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Inviato

Buongiorno a tutti,
mi interesso di storia della Sicilia, in particolare dal periodo medievale, e da poco tempo mi sono avvicinato alla numismatica ed alla storia della monetazione siciliana.
Vi chiedo un parere ed un aiuto su una questione che ho affrontato di recente, senza arrivare ad una spiegazione soddisfacente, ovvero la relazione tra la moneta siciliana e quella napoletana. In periodo borbonico è notorio che una valessa la metà dell'altra, già dal 1735 Carlo di Borbone aveva sancito l'equivalenza tra tarì siciliano (20 grana) e carlino napoletano (10 grana). Mi sono però chiesto il motivo di tale disallineamento pensando ad origini e valori comuni a partire dall'epoca sveva (es. l'augustale). Già il Bianchini ("Storia economica-civile della Sicilia", Palermo, 1841), che ho visto citato in altri post, esaminava il problema dando come spiegazione una "minorazione" del peso dei tarì siciliani che arrivarono a pesare quanto i carlini napoletani, sotto Carlo V, tra il 1530 ed il 1554. La motivazione addotta dal Bianchini è quella del maggiore costo dell'argento da acquistare per la coniazione. E' una spiegazione che mi lascia alcuni dubbi. Un aumento del costo dell'argento sul mercato europeo/mediterraneo avrebbe dovuto penalizzare tutti, quindi analogamente Napoli e Palermo, perché i prezzi d'acquisto dell'argento sarebbero stati così diversi tanto da penalizzare solo la zecca di Palermo? L'aumento del prezzo dell'argento fu se non erro transitorio perché nel corso del 1500 aumentarono sempre di più le quantità di argento proveniente dall'America, anche se poi drenate in gran parte dalle richieste in Oriente, tanto è vero che il rapporto oro/argento cominciò a salire notevolmente; nonostante questo il deprezzamento fu permanente.
In altre parole è come se sotto Carlo V si fosse deciso di svalutare pesantemente la moneta siciliana, a danno della napoletana, coniando tarì che pesavano quanto i carlini e causando quindi un dimezzamento del valore reciproco. Quali i veri motivi?
Qualunque suggerimento sarà ben gradito. Grazie.


Inviato

Buonasera @giorgio59 quello che poni è un interessante quesito, io purtroppo non sono tra quelli che puo' rispondere, almeno non in questo momento.  

Alla luce di quanto hai esposto..

Sono sicuro pero' che tra gli utenti che seguono la sezione ci sono sicuramente persone in grado di rispondere o magari di arrivare insieme non dico a delle conclusioni ma ad un interessante dibattito. 

Seguo con interesse gli sviluppi.

Saluti

Alberto


Inviato
Il 22/5/2023 alle 14:04, giorgio59 dice:

Buongiorno a tutti,
mi interesso di storia della Sicilia, in particolare dal periodo medievale, e da poco tempo mi sono avvicinato alla numismatica ed alla storia della monetazione siciliana.
Vi chiedo un parere ed un aiuto su una questione che ho affrontato di recente, senza arrivare ad una spiegazione soddisfacente, ovvero la relazione tra la moneta siciliana e quella napoletana. In periodo borbonico è notorio che una valessa la metà dell'altra, già dal 1735 Carlo di Borbone aveva sancito l'equivalenza tra tarì siciliano (20 grana) e carlino napoletano (10 grana). Mi sono però chiesto il motivo di tale disallineamento pensando ad origini e valori comuni a partire dall'epoca sveva (es. l'augustale). Già il Bianchini ("Storia economica-civile della Sicilia", Palermo, 1841), che ho visto citato in altri post, esaminava il problema dando come spiegazione una "minorazione" del peso dei tarì siciliani che arrivarono a pesare quanto i carlini napoletani, sotto Carlo V, tra il 1530 ed il 1554. La motivazione addotta dal Bianchini è quella del maggiore costo dell'argento da acquistare per la coniazione. E' una spiegazione che mi lascia alcuni dubbi. Un aumento del costo dell'argento sul mercato europeo/mediterraneo avrebbe dovuto penalizzare tutti, quindi analogamente Napoli e Palermo, perché i prezzi d'acquisto dell'argento sarebbero stati così diversi tanto da penalizzare solo la zecca di Palermo? L'aumento del prezzo dell'argento fu se non erro transitorio perché nel corso del 1500 aumentarono sempre di più le quantità di argento proveniente dall'America, anche se poi drenate in gran parte dalle richieste in Oriente, tanto è vero che il rapporto oro/argento cominciò a salire notevolmente; nonostante questo il deprezzamento fu permanente.
In altre parole è come se sotto Carlo V si fosse deciso di svalutare pesantemente la moneta siciliana, a danno della napoletana, coniando tarì che pesavano quanto i carlini e causando quindi un dimezzamento del valore reciproco. Quali i veri motivi?
Qualunque suggerimento sarà ben gradito. Grazie.

