queste monete ad Aulo Cornelio Mammula, che fu propretore in Sardegna proprio nel 217-216 a.C., e ritiene che siano state emesse in seguito alla disfatta di Canne, che comportò una riduzione dei finanziamenti provenienti da Roma. Datare questo denario al 216 a.C., tuttavia, imporrebbe di riconsiderare la cronologia stessa del denario: infatti, poiché il peso medio degli assi di questa serie è di 1 oncia, non di 2, la riforma sestantale (e quindi l’introduzione del denario, sicuramente coeva) anderebbe datata al 230 a.C., se non addirittura al 250 (come appunto Breglia credeva).

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Asse RRC 173/1, con al retro legenda "C SAX", sciolto in Gaius Clovius Saxula, come il pretore del 173 a.C. (di cui, forse, questo monetiere era figlio).

Modificato da L. Licinio Lucullo
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LE GUERRE IN ORIENTE E OCCIDENTE

 

Il secondo scontro con Cartagine proiettò Roma sullo scenario del Mediterraneo e ciò comportò un confronto diretto con i regni nati dalla dissoluzione dell’impero di Alessandro Magno, i più grandi e potenti dei quali erano Macedonia, Siria ed Egitto.

La Macedonia, in particolare, alla fine del III secolo a.C., era ancora una temuta potenza militare.

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Saputo della disfatta di Canne il re di Macedonia, Filippo V, desideroso di estendere i proprî dominî verso il litorale Adriatico, non esitò a dichiarare guerra a Roma (che allora già controllava le coste dell’Illiria, corrispondenti a quelle odierne di Croazia e Albania). L’Urbe reagì ma, ancora impegnata contro Cartagine, dovette infine accettare un accordo di pace sfavorevole, che riconosceva a Filippo il dominio su parte della costa.

Un effetto collaterale di questa prima guerra contro la Macedonia fu, tuttavia, la nascita di un’alleanza che non sarebbe mai più stata rinnegata, tra Roma e il regno di Pergamo (sulla costa della penisola anatolica).

Esaltatosi per quella che credeva una dimostrazione della propria superiorità militare, Filippo V decise di sottomettere l’intera Grecia e ne attaccò diverse comunità, fra cui Atene (che godeva dell’amicizia di Roma) e il Chersoneso Tracico (che era un possedimento dell’Egitto, alleato di Roma). Il Senato gli inviò un’ambasceria invitandolo a desistere; in tutta risposta, Filippo attaccò una seconda volta Atene e pertanto, nel 200 a.C., Roma gli dichiarò guerra. Nel 197 il comando delle operazioni fu assunto dal console Tito Quinzio Flaminino; dopo una serie battaglie minori egli condusse le legioni a Cinocefale (attuale Karadagh) ove, in un giorno di fitta nebbia, si trovarono di fronte alla temutissima falange macedone, allora ritenuta ancora quasi invincibile. La flessibilità dello schieramento romano ebbe la meglio sulla solidità di quello macedone: un ignoto tribuno intuì il momento giusto per compiere un aggiramento e riuscì a colpire la falange alle spalle, causandone la resa.

Alla Macedonia fu intimato solo di ritirarsi dalla Grecia e pagare i danni di guerra; da allora in poi, tuttavia, Filippo V non osò più sfidare l’autorità di Roma.

Nel 196 a.C. si svolsero a Corinto i Giochi Istmici, cui accorsero migliaia di spettatori da ogni città ellenica. Si presentò anche Flaminino, rimasto come proconsole: a un suo ordine, un araldo annunciò che al ritiro dei Macedoni non sarebbe seguito un dominio romano; per volere di Roma, la Grecia tornava libera. L'annuncio giunse inatteso: le grida di gioia furono così grandi che (si dice) causarono la morte degli uccelli in volo.

Flaminino fu effigiato su una moneta d’oro di cui oggi restano solo 10 esemplari. L’iconografia è bellissima e copia quella degli stateri di Alessandro Magno, con il chiaro intento di paragonare Flaminino al grande sovrano macedone che aveva sottomesso la Persia; c’è tuttavia una differenza rilevante, dato che il proconsole appare come un generale durante la campagna bellica (con barba irsuta e capelli al vento), anziché come un sovrano cinto di diademi: un militare anziché un monarca, a confermare che Roma non aveva intenzione di limitare la libertà delle poleis greche.

Si trattò probabilmente di un’emissione greca o macedone, come dimostra sia il valore nominale (si tratta infatti di uno statere) sia il fatto stesso che rompesse il tabù della rappresentazione di un uomo in vita. Potrebbe essere stato un pegno di gratitudine delle poleis, offerto forse a Flaminino durante la sua permanenza in Eubea (ove sappiamo che fu deificato), oppure un’iniziativa di Filippo V che, avendo accettato di pagare 1.000 talenti (pari a 2.600 kg d’oro), li avrebbe inviati con questa forma. Per il verso opposto è stato osservato che la legenda in Latino (T. QVINCTI) fa sospettare un’emissione romana: Babelon ipotizza quindi che la moneta sia stata commissionata dallo stesso proconsole con intento autocelebrativo, volendo egli far vedere che Roma aveva rimosso la monarchia macedone così come il volto del magistrato romano aveva preso il posto quello del re macedone. Nel dubbio, Crawford la censisce al termine del suo catalogo, come RRC 548/1.

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Morto Flippo gli succedette il figlio Perseo, che si illuse di poter riprendere la politica espansionistica contro il volere di Roma. Falange e legioni si scontrarono un’altra volta nel 168 a.C. a Pidna (attuale Pydna-Kolindros) e un’altra volta vinsero i Romani. Il console Lucio Emilio Paolo fu per questo soprannominato Macedonico; Perseo, fatto prigioniero insieme ai figli, dovette vivere in esilio in Italia; la monarchia fu dichiarata decaduta e la Macedonia fu smembrata in quattro repubbliche separate, dette merides (ossia “porzioni”), con capitali Thessalonica, Pella, Pelagonia (odierna Herakleia Lynkestis) e Amphipolis.

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La monetazione della merides costituisce un bell’esempio del fenomeno che è stato definito come “monetazione provinciale”; infatti, esse erano formalmente repubbliche indipendenti e, come tali, emisero (a eccezione di quella con capitale Pelagonia) proprie monete di bronzo e d’argento; tuttavia, adottarono o fu fatta loro adottare un’iconografia che attestava, senza possibilità di equivoco, la supremazia romana.

Un primo modello di questa monetazione sono gli assi macedoni, sul cui dritto è raffigurato Giano, divinità italica senza alcun corrispettivo nella mitologia greca (alcuni suoi caratteri sono comuni al Culsans etrusco), e la sua raffigurazione è perfettamente aderente a quella degli assi della Repubblica, con tanto di simbolo del valore (“I”) sopra la testa. Peraltro, se (come si pensa) tale simbolo li identifica effettivamente come assi, ne deriva che anche la valuta è romana, e non greca. Se il dritto esprime romanità, il rovescio invece è di chiara derivazione greca: sono infatti raffigurati due centauri (oppure, su una delle emissioni di Thessalonica, i Dioscuri a cavallo) che impennano, spalla contro spalla; la legenda è espressa in alfabeto greco e al genitivo della città (ΘΕΣΣΑΛΟΝΙΚΗΣ) o del popolo (ΑΜΦΙΠΟΛΙΤΩΝ). Sebbene l’esatta datazione di queste emissioni non sia nota, proprio la legenda costituisce un forte indizio per attribuirle agli anni immediatamente successivi al 168 a.C.: quando infatti la Macedonia tornerà unita (e sarà formalmente assoggettata come provincia romana), nel 147, la legenda diventerà ΜΑΚΕΔΟΝΩΝ.

Ancor più interessanti sono due bronzi con l’immagine di Roma al dritto, che recano al rovescio (all’interno di una corona di quercia) la legenda ΜΑΚΕΔΟΝΩΝ ΤΑΜΙΟΥ seguita da ΓΑΙΟΥ ΠΟΠΛΙΛΙΟΥ, oppure da ΛΕΥΚΙΟΥ ΦOΛΚΙΝΝΟΥ. Questa, infatti, è la trascrizione in Greco della firma dei questori (τάμιος, “cassiere”, è la traduzione di quaestor), magistratura tipicamente romana[1], e i nomi di tali questori sono anch’essi palesemente romani: Γάιος Ποπλίλιος sta per Gaius Publilius, Λεύκιος Φoλκίννος  per Lucius Fulcinnius. Queste monete, quindi, affermavano con chiarezza qual era la città che deteneva il dominio assoluto, Roma, ed erano emesse da magistrati (romani) che tale città aveva imposto per gestire gli affari della Macedonia (si qualificavano infatti come Μακεδόνων τάμιοι, “questori dei Macedoni”).

