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Meravigliosi Romani. Pane, pane, ancora pane. Scoperto un grande forno industriale di 2mila anni fa che produceva benessere e sazietà. Ma perchè i pani romani erano a spicchi? Be’, le ragioni sono più d’una. E tutte furbissime. Come i panettieri

Redazione

2 Novembre 2025

Archeologia - Ultime notizie ed approfondimenti, Impero romano, News

La vita quotidiana, in quell’antica città, non ruotava soltanto attorno ai metalli: anche il profumo del pane appena cotto scandiva le giornate, segno tangibile di civiltà e prosperità.

Nell’Hispania romana, tra le pendici settentrionali della Sierra Morena, la città di Sisapo si impose come nodo produttivo e minerario di primo piano. La ricchezza del sottosuolo, che offriva cinabro, piombo e argento, fece di questo insediamento un centro vitale per l’economia dell’Impero.

Le ricerche condotte dall’Equipo Sisapo hanno riportato alla luce, nell’area 4 del sito di La Bienvenida, un edificio di oltre duecento metri quadrati, strutturato in cinque ambienti disposti lungo il cardo maximus, la grande arteria nord-sud che attraversava la città. La tipologia delle strutture, la presenza di basi circolari per i mulini, di un forno monumentale e di strumenti destinati alla lavorazione degli impasti hanno consentito di identificare l’edificio come un pistrinum, una panetteria a vocazione commerciale, progettata con una precisione degna di un’officina di rilevanza pubblica.

Nel riquadro rosso, in fondo all’immagine, l’ampia officina di pane e il resto della città romana di Hispania. In primo piano un pane del 79 d.C. carbonizzato del Vesuvio. La forma più diffusa era questa, a spicchi

Il complesso, costruito in epoca flavia, rispondeva a un disegno unitario: gli ambienti affacciati sulla strada fungevano da punti di carico e di vendita, mentre quelli interni ospitavano le attività produttive. Le basi di pietra, perfettamente conservate, erano destinate a mulini rotatori del tipo pompeiano, azionati da uomini o da animali da tiro. In essi il grano, dopo un primo ammollo in acqua salata, veniva trasformato in farina. Il processo prevedeva poi la setacciatura, fase invisibile per l’archeologia ma ben descritta da Catone e Columella, che consigliavano di eliminare il salvato per ottenere un pane più leggero.

La fase dell’impasto avveniva probabilmente nella terza stanza, vicina al forno, dove sono stati trovati mortaria e strumenti in pietra basaltica destinati a tritare erbe aromatiche, semi e spezie – dal cumino al sesamo, dal papavero alla pepe nera – utilizzate per migliorare la qualità della pasta o arricchire il sapore del pane. In quei mortai si preparavano anche ingredienti più rari, come miele, latte o formaggio, che le fonti menzionano tra gli additivi del pane più raffinato.

L’impasto, lasciato a fermentare con il fermentum, una pasta madre naturale, veniva poi suddiviso, modellato e marchiato con sigilli che attestavano il nome del panificatore o dell’officina. I pani pompeiani carbonizzati conservano ancora oggi tali impronte, quasi un marchio di garanzia ante litteram, segno che la panificazione era un mestiere organizzato e controllato, parte di un’economia urbana regolata da collegia e da una rigida rete corporativa.

Pane romano (Museo di Boscoreale) e rappresentazione pittorica di pani (Museo Archeologico di Napoli, foto: P. Hevia)
 

Il grande forno di Sisapo, dal diametro interno di 2,8 metri, si impone per dimensioni e per la perfezione della sua struttura. Costruito in pietra e toba, con volta a cupola e bocca d’accesso meridionale, ripete le soluzioni tecniche dei forni di Pompei, Celsa e Ategua. Il suo volume, maggiore rispetto agli esempi coevi di Barcino o Augusta Emerita, suggerisce una produzione destinata non al solo consumo domestico ma a un mercato urbano più ampio. Dopo il preriscaldamento, le braci venivano rimosse e le pagnotte cuocevano direttamente sul suolo refrattario, raggiungendo temperature di oltre 250 gradi.