 

Sono anch'io un appassionato di storia e numismatica siciliana medievale e moderna, ti metto di seguito dei link a delle pubblicazioni che possono rispondere ai tuoi quesiti:

https://www.storiamediterranea.it/portfolio/5574/

https://www.storiamediterranea.it/portfolio/le-armi-dei-siciliani-cavalleria-guerra-e-moneta-nella-sicilia-spagnola-secoli-xv-xvii/

https://www.storiamediterranea.it/portfolio/la-finanza-pubblica-nella-sicilia-del-500/

Di quest'ultimo testo segnalo in particolare il capitolo IV dedicato al sistema monetario siciliano e alla zecca di Messina al tempo di Carlo V

 

Riguardo i tuoi dubbi sulla sola spiegazione derivante dal prezzo dell'argento bisogna comunque tenere conto che in epoca preindustriale i prezzi potevano avere forti variazioni anche in singole piazze urbane all'interno di uno spazio ristretto, erano tempi in cui molteplici fattori tecnici e logistici potevano facilmente incidere, costi e organizzazione dei trasporti, esistenza o meno di infrastrutture che potevano faciliare o meno i trasferimenti, presenza o meno di banche, istituzioni e strumenti di credito, sviluppo più o meno avanzato dell'economia e dei commerci... naturalmente poi le cause che determinavano i mutamenti monetari andavano oltre le semplici questioni di prezzo del metallo, erano in primo luogo fondate sui problemi specifici di politica monetaria che a loro volta dipendevano dalle condizioni peculiari in un dato momento delle finanze, del fisco e delle spese pubbliche all'interno di uno stato, i fattori a cui badare erano parecchi e spesso si intersecavano tra loro... 

 

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Inviato

Grazie @talpa per  la risposta. Conosco il portale di Mediterranea ed avevo già scaricato il secondo testo che mi indichi, letto solo in parte; non avevo trovato gli altri due, che ad una prima occhiata mi sembrano molto interessanti e promettenti. Avrò tanto da leggere nel fine settimana e nei prossimi giorni...

Finora avevo cercato risposte più che altro negli autori "antichi" (Diodati, Fusco, Galiani ed altri) oltre al citato Bianchini, ma le loro considerazioni, da quello che ricordo, variano dall'accettazione quasi assiomatica del fatto ad una rassegnazione di un evento misterioso di difficile spiegazione.

Grazie ancora e buon fine settimana.

Giorgio


Supporter
Inviato (modificato)

Buona sera, 

il disallineamento deriva semplicemente dal fatto che dopo la rivolta del vespro Napoli e Sicilia ebbero storie monetarie in larga parte separate. Si trattava di due regni diversi ognuno con una diversa politica monetaria ed interessi diversi.

Farò un breve sunto. 

nel 1278 Carlo D'angiò introduce il carlino del valore di mezzo tarì d'oro e del peso di circa 3.3 g. Poichè il Tarì era diviso in 20 grani, se ne ebbe che il Carlino si divideva in 10 grani (Grana a Napoli).

Con la rivolta dei Vespri il Carlino viene "copiato" in Sicilia, quantomeno dal punto di vista ponderometrico. In Sicilia prende il nome di Pierreale. Si divide anche qui in 10 grani.

Intorno al 1300 Carlo II D'angiò riforma il carlino Napoletano, per mantenere intatto il rapporto tra moneta d'argento e moneta d'oro a 15 a 1 (l'oro si stava sopravvalutando sull'argento). Il carlino viene coniato con un piede di circa 4 g e prende il nome di gigliato (diviso sempre in 10 grani). Il pierreale rimane inalterato (sempre 3.3 g).