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In quegli anni avvenne un episodio che i Romani ricordarono per sempre come “il giorno di Eleusi”.

Nel 168 a.C. infatti il re seleucida di Siria, Antioco IV Epifane, decise di annettere l’Egitto al suo regno. Mentre una flotta occupava Cipro (che faceva parte dei territorî egiziani), l’esercito siriaco sconfisse facilmente quello nemico ed egli entrò trionfalmente a Menfi, ove si fece incoronare re d'Egitto con l’appellativo di Nicator, "il Vittorioso". Infine si spostò ad assediare Alessandria, in cui resistevano gli ultimi uomini fedeli ai Tolomei.

Disperati, gli Egiziani chiesero l’aiuto di Roma; e Roma intervenne, inviando una nave; ma quando il vascello attraccò ne scese un solo uomo[2], Gaio Popilio Lenate, che era stato console nel 172 ed era anche un vecchio amico di Antioco[3].

Lenate incontrò Antioco ad Elusi (località alla periferia di Alessandria); il re tentò di salutarlo, in nome della vecchia amicizia, ma il Romano lo bloccò e - di fronte ai suoi stessi soldati - gli ordinò di tornare in Siria. Antioco ridendo gli chiese dove fosse il suo esercito, e Lenate rispose che era lì in nome di Roma, non aveva bisogno di un esercito al seguito. Allora il re, capito che l’interlocutore non scherzava, affermò che doveva rifletterci; Lenate, preso un bastone, gli disegnò intorno un cerchio sulla sabbia e disse: “Pensaci qua dentro”. Trascorsero alcuni attimi di silenzio teso: possiamo immaginare Antioco IV Epifane, il Nicator, sovrano di Siria ed erede di Alessandro Magno, schiumare di rabbia mentre un uomo solo e indifeso - che però parlava in nome di Roma - lo umiliava in presenza del suo esercito; e di fronte a lui Lenate, placidamente appoggiato al proprio bastone, con la composta serenità di chi sapeva di rappresentare la Città Eterna.

Alla fine Antioco uscì dal cerchio nella sabbia, raccolse l’esercito e tornò in Siria. La potenza di Roma aveva ottenuto uno strabiliante riconoscimento.

Lenate lasciò l’Egitto e si recò a Cipro, ove ordinò alla flotta siriaca di andarsene. La flotta se ne andò.

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All’estremità opposta del Mediterraneo Roma andava consolidando la sua posizione nella penisola iberica,  ricca di risorse minerarie e fondamentale per il controllo del commercio marittimo: furono istituite due nuove province (Hispania Citerior e Hispania Ulterior), rinforzato l’apparato burocratico e assicurata una presenza militare stabile. Ciò portò a un deterioramento progressivo dei rapporti, inizialmente amichevoli, con i Celtiberi (popolazioni celtiche dell’Iberia). La prima guerra scoppiò nel 181 a.C. e fu chiusa con la vittoria romana nel 179, dal propretore Tiberio Sempronio Gracco (padre dei celeberrimi tribuni della plebe e console nel 177). Un secondo conflitto scoppiò invece nel 154 e fu concluso, nello stesso modo, nel 151 dal console Lucio Licinio Lucullo (homo novus, nonno dell’omonimo comandante militare che si scontrerà con Mitridate).

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Nel 149 a.C. si presentò sulla scena macedone un brigante, tale Andrisco, che affermava di essere figlio di Perseo; Roma, sottovalutandolo, mandò un piccolo contingente a soffocare la sua ribellione, ma Andrisco ebbe la meglio e si autoproclamò re di Macedonia, con il nome di Filippo VI.

Roma mandò allora un esercito regolare (2 legioni e altrettante truppe ausiliarie, per complessivi 20.000 uomini) agli ordini del pretore Quinto Cecilio Metello, supportato dalla flotta del regno di Pergamo. Nel 148 a.C. i Romani sconfissero di nuovo i Macedoni, di nuovo a Pidna; l’anno dopo il regno di Macedonia cessò definitivamente di esistere e divenne provincia di Roma. Anche Metello potette fregiarsi del cognomen Macedonico.

In Grecia, nel frattempo, imperversava una guerra civile tra Sparta e la Lega Achea, entrambe alleate di Roma. Nel 146 il Senato inviò un’ambasceria, ordinando che cessassero le ostilità; Sparta si adeguò, la Lega Achea invece proseguì con i suoi attacchi. Fu la fine dell’indipendenza greca, durata appena 50 anni: Roma inviò un esercito di Roma e l’ennesimo confronto tra falange e legioni si concluse come i precedenti. Le poleis elleniche, pur restando formalmente autonome, furono assoggettate al governatore della provincia di Macedonia.

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Nel 143 a.C. scoppiò di nuovo la guerra contro i Celtiberi, che si arroccarono a Numantia (centro urbano non più esistente), città fortificata capitale della tribù degli Arevaci. Furono sconfitti in battaglia dallo stesso Quinto Cecilio Metello Macedonico, inviato a soffocare la rivolta, ma loro città rimase inviolata e ciò permise loro di continuare a combattere. Nel 137 il console Gaio Ostilio Mancino negoziò un accordo di pace con gli Arevaci, sottoscritto su sua delega dal questore, un giovanissimo Tiberio Sempronio Gracco (figlio omonimo del propretore del 179 e futuro tribuno della plebe), ma il Senato non lo ratificò giudicandone disonorevoli le condizioni. Nel 134 il console Publio Cornelio Scipione Emiliano (figlio adottivo del figlio dell’Africano) decise allora di porre fine alla guerra stringendo d’assedio Numantia; parteciparono alle operazioni un giovanissimo homo novus, tale Gaio Mario originario di Arpino, e Giugurta, principe della Numidia (regno nordafricano alleato di Roma). I Romani non riuscirono a espugnare la città ma nel 133 a.C. i suoi abitanti, impossibilitati a sostenere ulteriormente le privazioni dell’assedio, si arresero. Numantia fu rasa al suolo

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L’emissione di assi provinciali si verificò non solo in Macedonia, ma anche in Sicilia e in Hispania.

In Sicilia circolarono, soprattutto nella porzione occidentale, gli assi della serie Giano/corona che recavano al dritto l’effige di Giano, al rovescio una serie di simboli molto diversi fra loro[4], talvolta con una sigla (P.TE, Q.B, Q.AVI, MAN ACILI Q., NASO, ΠOR[5], ΛΙΛ) e spesso circondati da una corona di alloro (da cui il nome della serie).

È molto discusso dove queste monete possano essere state coniate; le ipotesi più accreditate sono Panormus (attuale Palermo) o Lilybaeum (cui farebbero riferimento, rispettivamente, le sigle ΠOR e ΛΙΛ; le altre sigle invece costituirebbero il nome dei magistrati monetarî, considerato anche che Q potrebbe significare quaestor). Per quanto riguarda la datazione, si propende per un periodo lungo, compreso tra il 215 al 150 a.C. (come proposto da Puglisi e confermato da alcuni ritrovamenti in ripostigli contenenti anche monete datate al 200-150).

In Hispania invece furono emessi molti semissi e alcuni assi, correntemente definiti “imitativi”, caratterizzati dal fatto di copiare l’iconografia ufficiale repubblicana (Giano o Saturno al dritto, prora navis e legenda al rovescio) ma con uno stile peculiare (caratterizzato da forme gonfie e arrotondate), tipico di diverse produzioni numismatiche e grafiche dell’Hispania dell’epoca, e diversi errori di disegno (la prora navis, ad esempio, è spesso disegnata da destra a sinistra) e ortografici.

È tuttavia dubbio se queste monete, di fattura molto diversificata e in alcuni casi abbastanza grezza, siano emissioni di un'autorità locale oppure una forma di pseudo-monetazione (si definisce “pseudo-monetazione” l’emissione di monete da parte di gruppi o comunità che sopperivano così, in forma privata[6], alla carenza di spiccioli).

NOTE

[1]      Come detto nel post precedente, i questori presiedevano spesso alle emissioni itineranti e le firmavano; questa prassi vale anche per le emissioni “imperatoriali provinciali”.

[2]      Per la precisione, erano 15 persone: l’ex console, 12 littori di scorta e due scrivani.