La panetteria di Sisapo non era dunque una bottega marginale, ma un’istituzione urbana, simbolo della modernità economica dell’Impero romano. In un mondo in cui il pane rappresentava l’asse della politica annonaria e della pace sociale, la figura del panettiere – il pistor – incarnava la capacità dello Stato di garantire nutrimento, stabilità e benessere. I pistores erano spesso liberti o schiavi specializzati, membri di corporazioni riconosciute che avevano diritto a fornire pane per i templi, le guarnigioni e, talvolta, per i convivia pubblici.

Il pistrinum di La Bienvenida restituisce l’immagine concreta di questa catena produttiva perfettamente integrata: dal grano al pane, dal magazzino al forno, dalla fatica degli schiavi all’odore della cottura che riempiva la strada. L’accesso diretto al kardo suggerisce un banco di vendita o una finestra commerciale affacciata sul portico, dove i cittadini potevano acquistare le pagnotte calde, rotonde e incise a spicchi, identiche a quelle rinvenute nei forni vesuviani.

Ma più che un semplice laboratorio, il pistrinum di Sisapo rappresenta un frammento di antropologia quotidiana: un luogo di vita e di lavoro, dove la polvere di farina si mescolava al suono ritmico dei mulini e al respiro degli animali da soma. Tra il fumo delle fornaci minerarie e quello del pane appena cotto, la città mineraria rivela così la sua doppia anima: industriale e domestica, produttiva e conviviale.

L’identificazione di questa officina panaria, databile tra la fine del I e l’inizio del II secolo d.C., amplia la mappa delle panetterie note nella Hispania romana e consente di comprendere meglio la diffusione della tecnologia alimentare in un territorio spesso ritenuto marginale rispetto ai grandi centri italici. La sua scoperta testimonia che anche le città di provincia partecipavano a pieno titolo alla rete economica mediterranea, dove il pane – più ancora del vino e dell’olio – era la misura della civiltà e della vita urbana.

Il pane romano, come quello ritrovato carbonizzato a Pompei, aveva la tipica forma a disco con un avvallamento centrale e otto spicchi.
Le incisioni radiali servivano a facilitarne la suddivisione in porzioni, permettendo di spezzarlo agevolmente nelle mense o durante la distribuzione pubblica del pane.
L’avvallamento centrale aveva una funzione tecnica, migliorando la cottura e derivando spesso dal legaccio di spago che teneva compatto l’impasto durante la lievitazione.
Ma quel disegno non era soltanto pratico: in alcuni casi il pane poteva fungere anche da vassoio o da piatto, utile ai lavoratori o ai viandanti che, lontani da casa, trovavano così una superficie pulita e commestibile su cui disporre frutti, formaggi o pietanze.
Il disco, per forma e funzione, rimandava inoltre al sole e al vassoio sacro delle offerte, unendo la concretezza dell’alimentazione alla dimensione simbolica del nutrimento e della condivisione.

I panettieri potevano diventare molto ricchi, sommando commissioni pubbliche e giro delle clientela ordinaria. A Roma, una delle tombe più singolari dell’età imperiale, a forma di forno per il pane, celebra l’ascesa sociale di Marco Virgilio Eurisace, panettiere libertus divenuto ricchissimo, segno di quanto la panificazione fosse un’attività economicamente fiorente e socialmente ambita. Nato probabilmente come schiavo, Eurisace riuscì a conquistare libertà e fortuna grazie al suo talento imprenditoriale, accumulando profitti grazie alla produzione e distribuzione di pane per l’Annona e per le necessità urbane di Roma. La sua ricchezza gli permise di erigere un mausoleo monumentale, unico nel suo genere, la cui forma ricorda proprio un forno e le attrezzature di panificazione. A Pompei, recenti scavi hanno mostrato come molti candidati politici si accordassero con i pistores per ottenere consenso, distribuendo pane o organizzando banchetti: i forni divenivano veri e propri centri di propaganda, con iscrizioni elettorali sui muri e offerte simboliche di pani votivi.
 

https://www.stilearte.it/meravigliosi-romani-pane-pane-ancora-pane-scoperto-un-grande-forno-industriale-di-2mila-anni-fa-che-produceva-benessere-e-sazieta-ma-perche-i-pani-romani-erano-a-spicchi-be-le-ragioni-sono-pi/

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