I piedi monetari rimangono grossomodo stabili fino a metà del 1400. All'inizio del regno di Giovanni d'Aragona il Pierreale deve essere svalutato per tutta una serie di problematiche economiche interne alla Sicilia. Il nuovo Pierreale (che oramai chiamano carlino anche in Sicilia) pesa 2.6 g. A Napoli il carlino da 10 grana (che ora prende il nome di coronato) pesa sempre 4 g. 

Ferdinando II D'Aragona effettua una nuova svalutazione della moneta Siciliana ed introduce il tarì (o Aquila) da 3.6 grammi e del valore di 2 vecchi pierreali. In quest'epoca per la prima volta il Tarì pesa quanto il carlino Napoletano (3.6 grammi). Non è una coincidenza, Ferdinando il cattolico aveva appena riunificato i due regni. Ovviamente il tarì Siciliano eredita la suddivisione in 20 grani. 

Tuttavia una seconda svalutazione fatta sempre da Ferdinando II in Sicilia ai primi del '500 porta il tarì ad un peso intorno ai 3 g. Il tarì Siciliano pesa ora meno del Carlino Napoletano.

Il tarì Siciliano in epoca vicereale pesa sempre leggermente meno del carlino Napoletano. Sotto Carlo V il tarì Siciliano pesa 2.9 g, sotto i 3 Filippi 2.6 g. Il carlino Napoletano si Stabilizza per larghissima parte del '600 intorno ai 3.1 g.  

Ed ecco che sotto Carlo II di Napoli stavolta è il carlino napoletano a dover essere svalutato per motivi fiscali ed economici vari (di cui non è opportuno parlare in questa sede). Con due svalutazioni successive, se non ricordo male, il peso del Carlino si riduce fino a 2.2 g, peso che manterrà fino al 1859. Il tarì Siciliano rimane stabile a 2.6 grammi. E' ora lui a pesare più del cugino Napoletano.

Sarà Carlo di Borbone a stabilire l'eguaglianza tra le due monete, per ovvi motivi pratici di circolazione monetaria tra i due regni, svalutando nuovamente il tarì Siciliano fino ad un peso di 2.2 g. Peso che le due monete manterranno fino alla fine dei loro giorni. 

 

 

 

 

 

 

  

 

Modificato da azaad
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  • 3 settimane dopo...
Inviato

Buongiorno a tutti e scusate del ritardo con cui rispondo.

Grazie a @azaad per il suo post, è stato chiarificatore su diversi aspetti. Il passaggio dal pierreale d'argento/carlino all'aquila/tarì sotto Ferdinando il Cattolico, è un po' lo snodo della questione.

Riprendendo i testi prima suggeriti da @talpa, tra note a piè di pagina e riferimenti bibliografici mi sono imbattuto in due vecchi articoli di Carmelo Trasselli che per me sono stati illuminanti; per chi fosse interessato li cito in fondo.

In pratica Trasselli dice che con l'ordinanza del 1490 Ferdinando il Cattolico (o il suo viceré Fernando de Acuña) attuò in Sicilia una profonda riforma monetaria, che coinvolse sia la moneta d'oro che quella d'argento, e per quello che ci riguarda abolì il carlino da 1/2 tarì a favore della nuova "aquila" del valore nominale di 1 tarì e del peso di 3,60 g pari al peso del carlino di Napoli.

Come già detto da @azaad, da quel momento in poi le due monete più o meno si equivalgono come peso e titolo, con il tarì siciliano quasi sempre di poco inferiore al carlino di Napoli, salvo una inversione di posizione sotto Carlo II, per poi stabilizzarsi nella parità con Carlo di Borbone, formalizzata più volte a partire dal 1735.

Il fatto che inizialmente mi era sfuggito è che nel 1490 Ferdinando il Cattolico deteneva la corona di Sicilia ma non quella di Napoli, ancora occupata dai francesi di Carlo VIII. Quindi le scelte monetarie fatte in Sicilia non sono da confrontare con quelle napoletane, semmai con quelle aragonesi.

Per capire il motivo di questa svalutazione, che era il nocciolo del mio post iniziale, ho trovato una traccia nei citati articoli del Trasselli.