[3]      Il re, infatti, aveva trascorso un periodo da ostaggio a Roma, ospite proprio di Lenate.

[4]      Testa di Giove, punta di lancia e mascella di cinghiale, ala d’uccello, lupa che allatta i gemelli, globetto.

[5]      Interessante, in questa sigla, la commistione fra caratteri greci (Π) e latini (R).

[6]      In un sistema con monete a valore intrinseco, infatti, è possibile che esse siano emesse anche da un privato (appunto perché valgono per il metallo che contengono, non per l’autorità che le garantisce).

 

ILLUSTRAZIONI

Lo statere RRC 548/1

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Asse di Amphipolis catalogato SNG Cop. 68.

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Bronzo del questore Gaius Publilius, catalogato SNG Cop. 1316

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Asse imitativo ispanico con legenda "AMOR"

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Assi siculi

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L’EVOLUZIONE DEL DENARIO

 

Tra la fine del III secolo a.C. e la metà del II, mentre consolidava la propria egemonia nel bacino del Mediterraneo, Roma portò avanti una serie di riforme del sistema monetario che, progressivamente, finirono per esaltare la funzione del denario, facendone un’esperienza del tutto peculiare nella storia numismatica.

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Alcune importanti innovazioni si verificarono sul piano tecnico.

In primo luogo, cessò l’emissione degli aurei; l’ultimo, RRC 106/1, fu coniato nel 206 a.C.

Ne conseguì un fatto curioso: nacque un secondo tabù (oltre a quello, già visto, di non raffigurare esseri umani viventi), per cui l’emissione di monete d’oro fu da allora in poi fu esecrata, forse ritenuta blasfema. Non sappiamo cosa abbia determinato questa idea; non fa parte sicuramente del mos maiorum (i magistrati monetieri continuarono a essere chiamati tresviri aere argento auro flando feriundo, a dimostrazione del fatto che la possibilità di monetare l’oro continuava a essere ritenuta parte della tradizione); forse fu un effetto delle (ipocrite) campagne contro l’opulenza, reiterate lanciate dai moralisti più intransigenti. Resta il fatto che solo Silla, dopo oltre un secolo (nell’81 a.C.), troverà il coraggio di emettere di nuovo un aureo.

Il vittoriato cessò di esistere, seppure più tardi dell’aureo (l’ultimo, RRC 168/1, fu coniato nel 179-170 a.C.); in questo caso, è presumibile che sia divenuto superfluo, perché l’affermarsi della solidità della valuta romana rese inutile l’offerta di dracme.

Terminò anche l’emissione dei sesterzi (l’ultimo, RRC 98A/4, è del 211-210 a.C.) e, più tardi, dei quinarî (l’ultimo, RRC 156/2, è del 179-170 a.C.); se i quinarî tornarono a essere prodotti in numeri consistenti nel 101 a.C., i sesterzî faranno invece solo alcune sporadiche apparizioni dal 91 a.C. Non si trattò tuttavia di una forma di obliterazione di queste due valute dal sistema (come accadde invece per l’aureo, sino alla ripresa da parte di Silla, e per il vittoriato): infatti, le fonti storiche continuarono a esprimere i prezzi e i pagamenti in sesterzi; probabilmente fu solo una lunga sospensione, dovuta ai costi di produzione di monete così piccole.

Per quanto riguarda le monete di bronzo, la progressiva, costante diminuzione del peso medio dell’asse (rispetto alla misura teorica di 2 once-peso) fu infine ufficializzata a metà del II secolo (nel 141 a.C., secondo Crawford) con l’adozione di uno “standard onciale” (ossia, con assi del peso di una sola oncia).

Quando il peso dell’asse fu portato a 24 scrupoli (1 oncia), fu conseguentemente necessario ridefinire il rapporto di parità tra argento e bronzo. Fu deciso allora di portare il peso del denario a 3,5 scrupoli e il suo valore fu rideterminato in 16 assi (anziché 10, pur continuando esso a chiamarsi - per l’appunto - “denario”), ottenendo così un rapporto di parità di circa 1:110, vicino a quello precedente di 1:120. Questo processo è oggi noto come “ritariffazione del denario”[1].

Sulle prime cinque emissioni (RRC 224/1, 225/1, 226/1, 227/1 e 228/1) fu apposto il nuovo segno di valore, XVI; probabilmente non piacque al pubblico (anche perché sembrava distonico, rispetto al nome "denarius"), per cui successivamente ricomparve il segno X; infine, fu talvolta apposto (per la prima volta su RRC 238/1 del 136 a.C.) il segno Ж, monogramma di XVI.

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Ancora più importante fu, tuttavia, l’evoluzione sul piano iconografico.

Nella tradizione greca, l’iconografia delle monete d’argento (oltre che d’oro) doveva permanere immutata nei decenni, se non addirittura nei secoli (salvo eventualmente, per i regni tardo-ellenistici, mutare il ritratto del re al dritto), per agevolarne l’immediato riconoscimento anche da parte di genti straniere. I Greci erano infatti inclini al commercio internazionale, che avveniva con monete d’oro e d’argento, e per i mercanti era importante che le controparti non dubitassero della bontà del denaro ricevuto.

Roma dapprima si comportò in modo anomalo, facendo emettere didracme l’una differente dall’altra; probabilmente ciò era connesso con il fatto che si trattava di emissioni “sperimentali”, appaltate a zecche campane o magno-greche. Infatti anche l’Urbe, quando standardizzò un proprio sistema monetale articolato su quadrigato e statere “del giuramento”, si adeguò alla prassi greca riproponendo sempre gli stessi disegni. Così avvenne anche per i vittoriati, gli aurei nonché - all’inizio - i denarî, i quinarî e i sesterzi.

Tuttavia, dopo alcuni anni, l’iconografia del denario cominciò a variare. Dapprima le modifiche furono limitate: siccome esso era chiamato anche bigatus (in analogia al termine “quadrigato”) per la presenza, al rovescio, dei due cavalli dei Dioscuri, la prima variante consistette nell’introdurre al loro posto altre divinità stanti su una biga: Luna dal 194 a.C.[2], poi Vittoria[3] e infine, nel 143, Diana[4], rese riconoscibili da un piccolo dettaglio grafico che richiamava un loro attributo (rispettivamente, un crescente sulla testa, le ali, una torcia in mano). Quando fu raffigurata Diana comparve un’ulteriore variante grafica: la sua biga fu infatti raffigurata trainata da cervi, anziché cavalli. I monetieri abbandonarono allora la fedeltà al modello bigatus e passeranno a rappresentare divinità in quadriga: dapprima, nel 143, Giove[5], copiando l’iconografia dei quadrigati; poi Giunone[6], Marte[7], Apollo[8]. Il tipo tradizionale dei Dioscuri su cavalli rampanti fu adottato un’ultima volta nel 121 a.C. con il denario RRC 278/1, dopo di che scomparve.

Una seconda, importante innovazione fu l’apposizione sulle monete stesse del nome del monetiere.

Dapprima furono apposti solo monogrammi, come AL (sciolto in Aelius) su RRC 111/1 del 211-208 a.C., QLC (sciolto in Quintus Lutatio Catulus) su RRC 125/1 del 206-200 a.C. e LPLH (sciolto in L. Plautius Hypsaeus), su RRC 134/1 del 194-190 a.C.; poi si passò ad abbreviazioni del nome, a cominciare da CN CALP (sciolto in Gnaeus Calpurnius) su RRC 153/1 datato 189-180 a.C. Dopo di ciò i nomi cominciarono a essere scritti in modo sempre più esteso: sul denario RRC 228/1 del 140 a.C., ad esempio, compare FLAC. C. VAL. C. F., ossia praenomen, nomen, cognomen e patronimico (Gaius Valerius Flaccus Gaii Filius).

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Attraverso queste varianti, nel 137 a.C. si arrivò alla svolta definitiva: furono emessi due denarî con iconografia del tutto innovativa. Si tratta di bellissime monete, fra le più belle dell’intero periodo repubblicano.

Il primo, RRC 234/1, reca al dritto il busto drappeggiato di Marte con elmo corinzio, con legenda TI. VET (con VET legati in un monogramma), che viene sciolta in Titus Veturius, e simbolo del valore (in questo caso, il tradizionale X); al rovescio è riproposta la scena del giuramento già presente sugli stateri RRC 28/1; il monetiere quindi abbandonò del tutto le rappresentazioni tipiche ma - non osando innovare in modo del tutto radicale - ripropose immagini che già appartenevano alla tradizione monetale della Repubblica, traendole dalle monete d’oro (Marte infatti è ripreso dagli aurei cosiddetti “marziali”).

Si ritiene che il monetiere sia figlio (oppure figlio di un fratello) di Titus Veturius Gracchi filius Sempronianus, augure del 174 a.C., che a sua volta era (come dice il suo nome) un appartenente alla gens Sempronia Gracco adottato da un appartenente alla gens Veturia, e aveva quindi un legame di sangue (forse erano cugini) con il console del 177, padre dei celeberrimi tribuni Tiberio e Gaio Sempronio Gracco.

Tanto premesso, è opinione comune che la moneta debba fare riferimento a un evento specifico e molto importante, perché solo un’evenienza simile poteva giustificare questa prima infrazione all’iconografia dei bigati (Dioscuri o divinità in biga o quadriga): Crawford ipotizza che sia stata emessa per finanziare la guerra in corso contro i Celtiberi e alluda al trattato di pace stipulato proprio nel 137 tra i Romani e gli Arevaci, ma poi non ratificato dal Senato. È significativo, al riguardo che il trattato fu firmato da Tiberio Sempronio Gracco, della cui parentela il monetiere probabilmente si vantava.

Di questo denario sono noti circa 80 conî di dritto e 100 di rovescio. Ne esiste un gruppo di stile più scadente, che Sydenham ipotizzò essere stato prodotto da una zecca esterna a Roma (ma Crawford non concorda).

Il secondo, RRC 235/1, reca al dritto la testa di Roma (con dietro una brocca e davanti il segno X) e, al rovescio, la scena mitologica del salvataggio di Romolo e Remo: la lupa che li allatta con, dietro, un picchio (che aiutò la lupa a sfamarli) aggrappato al ficus Ruminalis (l’albero presso cui il Tevere aveva deposto la cesta che li trasportava); sul lato sinistro sopraggiunge Faustulus (il pastore che li portò seco e li fece crescere come proprî figli) con, in mano, il bastone che divenne poi il lituus, bastone augurale di Romolo, e fu conservato e venerato fra le reliquie della Repubblica.

La legenda recita FOSTLVS - SEX. POM.; Sextus Pompeius fu sicuramente il monetiere, mentre è discusso se Fostlus, chiaramente derivato da Faustulus[9], fosse un suo cognomen (talché se ne dedurrebbe che egli volesse vantare una discendenza dal mitico pastore) oppure sia una didascalia per identificare il soggetto raffigurato sulla moneta.

Ha scritto un numismatico[10] che la rappresentazione al rovescio è “un vero quadretto di genere ove l’unico elemento rigido è rappresentato dalla lupa la cui lunga coda svolge, nel quadro compositivo, la funzione di staccare e porre in secondo piano la figura del pastore, ammirato e perplesso. Il fico ruminale è rappresentato da un arido alberello che a stento ingentilisce la sua secchezza con la presenza di qualche uccellino […]. La vivacità della rappresentazione dei due pupi è sorprendente e risalta maggiormente per l’espressiva ferocia della belva […] trattata con semplicità ed immediatezza”.

Ci saranno ancora, negli anni successivi, monete con raffigurazioni di divinità in biga, ma da allora in poi la pratica di emettere denarî con rappresentazioni diverse e innovative divenne, di gran lunga, prevalente.

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Merita, su questi processi che portarono il denario repubblicano a essere una moneta del tutto peculiare nel panorama numismatico di ogni tempo, fare alcune riflessioni.

La prima evoluzione (quella che portò all’iscrizione del nome del monetiere sulla moneta) è quella che suscita più perplessità. Essa fu chiara conseguenza della prassi, dei magistrati cum imperio, di “firmare” essi stessi (o far firmare dai loro questori) le emissioni itineranti, ma si sviluppò in senso del tutto anomalo; in quel caso, infatti, era giustificato dalla necessità di evidenziare che l’imperium conferiva liceità all’emissione; per le monete ordinarie questa esigenza non sussisteva e la firma diveniva mera personalizzazione di un potere pubblico. Ovviamente, in un'epoca in cui non esistevano i mass media, far conoscere il proprio nome al pubblico (anche al fine di coagulare un gruppo di potenziali elettori, per ottenerne in futuro i voti) e, in prospettiva, consegnarlo ai posteri era un privilegio molto ambito, ma difficilmente realizzabile. Dal punto di vista istituzionale, questo grande onore era riservato alle sole magistrature superiori, soprattutto i consoli, i cui nomi venivano a tal fine registrati nei fasti consulares; all’estremo opposto del cursus honorum tuttavia, i magistrati di rango più basso - i monetieri - trovarono un espediente per ottenere lo stesso effetto, firmando il prodotto del loro lavoro. Paradossalmente, oggi non conosciamo più i nomi di molti magistrati importanti (edili, questori, tribuni della plebe …), ma conosciamo quelli dei monetieri.

Ben più peculiare è tuttavia la seconda evoluzione (quella che portò alla variabilità nell’iconografia). A seguito di essa, per un secolo Roma emise monete centinaia di monete differenti l’una dell’altra, variandole ogni anno. Anche in questo caso, l’incentivo al cambiamento fu il desiderio dei monetieri di approfittare di oggetti che sarebbero passati di mano in mano per far giungere il loro messaggio al grande pubblico; dato tuttavia che non potevano rappresentare sé stessi, utilizzarono l’iconografia per fare pubblicità (nella tipica mentalità romana) alla propria gens, rievocando di solito (ma non sempre) eventi del passato in cui era stato coinvolto un altro membro dello stesso gruppo gentilizio. Questa evoluzione è un chiaro segno dell’enorme potere e prestigio cui era assurta Roma, nel mondo allora conosciuto. Nessun altro Stato poteva permettersi il lusso di cambiare con frequenza l’iconografia della propria moneta, a rischio di renderla irriconoscibile; tutt’oggi, le monete degli Stati mantengono inalterati i tipi rappresentati su monete e cartamoneta per decenni (il dollaro statunitense, ad esempio, è inalterato da secoli). Eppure, Roma era divenuta una tale superpotenza da non temere di essere confusa con alcun altro Stato; poteva immettere sul mercato dischetti d’argento con qualunque disegno volesse, ed era sicura che sarebbero stati accettati.

NOTE

[1]      La ritariffazione a 16 assi è attestata (oltre che dai segni di valore XVI e Ж) anche da Plinio (XXXIII, 45), che tuttavia la data (commettendo sicuramente un errore) al 217 a.C. La diminuzione di peso da 4 a 3,5 scrupoli si ricava, invece, dall’osservazione degli esemplari rimasti.

[2]    Il primo esempio è una moneta oggi rarissima datata al 194-190 a.C., RRC 133/3.

[3]    A partire da RRC 197/1, datato 169-158.

[4]    A partire da RRC 222/1.

[5]    Con il denario RRC 221/1.

[6]    RRC 223/1, del 142 a.C.

[7]    RRC 232/1 del 138 a.C.

[8]    RRC 236/1, del 137 a.C.

[9]      Sappiamo che la contrazione au > o (che sarà poi ereditata dalla lingua volgare) era in voga nelle famiglie plebee, che evidentemente si facevano vanto di adottare una pronuncia più “moderna”.

[10]    Bernareggi, Eventi e personaggi sul denario della repubblica romana, 1963.

 

ILLUSTRAZIONI

Denario RRC 252/1 del 131 a.C. Al dritto, testa di Roma con elmo attico; dietro, un apex (copricapo rituale in uso ad alcuni sacerdoti); davanti, simbolo del valore Ж. Al rovescio, Marte su quadriga; sotto, L. POST. ALB. e in esergo ROMA. Questa moneta è un esempio di tutti e tre i processi evolutivi subiti dal denario nella prima metà del II secolo a.C.: la ritariffazione a 16 assi; l’adozione di un tipo con divinità in quadriga; l’apposizione del nome del monetiere. Questi in particolare, tale Lucius Postumius Albinus, potrebbe essere (secondo Crawford) figlio dell’omonimo, eletto console per il 154 ma prima di entrare in carica, che probabilmente era anche flamen (cioè, massimo sacerdote) di Marte (ciò spiegherebbe la scelta del ritratto e la presenza dell’apex). Si noti la raffigurazione di Roma, estremamente stilizzata e quasi mascolina, presente su altre monete dello stesso periodo: si ritiene che in questi anni abbia operato a Roma un incisore (o una scuola di incisori) che adottava uno stile talmente scadente, sul piano iconografico, da risultare peculiare.