Egli spiega che già nel 1483 Ferdinando il Cattolico aveva tentato di far sì che il fiorino d'Aragona diventasse la moneta di conto comune dei suoi regni, tra cui la Sicilia. Ma la moneta di conto aragonese era debole rispetto all'equivalente siciliano (il fiorino da 6 tarì), tanto è vero che all'inizio del '400 all'epoca dei Martini il primo valeva la metà del secondo. Questo tentativo non riuscì ma continuò comunque una lenta e progressiva svalutazione della moneta siciliana, tanto è vero che alla fine del secolo venne raggiunta quasi la parità tra fiorino aragonese e siciliano (monete di conto); e di più, sempre nell'arco del XV sec. mentre all'inizio il fiorino di Firenze era cambiato in Sicilia a 6 tarì, alla fine veniva cambiato per 12.

Oltre a questo c'era stata una variazione del rapporto oro/argento a causa dell'abbondanza in Sicilia di oro monetato proveniente dall'Africa, ovvero le doppie tripoline ammesse alla circolazione nel 1489 (contromarcate a Messina con la F e l'aquila) vista la scarsità delle altre monete auree.

Ritornando al rapporto tra moneta siciliana e napoletana rilevata in alcune tariffe di inizio '800 (le tariffe espresse in grani siciliani erano doppie rispetto a quelle in grani napoletani), oltre all'evidenza inconfutabile dei rispettivi pesi delle monete, ho adesso qualche possibile spiegazione storico-economica di carattere più generale.

Mi rendo conto di muovermi in un terreno per me non congeniale, non è il mio settore, e chiedo venia in anticipo per errori o imprecisioni. Grazie.

Giorgio


Ref.
Carmelo Trasselli, Appunti di metrologia e numismatica siciliana, Archivio di stato di Palermo, 1969
Carmelo Trasselli, Per la cronologia delle coniazioni Siciliane di Ferdinando il Cattolico, BCNN, 1958

 

 


Supporter
Inviato (modificato)

Buon giorno.

Nella mia sintesi sono stato estremamente riassuntivo, per cui su alcuni aspetti ho sorvolato per sottolineare i passaggi fondamentali. 

Hai colto nel segno che lo snodo fondamentale è la rinforma di Ferdinando II. 

A questo punto è lecito aggiungere un'ulteriore informazione a riguardo.

La riforma di Ferdinando II in realtà agisce in due tempi. La prima riforma, che introduce l'Aquila, non assegna a questa il valore di un tarì. Da quanto scritto nel MEC dalla Travaini, il valore originario dell'aquila era di 132 piccioli, ossia 22 grani da 6 piccioli.

Tuttavia il tarì era storicamente suddiviso in 20 grani e a sua volta il grano di conto valeva 6 piccioli. A meno che Ferdinando non avesse tentato di modificare la suddivisione del tarì in grani e piccioli (cosa che non si può escludere), ne consegue che l'aquila valeva un tarì e due grani. A rigore e, almeno in apparenza, Aquila e Tarì sono due nominali diversi.

Il tarì rientra in gioco con la seconda riforma. avvenuta dopo la conquista di Napoli, che introduce il tarì vero e proprio da 20 grani. Dato che il tarì è "creato"togliendo due grani all'aquila da 22 grani, è fisiologico che il tarì pesi meno dell'Aquila. A rigore bisognava togliere due grani di peso su 22 (circa il 9% in meno) ma in pratica la svalutazione in peso è intorno al 15%.

Non conosco bene la monetazione Catalana, sarei felice se si potessero approfondire in questa sede i legami fra tutte queste monete.

 

Modificato da azaad

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Buongiorno,

stavolta riesco a rispondere subito.

Grazie per la precisazione, ho ripreso il MEC ed ho letto le due fasi di coniazione descritte (d'Acuña 1490 e Moncada 1513).

Forse il Trasselli per semplicità di esposizione, dato il contesto dei due articoli, aveva condensato le due ordinanze. Tra l'altro in uno degli articoli spiegava che il valore dell'aquila del 1490, definita a "cambio variabile", valeva "1 tarì se cambiate in mezzanini, oppure 1 tari e 2 grani se cambiate in piccoli".

Dal mio punto di vista, la sostanza del discorso non cambia di molto, alla fine il carlino (ex pierreale) diventa il tarì siciliano con tutto quello che ne consegue.

A presto,

Giorgio

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1 ora fa, giorgio59 dice:

Buongiorno,

stavolta riesco a rispondere subito.