 

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Denario RRC  234/1

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Denario RRC 235/1

 

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L'EPOCA DEI GRACCHI

 

Con l’annessione dell’ex impero cartaginese e della Macedonia Roma subì le conseguenze del cambiamento sociale: le guerre continue, cui erano chiamati a partecipare tutti i cittadini (eccetto i nullatenenti), portarono all’impoverimento del ceto contadino, costretto a lasciare i terreni incolti per anni; peraltro, i piccoli agricoltori non potevano competere con i bassi prezzi delle derrate provenienti dalle province (Sicilia, Sardegna, Africa). Nuovi “proletarî” si riversarono quindi per le strade di Roma, alla ricerca di mezzi di sostentamento.

Una testimonianza delle difficoltà di questa nuova classe sociale sono due monete (RRC 242/1 e 243/1) emesse nel 135 e nel 134 a.C. da monetieri della gens Minucia[1].

Esse rappresentano entrambe, al rovescio, la colonna Minucia (monumento antichissimo, eretto da quella gens) e due figure in piedi di cui la prima distribuisce pagnotte, l’altra regge il lituo (bastone rituale degli àuguri). Sappiamo che la colonna Minucia era il luogo presso cui avvenivano le frumentationes (distribuzioni di pane o grano ai poveri), alcune delle quali erano state attuate nel 492 e nel 491 a.C., a opera di due consoli appartenenti alla gens Minucia[2]; le monete, quindi, commemorano quell’evento, con l’evidente intento di sollecitare la ripresa delle frumentationes. È, questo, un perfetto esempio di come fu usata l’iconografia monetale durante la Repubblica: formalmente, venivano commemorati eventi del passato; nella sostanza, tuttavia, si celebrava il retaggio della propria gens e, nel frattempo, si veicolava spesso un messaggio politico di stretta attualità.

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La più giovane delle figlie di Scipione l’Africano, Cornelia[3], donna colta e determinata, sposò Tiberio Sempronio Gracco (il propretore che nel 179 aveva inflitto una prima sconfitta ai Celtiberi), avendone due figli, Tiberio (che, come d’uso, ebbe lo stesso nome del padre) e Gaio. Rimasta vedova e chiesta in sposa dal re d’Egitto, Tolomeo VIII Evergete Trifone, rifiutò per dedicarsi all’educazione dei figli.

Tiberio, determinato a porre un rimedio all’impoverimento dei piccoli agricoltori, si fece eleggere tribuno della plebe nel 133 a.C. e, in questa veste, propose una legge che fissava a 500 iugeri (estensibili sino a 1.000 in caso di figli a carico) il limite dell’ager publicus che ogni singolo poteva possedere, per contrastare l’accaparramento che ne avevano fatto i grandi latifondisti; i terreni così recuperati sarebbero stati distribuiti ai cittadini più poveri in lotti di 30 iugeri. I suoi oppositori politici convinsero un altro tribuno, Marco Ottavio, a opporgli il veto, ma allora egli lo fece destituire dagli stessi elettori; la legge agraria fu approvata e della commissione di triumviri incaricati di curarne l’attuazione fu chiamato a far parte anche suo fratello, Gaio.

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Quello stesso anno morì, nel lontano regno di Pergamo (che, come visto, da 80 anni era un fidato alleato di Roma), il re Attalo III. Il sovrano non aveva avuto figli e, temendo che il suo fiorente regno potesse essere conquistato dal ben più potente regno di Siria, decise così di fare un regalo ai suoi sudditi lasciandolo in eredità al popolo romano; si ripeteva, a distanza di due secoli, un’iniziativa simile alla deditio di Capua. Trattandosi però di un’eredità, doveva essere accettata dal Senato, alcuni membri del quale espressero perplessità sull’opportunità di annettere una terra così lontana; ne seguì un temporaneo vuoto di potere, di cui approfittò un fratellastro di Attalo, tale Aristonico, che si autoproclamò re con il nome di Eumene III.

Attalo III tuttavia non aveva lasciato solo il trono al popolo romano, ma anche le sue immense ricchezze; quando si seppe Tiberio Sempronio Gracco propose di distribuirle ai nuovi piccoli proprietari terrieri, per consentire loro di acquistare l’attrezzatura necessaria per coltivare. Fu troppo per la nobiltà (che evidentemente aspirava a far proprie quelle stesse ricchezze), la quale lo accusò di aspirare alla tirannide; Tiberio fu allora ucciso durante un tumulto di piazza, appositamente scatenato.

Si trattò di un momento cruciale nella storia di Roma: per la prima volta divenne plateale che i politici ritenevano ammissibile far uccidere i proprî avversari, quando non riuscivano a fermarli in modo legale. Le guerre civili del secolo successivo e l’instabilità del trono imperiale in quelli ancora seguenti iniziarono così.

Malgrado questa violenza, comunque, i Romani rimasero ossequiosi della legge e la riforma agraria voluta da Tiberio fu portata avanti.

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Nel frattempo,. la rivolta di Aristonico fu domata e nel 129 a.C. Roma decise di annettere il territorio del disciolto regno di Pergamo come provincia d’Asia, la cui capitale fu spostata a Efeso (città non più esistente).

Una testimonianza monetale del processo di progressiva romanizzazione del regno di Pergamo è rappresentata dai cosiddetti “cistofori”: tetradracme (monete d’argento da quattro dracme, del perso di oltre 12 g) recanti al dritto una cesta (da cui il nome) con serpenti, simbolo di riti dionisiaci, e al rovescio due serpenti attorcigliati attorno a una faretra. Furono emessi a Pergamo a partire dal 200 a.C. e si diffusero rapidamente in tutta l'Asia Minore, diventando così la moneta con cui si effettuavano i commerci in Asia.

Molti di essi riportano la data (espressa secondo un conteggio locale) ed è stato così possibile verificare che continuarono a essere ininterrottamente emessi, anche dopo la costituzione della provincia d’Asia. Inoltre, dopo alcuni anni comparve su tali monete il nome del magistrato romano che ne aveva disposto l’emissione. I cistofori si pongono così come uno dei più begli esempî di monetazione provinciale repubblicana.

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Gaio Sempronio Gracco fece ritorno a Roma nel 124 a.C., dopo essere stato pretore in Sardegna, e ottenne per due anni di seguito (123 e 122) l’elezione a tribuno della plebe. Decise di proseguire l’opera del fratello e ne allargò la portata, proponendo una lunga serie di leggi che miravano a contenere la prepotenza dei nobili e a migliorare la vita delle classi meno agiate. Fra le altre, fece approvare una lex frumentaria che disponeva (come auspicato nei denarî della gens Minucia) la ripresa delle frumentationes presso la colonna Minucia.

Nel 122 commise però un passo falso: propose di estendere la cittadinanza romana ai Latini e quella latina agli Italici, per consentire anche a loro di accedere ai benefici che tale status giuridico permetteva; questa iniziativa gli fece perdere il favore della plebe, gelosa dei proprî privilegi (fra cui le frumentationes). La nobiltà ne approfittò: nel 121 scoppiarono una serie di disordini, probabilmente fomentati dai senatori stessi, e di conseguenza il Senato adottò, per la prima volta nella storia, un senatus consultum de re publica defenda, ossia un provvedimento che, pur avendo in teoria efficacia solo consultiva (essendo appunto un consultum), di fatto autorizzava i magistrati a uccidere cittadini romani per difendere l’integrità della Repubblica. Avendo capito di non avere speranza di sopravvivere alla violenta repressione che ne seguì, Gaio incaricò un suo stesso servo di togliergli la vita.

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Nel 125 a.C. i Salluvi, tribù dei Liguri (antico e bellicoso popolo pre-indoeuropeo), aveva attaccato Massilia (attuale Marsiglia), colonia greca che godeva di un’amicizia storica con Roma (aveva cercato anche di fermare l’avanzata di Annibale verso l’Italia). Roma intervenne allora a difesa della città e sconfissero prima i Salluvi, poi gli Allobrogi, fiera popolazione celtica che ne aveva preso le difese.

Per celebrare la vittoria nel 119 a.C. fu emesso un denario, RRC 281/1, da parte di tale Marcus Furius Philus "figlio di Lucio" (la firma sulla moneta è infatti M. FOVRI. L. F. al dritto, PHILI al rovescio); probabilmente suo padre era il console 136 a.C., veterano di Numantia. La moneta reca al dritto una bella rappresentazione di Giano; al rovescio è invece raffigurata una dea, esplicitamente identificata in Roma da una didascalia (posta alla sua destra), che pone una corona d’alloro sopra un trofeo d’armi. Le armi, a loro volta, sono chiaramente galliche, come dimostra la foggia degli scudi rettangolari e, ancor di più, la presenza di due carnices: il carnyx era infatti una tromba da guerra, a forma di testa di serpente o dragone, ed era usata dagli eserciti celtici.

Il territorio sottratto ai Salluvi e agli Allobrogi (corrispondente alla porzione meridionale dell’attuale Francia) fu annesso alla Repubblica, per realizzare un collegamento terrestre tra l’Italia e le province in Hispania, e nel 121 a.C. divenne la nuova provincia della Gallia Transalpina (talché ancora oggi si chiama “Provenza”, da “provincia”).

Nel 118 a.C. vi fu fondata una nuova capitale, la città di Narbo Martius (attuale Narbona), che per la sua importanza ottenne il prestigioso status giuridico di colonia di diritto romano (la prima, di questo tipo, dedotta oltralpe): era cioè, formalmente, un “quartiere” distaccato di Roma stessa. Di conseguenza, la provincia fu ridenominata Gallia Narbonensis.

In occasione della deduzione della colonia e, probabilmente, proprio per pagare le spese connesse con essa fu emessa, probabilmente proprio nel 118 e presso una zecca sita a Narbo, una serie monetale ad hoc, la RRC 282. Si tratta di cinque denarî serrati[4] accomunati dalla medesima iconografia (la testa di Roma al dritto e un guerriero gallico su biga, munito di lancia, scudo e carnyx, al rovescio) e dalla firma, al rovescio, L. LIC. CN. DOM, ossia Lucius Licinius Crassus e Gnaeus Domitius Ahenobarbus. Sappiamo che il primo aveva caldeggiato la deduzione della colonia contro l’opposizione del Senato, l’altro aveva fatto costruire la prima strada romana della Gallia, la via Domitia, per collegare la nuova colonia all’Italia; è probabile che firmassero le monete in quanto duoviri coloniae deducendae. Al dritto, invece, le cinque monete si distinguono perché recano cinque firme diverse (una per moneta)[5]: sono sicuramente i nomi dei magistrati monetarî (che forse nell’occasione avevano l’incarico di curatores denariorum flandorum).

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Terminava così l’epoca dei Gracchi e diveniva evidente che il potere dell’oligarchia nobiliare si fondava ormai solo più sulla violenza, non sul consenso.

È forse per questa ragione che poco dopo fu emesso l’ultimo denario anonimo (privo, cioè, della firma del monetiere), RRC 287/1, datato 115- 114 a.C.: si tratta di una moneta bellissima, quasi malinconica, che rievoca Roma così com’era alle origini. Al dritto è raffigurata la testa di Roma; al rovescio compare la medesima dea, seduta su un mucchio di scudi con una lancia in mano, che ammira gli eventi connessi con la sua stessa nascita: la lupa che allatta i gemelli e, in volo, i due avvoltoî che diedero a Romolo il presagio ritenuto propedeutico alla fondazione.

NOTE

[1]      La prima è firmata C.AVG, Gaius Augurinus, la seconda TI. MINVCI. C. F AVGVRINI, Titus Minucius Gai filius Augurinus. Forse erano fratelli.

[2]      Nell’iconografia, quindi, il soggetto che distribuisce il pane è uno di tali consoli; quello col lituo è probabilmente un altro appertenente alla gens, Marco Minucio Feso, che era stato, nel 300 a.C., un dei primi àuguri plebei.

[3]      Dei tre nomi previsti per gli uomini romani (praenomen, nomen ed eventuale cognomen o cognomina) le donne ne ereditavano dal padre uno solo, il nomen, declinato al femminile (Cornelia, Giulia, etc.).

[4]      Si definiscono “serrate” alcune monete con il bordo dentellato che Roma emise in alcuni momenti della sua storia. È discussa la ragione di tale espediente; forse, per ridurre i rischi che il metallo si rompesse quando riceveva il colpo del conio di martello.

[5]      M. Aurelius Scaurus su RRC 282/1, L. Cosconius su RRC 282/2, C. Poblicius Malleolus su RRC 282/3, L. Pomponius su RRC 282/4, L. Porcius Licinus su RRC 282/5.

 

ILLUSTRAZIONI

Denari RRC 242/1 e 243/1 del 135 e 134 a.C.

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Cistoforo catalogato Stumpf 38 e datato 57-55 a.C. La legenda al rovescio comprende, in alto, il nome del proconsole, in caratteri latini (C. SEPTVMI T. F. PRO COS.); in basso, quello del monetiere, in caratteri greci (ΜΗΝΟΓΕΝΗC); a sinistra, la sigla ΠΕΡ in monogramma (Pergamo, luogo di emissione). Si noti l’uso dei due alfabeti diversi, chiara testimonianza della doppia natura della monetazione provinciale, che è sì “romana”, ma anche “locale”.

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Denario RRC 281/1

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Denari  RRC 282/2 e 282/5. Si noti che il primo porta il simbolo di valore X, il secondo Ж; evidentemente  erano ormai ritenuti equivalenti

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Denario RRC 287/1

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L’ASCESA DI GAIO MARIO

 

Nel 118 a.C. il re di Numidia (attuale Algeria), morendo, lasciò tre successori, Aderbale, Iempsale e Giugurta. Forse pensava che Roma, sua alleata storica, avrebbe vigilato sulla spartizione tra i tre eredi, ma Giugurta - che conosceva bene i Romani, per aver partecipato all’assedio di Numanzia - era convinto di poter approfittare della loro avidità per impedirne l’intervento.

Uccise Iempsale, e corruppe i Senatori per non essere accusato. Roma inviò una commissione per sovrintendere sulla spartizione, ed egli ne corruppe i membri. Uccise Aderbale e massacrò gli abitanti di Cirta (odierna Costantina), compresi i Romani che vi dimoravano, ma quando Roma inviò un esercito, ne corruppe il comandante. Il Senato gli ordinò di presentarsi personalmente a Roma; si presentò, ma corruppe un tribuno della plebe affinché opponesse il veto al suo interrogatorio consentendogli, così, di tornare in patria.

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L'indignazione e le proteste popolari, contro una classe nobiliare rivelatasi corrotta e incapace, dilagarono. Fu in questo contesto che nel 112-111 a.C., proprio mentre Giugurta compiva la strage di Cirta, tale Gnaeus  Cornelius Blasio[1] (non altrimenti noto) emise il denario RRC 296/1, che reca al dritto una testa maschile e al rovescio la triade capitolina[2]. Il ritratto al dritto non è idealizzato, come quello degli dei, ma disegna una persona reale ed è somigliante in tutti i conî, come se gli incisori avessero copiato una statua o una maschera funebre: è opinione comune[3] che vi sia raffigurato Scipione l'Africano, sia perché è naturale che un appartenente alla gens dei Cornelii celebrasse il più illustre fra i suoi antenati, sia perché assomiglia al ritratto presente sulle monete di Nova Carthago.

Il messaggio è chiaro: nel momento in cui, in Africa, un re straniero si prende gioco di Roma, massacrandone i commercianti e corrompendone i governanti, il monetiere auspica il ritorno di un condottiero della caratura dell’Africano, che proprio in quella stessa terra era stato capace di piegare il più temuto fra i nemici e, così, di “debellare superbos” (come scriverà Virgilio nell’Eneide).

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Era veramente troppo: nel 109 Roma inviò un nuovo esercito in Africa, agli ordini del console Quinto Cecilio Metello cui fu assegnato - come vicecomandante[4] - un vecchio guerriero, un cinquantenne che aveva partecipato anche all’assedio di Numantia (e quindi conosceva Giugurta), Gaio Mario. Proveniente da una famiglia di commercianti, per questo disprezzabili (dal punto di vista dei nobili) ancorché ricchissimi, era stato accettato dall’alta società romana solo perché, nel 110, aveva sposato Giulia, appartenente a una stirpe di nobilissime origini che discendeva, addirittura, da Venere, sebbene ormai relativamente povera: il pater familias, tale Gaio Giulio Cesare, era infatti costretto a vivere in un palazzo popolare, nel quartiere della Suburra.

Metello sconfisse più volte l’esercito numidico, ma Giugurta si nascose presso suo suocero Bocco (re di Mauritania) e da là continuò a dirigere una feroce guerriglia. Mario presentò allora la sua candidatura a console, affermando di poter fare meglio di Metello; il popolo, conoscendo le sue capacità militari, lo elesse console per il 107 a.C. e gli affidò la conduzione della guerra.