Grazie per la precisazione, ho ripreso il MEC ed ho letto le due fasi di coniazione descritte (d'Acuña 1490 e Moncada 1513).

Forse il Trasselli per semplicità di esposizione, dato il contesto dei due articoli, aveva condensato le due ordinanze. Tra l'altro in uno degli articoli spiegava che il valore dell'aquila del 1490, definita a "cambio variabile", valeva "1 tarì se cambiate in mezzanini, oppure 1 tari e 2 grani se cambiate in piccoli".

Dal mio punto di vista, la sostanza del discorso non cambia di molto, alla fine il carlino (ex pierreale) diventa il tarì siciliano con tutto quello che ne consegue.

A presto,

Giorgio

 

Interessante. Questo dettaglio mi mancava. Il mezzanino, immagino, sarebbe il vecchio "pierreale" da Mezzo Tarì di Giovanni. Confermi?

Fosse così mi si chiarirebbe finalmente anche il passo dello Spahr (che io pensavo dovuto alla vetustà dell'opera) in cui diceva che un tarì era dato per due pierreali. 

Onestamente questo passaggio mi era sempre risultato di difficile comprensione ed ero convinto che Spahr si fosse sbagliato o non avesse avuto modo di attingere a fonti affidabili. 

Dare un tarì da 3.6 grammi per 2 pierreali da 2.6 grammi era praticamente una tototruffa. 

Modificato da azaad

Inviato
16 minuti fa, azaad dice:

Interessante. Questo dettaglio mi mancava. Il mezzanino, immagino, sarebbe il vecchio "pierreale" da Mezzo Tarì di Giovanni. Confermi?

Fosse così mi si chiarirebbe finalmente anche il passo dello Spahr (che io pensavo dovuto alla vetustà dell'opera) in cui diceva che un tarì era dato per due pierreali. 

Onestamente questo passaggio mi era sempre risultato di difficile comprensione ed ero convinto che Spahr si fosse sbagliato.

Trasselli cita il mezzanino come "mezza aquila" della nuova coniazione di Ferdinando del 1490, del valore di 1/2 tarì, quindi deduco equivalente al vecchio pierreale/carlino del predecessore Giovanni d'Aragona. 

Ti riporto il link del testo del Trasselli, i passi in questione sono alle pp. 27-28.

https://saassipa.cultura.gov.it/wp-content/uploads/2020/12/TRASSELLI-Metrologia-e-numismatica.pdf

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Inviato

Buonasera,

ritorno sull'argomento delle riforme monetarie siciliane del 1490 e 1513 e delle relazioni carlino/aquila/tarì.

Leggendo un altro libro del Trasselli (Da Ferdinando il Cattolico a Carlo V, vol. I, 1982) ho trovato alcune interessanti pagine sull'argomento che temo però facciano traballare quelle timide certezze che pensavo di aver raggiunto.

A p.35 dice: "Fra le troppe componenti della fin de siècle [XV], non si dimentichi la riforma monetaria del 1490. In Sicilia circolavano ... monete d'argento napoletane di vecchio conio, gigliati e coronati; i gigliati avevano avuto corso al cambio di banco di un tarì ciascuno ed i coronati di un tari e 2 grani."

Questo vuol dire che già prima del 1490 i carlini napoletani, che siano gigliati o coronati, comunque da 10 grani a Napoli, venivano cambiati con un tarì (da 20 grani) o più in Sicilia?

E poi quella differenza del cambio tra gigliato (20 grani) e coronato (22 grani), che immagino dipenda dal rispettivo peso di 80 e 90 acini, è stranamente uguale al "cambio variabile" delle aquile coniate nel 1490 valutate appunto 1 tarì se cambiate in altro argento (es. mezzanini) e 1.2 tarì ovvero 22 grani se cambiate con piccioli. E' una coincidenza?

Poi alle pp. 48-52 parla ampiamente della riforma del 1513 e della raggiunta parità tra carlino e tarì, che tra le altre cose favorisce il commercio tra Calabria e Messina, per il facile cambio tra le due monete. Ritorna anche sul cambio varibile dell'aquila del 1513, e cita la successiva riforma del 1531.

Per chi fosse interessato:

https://www.storiamediterranea.it/wp-content/uploads/2019/09/C.-Trasselli-Da-Ferdinando-il-Cattolico-a-Carlo-V-Volume-I.pdf

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