Uno dei questori di Mario era un soggetto a dir poco equivoco: suo cognato (aveva infatti sposato, anch’egli nel 110 a.C., un’altra Giulia, sorella della moglie di Mario[5]), un trentenne molto povero che aveva vissuto in totale dissolutezza fra prostitute e malfattori, sebbene appartenesse a una gens nobilissima, addirittura la stessa dell’Africano. Si chiamava, infatti, Lucius Cornelius Sulla (o Sula, o Silla).

Contro ogni aspettativa, Silla si rivelò un abilissimo guerriero; non solo aiutò Mario a conquistare tutti i territorî rimasti in mano agli insorti, ma infine riuscì - lui personalmente, da solo - a convincere Bocco a tradire il genero e, così, fece prigioniero l’infido Giugurta. Solo Roma poteva ordinare a un re di consegnare un altro re, suo parente, ed essere ubbidita.

Nel 105 a.C. la guerra era quindi finita; il merito andò a Mario, proconsole e comandante in capo, ma Silla si vantò per il resto della vita di essere lui l’autore della cattura di Giugurta.

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Nel frattempo, però, un pericolo maggiore incombeva sull’Urbe: se Giugurta aveva offeso l’orgoglio di Roma, un nemico ben più temibile ne minacciava l’esistenza stessa.

Nel 113 a.C. le popolazioni del Norico (area collocata sul confine tra le attuali Baviera e Austria) chiesero l’aiuto dei Romani per fermare una popolazione germanica, i Cimbri, che voleva invaderne i territorî. Il Senato inviò prima ambasciatorî poi, fallita la trattativa (perché i Cimbri volevano stanziarsi sui territorî di Roma, ma senza sottomettersi a essa) un esercito di ben 30.000 uomini agli ordini del console, Gneo Papirio Carbone. I nemici tuttavia erano molti di più e si rivelarono guerrieri feroci e tenaci: nella battaglia di Noreia (forse, la moderna Magdalensberg) sconfissero duramente i legionarî.

A quel punto i Cimbri ripresero la loro marcia diretti in Gallia e a loro si unirono altre due popolazioni germaniche, Teutoni e Ambroni. Nel 109 ci fu un altro scontro con l’esercito romano e, di nuovo, vinsero.

All’improvviso, fu evidente anche ai Celti che Roma non era affatto invincibile: nel 107 una loro feroce tribù, i Tigurini, sonfisse un altro esercito consolare presso Agen uccidendo lo stesso console, Lucio Cassio Longino, e si unì ai Germani. Alla notizia della battaglia molte altre tribù celtiche si ribellarono a Roma.

Roma decise di fermare, una volta per tutte, la migrazione germanica. Furono inviati in Gallia ben due eserciti, uno al comando del proconsole Quinto Servilio Cepione, l’altro del console Gneo Mallio Massimo.

Nel 105 a.C. i due eserciti si ricongiunsero ad Arausio (attuale Orange): era uno schieramento impressionante, 80.000 combattenti e 40.000 assistenti, ma i due comandanti si trovarono in disaccordo perché Cepione, esponente dell’aristocrazia, rifiutò di prendere ordini da Mallio, homo novus.

Quando infine i nemici giunsero alla vista, erano in numero sterminato: l’orda barbarica, ormai formata da tre popolazioni germaniche e una celtica, aveva raggiunto l’incredibile dimensione di 500.000 persone[6]. Approfittando anche della divisione tra i due comandanti romani, essi travolsero e distrussero entrambi gli eserciti, chiusi in trappola con il Rodano alle spalle; pochissimi riuscirono a salvarsi, a nuoto. Il più grande esercito mai schierato dalla Repubblica fu completamente annientato: in termini di perdite umane, Arausio fu la più grave sconfitta romana, ben più sanguinosa di quelle inferte dai Cartaginesi.

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Dopo la battaglia Arausio, forse ben più che dopo quella di Canne, la civiltà romana rischiò di essere spazzata via dalla storia. I nemici erano in numero impressionante e, non essendo mercenarî (come i soldati di Annibale) ma interi popoli in migrazione (le donne dei Germani, narrano le fonti, assistevano alle battaglie dai carri minacciando di uccidere se stesse e i proprî figli, in caso di sconfitta) non avevano nulla da perdere.

Roma, dal canto suo, aveva subito quattro gravissime sconfitte in soli otto anni, perdendo forse 200.000 uomini: difficilmente avrebbe saputo come opporsi a un’invasione dell’Italia. Agli uomini idonei a combattere fu vietato di lasciare l’Italia, ma erano ormai veramente pochi. L’Urbe sopravvisse solo perché i barbari decisero di razziare l’Hispania, prima dell’Italia.

Conscio del pericolo, il popolo prese l’unica decisione sensata: elesse di nuovo console il soldato per eccellenza, Gaio Mario, e gli affidò pieni poteri per sconfiggere il nemico.

Mario, che conosceva bene l’esercito e i suoi difetti, lo riformò in modo radicale. Arruolò, per la prima volta nella storia di Roma, anche i nullatenenti, armandoli a spese dell’erario. Modificò la struttura tattica delle legioni, sostituendo i manipoli con le coorti (strutturate per operare con maggior autonomia). Fidelizzò i soldati a un simbolo che dovesse essere difeso sino alla morte, affidando a ogni legione l’insegna aurea di un’aquila (a sua volta, personificazione del potere di Giove). Ridusse al minimo il personale addetto al trasporto delle salmerie, obbligando i suoi soldati (che, per questo, furono soprannominati “i muli di Mario”) a portarsi sulle spalle non solo le armi, ma anche i viveri e gli strumenti per costruire il campo fortificato. Condusse le legioni nella Gallia Narbonese e le obbligò a estenuanti marce e addestramenti quotidiani, affinché non solo si fortificassero nel corpo, ma imparassero anche a conoscere valli e montagne.

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Nel 102 a.C. i barbari tornarono dall’Hispania e decisero di attuare una manovra a tenaglia per invadere l’Italia: Teutoni e Ambroni sarebbero passati dalla Liguria, i Cimbri dalla valle dell’Adige, i Tigurini dal Carso.

Ritenevano che Roma non sarebbe stata in grado di fronteggiare tre diversi direttrici d’invasione ma, questa volta, si sbagliavano.

Mario attese pazientemente i nemici trincerato nei campi fortificati di Aquae Sextiae (attuale Aix en Provence). Quando arrivarono sul posto, Teutoni e Ambroni li attaccarono ma - privi di macchine d’assedio - non riuscirono a espugnarli; sfilarono allora davanti alle mura del castrum sbeffeggiando i soldati che, forgiati dalla ferrea disciplina imposta loro da Mario, attendevano impassibili all’interno.

Quando l’ultimo Germano si fu allontanato, i legionarî uscirono dalle loro fortificazioni. Divenuti padroni del territorio dopo tre anni di marce forzate, attraversano percorsi montani sconosciuti ai barbari e nascosti alla vista. Arrivarono addosso ai nemici mentre preparavano il loro accampamento, e arrivarono calando da una posizione sopraelevata; fu una vittoria schiacciante. In una sola battaglia, Teutoni e Ambroni avevano smesso di essere una minaccia.

In Gallia Cisalpina, nel frattempo, il console Quinto Lutazio Catulo[7] (con cui collaborava il validissimo Silla) attendeva la calata dei Cimbri. Quando tuttavia essi si presentarono al valico del Brennero, erano in numero esorbitante; capì che da solo non sarebbe riuscito a fermarli e ritirò progressivamente l’esercito, lasciandoli dilagare nella pianura padana. Mentre loro saccheggiavano, Catulo attendeva l’arrivo di Mario.

Nell’estate del 101 ai Campi Raudii (presso Vercelli) gli eserciti ricongiunti di Mario e Catulo affrontarono i Cimbri, sconfiggendoli duramente. I pochi sopravvissuti furono fatti schiavi. I Tigurini, appresa la notizia, tornarono spontaneamente nella loro terra d’origine, l’attuale Svizzera.

Roma era salva; la cultura occidentale era salva. Mario e Catulo celebrarono il trionfo alla fine del 101, ma per il popolo il merito di aver salvato l’Urbe era solo di lui, il soldato di umili origini.

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Le grandi e insperate vittorie contro Teutoni, Ambroni e Cimbri suscitarono ondate di gioia e ispirarono l’iconografia delle emissioni monetali per anni. Fra le tante, meritano di esserne citate tre.

La prima è il denario RRC 326/1, emesso nel 101 da Gaius Fundanius che, come egli stesso scrive, era questore (reca infatti la legenda Q e C. FVNDAN). Raffigura al dritto la testa di Roma, al rovrscio un uomo su una quadriga che regge in mano un ramo d’alloro; siccome l’alloro è simbolo di vittoria, se ne deduce che sia un generale che celebra il trionfo. Il particolare meritevole d’attenzione è tuttavia una piccola figura aggiuntiva, un altro essere umano (di dimensioni ridotte) che monta uno dei cavalli della quadriga. Come detto, era ritenuto assolutamente vietato, all’epoca, raffigurare persone in vita sulle monete; quindi possiamo immaginare che Fundanio abbia assicurato tutti che la sua era una generica rappresentazione della cerimonia del trionfo. Tuttavia, grazie all’espediente della figura che monta un cavallo tutti potevano capire che, in realtà, il questore avesse voluto raffigurare proprio Gaio Mario: egli, infatti, aveva portato con sé, sul carro trionfale, il figlioletto di 8 anni. Questa quindi (se si esclude il misterioso statere di Flaminino) può essere considerata la prima moneta ufficiale in cui, seppur in modo sottinteso, compare l’immagine di un uomo in vita.

Interessante è anche il denario RRC 324/1, emesso quello stesso anno 101.

Al dritto è rappresentata Roma, contornata da corona d'alloro; al rovescio, con chiaro riferimento alla sconfitta dei Germani, la Vittoria in biga e la firma del monetiere, RVF. M. LVCILI (Marcus Lucilius Rufus). La particolarità è la legenda al dritto: PV. Due denarî pressoché contemporanei recano sigle simili, sempre al dritto: EX. A. PV. su RRC 322/1b del 102 e ARG. PVB. su RRC 325/1 del 101. Si ritiene che tutte esse significhino ex argento publico, ma questa interpretazione suscita dubbî interpretativi, considerato che tutto l’argento monetato dovesse essere pubblico. Secondo Barlow e Crawford la sigla attesta che la moneta fu prodotta con metallo tratto da qualche riserva speciale (addirittura l'Aerarium Sanctius, ossia la riserva da usare in casi di estrema emergenza, secondo il primo studioso) in un momento di grave difficoltà: benché ormai la guerra volgesse al termine, la moneta è quindi una muta testimone del baratro cui si era avvicinata Roma sotto la pressione delle invasioni germaniche.

La terza emissione d’interesse è quella di una serie quinarî che rappresentano tutti, al retro, la Vittoria che incorona un trofeo d’armi: RRC 326/2 del 101 a.C., RRC 331/1 del 99, RRC 332/1 del 98 e RRC 333/1 del 97. La prima considerazione è constatare che la vittoria di Mario su Teutoni, Ambroni e Cimbri fosse ancora oggetto di celebrazione a distanza di 4 anni dagli scontri; si ritiene infatti che i disegni al rovescio riproducano i trofei eretti per commemorarla. La seconda è l’anomalia della scelta di emettere quinarî: non solo la coniazione di tali monete veniva ripresa dopo quasi 70 anni, ma negli anni 99-97 non fu accompagnata da quella di denarî o assi: furono emessi solo quinarî. Perché? Alcuni autori (Belloni e Amisano fra tutti) hanno proposto che fossero, in realtà, vittoriati (i quali fra l’altro avevano un’iconografia simile, al rovescio), anche se pesano circa 2 scrupoli anziché 3, emessi forse per esigenze di pagamenti nelle aree della Pianura Padana, devastate dai saccheggi dei Cimbri e dalla guerra.

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Le guerre contro Giugurta prima, i germani poi causarono una grave carenza di grano, a Roma.

Nel 104 a.C. era stato eletto questore un giovane plebeo, Lucio Apuleio Saturino, che aveva approfittato per emettere denarî che alludessero alla sua persona, raffigurando Saturno, simbolo parlante del suo cognomen. Il Senato dapprima lo incaricò allora di curare l’importazione di grano e pane tramite il porto di Ostia, poi - accusandolo di non eseguire l’incarico con il dovuto impegno - lo sostituì con un patrizio di nobilissima origine, Marco Emilio Scauro. Saturnino ritenne offeso il suo onore e divenne allora un fervente sostenitore dei populares (la fazione politica contraria alla nobiltà), il cui massimo rappresentante era - ovviamente - il grande eroe di guerra di umili origini, Gaio Mario.

Nel 101 Mario e Saturnino si accordarono per farsi eleggere, per l’anno successivo, uno al consolato (per la sesta volta[8]), l’altro al tribunato della plebe (per la seconda volta); un loro amico, Gaio Servilio Glaucia, avrebbe cercato invece di ottenere la pretura. La manovra riuscì, ma Saturnino ricorse alla violenza per farsi eleggere. Appena entrato in carica, Saturnino propose una legge per ricompensare i soldati di Mario con una assegnazione di terre sottratte ai Galli[9] imponendo ai Senatori di giurare che l’avrebbero fatta applicare.

Metello (l’ex comandante di Mario in Numidia) si rifiutò di prestare il giuramento e, in piena coerenza, accettò di essere espulso dal Senato e di allontanarsi da Roma in esilio, senza sollevare obiezioni o causare disordini.

L'arroganza di Saturnino, tuttavia, lo portò infine alla rovina e alla morte: fece infatti uccidere anche un candidato al consolato a lui sgradito e il popolo, inferocito, gli si ribellò contro. Mario, su mandato del Senato (che aveva emesso un senatus consultum ultimum), lo arrestò ma non fu abbastanza: la folla, che ormai lo odiava, lo uccise.

NOTE

[1]      La firma sulla moneta è CN. BLASIO CN. F.; siccome nel 194 a.C. era stato pretore (come sappiamo dai fasti consulares) uno Gnaeus Cornelius Blasio, se ne deduce che dovessero essere parenti e che, quindi, anche il monetiere fosse un Cornelius.

[2]      Ossia i tre dei che erano presenti nel tempio di Giove Ottimo Massimo e che erano ritenuti i più importanti protettori di Roma: da sinistra a destra per come sono rappresentati sul denario, Giunone, Giove e Minerva.

[3]      Condivisa, fra gli altri, da Seaby e Belloni; Crawford ritiene invece che sia Marte, ma è una tesi inconsistente, sia perché la gens Cornelia era devota alla triade capitolina (raffigurata al rovescio), non a Marte, sia perché il ritratto (come detto) non è idealizzato.

[4]      Tecnicamente, era un “legato”: termine che indicava un tecnico di cose militari, affiancato al magistrato (eletto invece dal popolo) nella conduzione delle operazioni belliche. In origine i legati erano solo rappresentanti del Senato ma, col tempo, divennero comandanti militari; alla fine della Repubblica, il termine “legato” individuava i comandanti di una singola legione.

[5]      Giova precisare che questa parentela non è del tutto sicura, nelle fonti.

[6]      Quand’anche, come ritengono gli storici moderni, questa cifra comprenda tutti i migranti, i combattenti erano almeno 200.000.

[7]      Una curiosità: era cugino delle due Giulia, mogli di Mario e Silla. Era nato infatti col nome di Sesto Giulio Cesare ed era diventato un Lutazio a seguito di adozione.

[8]    Mario, unico nella storia della Repubblica, fu console per sei volte (nel 107 a.C. e ininterrottamente dal 104 al 100); iniziò inoltre un settimo consolato nell’86 a.C. ma, vecchio e malato, morì dopo pochissimi giorni.

[9]    Si noti: i soldati di Mario, come detto, erano nullatenenti; dopo aver combattuto, attendevano una ricompensa che permettesse loro di vivere. Come noto, nacque qui lo speciale legame di fedeltà fra soldati e generale che contribuirà alle guerre civili.

 

ILLUSTRAZIONI

Denario RRC 296/1

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Mario sconfigge i Cimbri, in un dipinto di Francesco Saverio Altamura (1530) conservato al museo nazionale di Capodimonte

gaio-mario1.jpg

Denario RRC 326/1

trio.jpg

Denario RRC 324/1

large_00619305_001.jpg

Quinario (o vittoriato?) RRC 331/1

image01041.jpg

Denario RRC 317/3; al retro, è raffigurato Saturno in quadriga

bl.jpg

Modificato da L. Licinio Lucullo
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