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  1. CARTA ARCHEOLOGICA ONLINE DEL FRIULI VENEZIA GIULIA, a cura della Società friulana di Archeologia www.archeocartafvg.it
  2. A proposito delle collane monetali e del riuso delle monete antiche: propongo qui di lasciare un catalogo di risorse bibliografiche in merito. Ma magari serve solo a me... E.A.ARSLAN, La collana monetale della Tomba 5 della necropoli altomedievale di Offanengo (CR) e la moneta in tomba in età longobarda, in Atti Necropoli longobarde in Italia. Indirizzi della ricerca e nuovi dati, Trento 26-28.9.2011, Trento 2014, pp.338-350. https://www.academia.edu/14631901/E_A_ARSLAN_La_collana_monetale_della_Tomba_5_della_necropoli_altomedievale_di_Offanengo_CR_e_la_moneta_in_tomba_in_età_longobarda_in_Atti_Necropoli_longobarde_in_Italia_Indirizzi_della_ricerca_e_nuovi_dati_Trento_26_28_9_2011_Trento_2014_pp_338_350 Una “collana” di monete bronzee in una tomba longobarda a Verona, in Est enim ille flos Italiae...Giornate di studio in onore di Ezio Buchi, Atti del Convegno (Verona, Palazzo Giuliari 30 novembre 2006 - Polo Zanotto 1 dicembre 2006), a cura di P. Basso, A. Buonopane, A. Cavarzere e S. Pesavento, pp. 431-443 https://www.academia.edu/1335957/Una_collana_di_monete_bronzee_in_una_tomba_longobarda_a_Verona_in_Est_enim_ille_flos_Italiae_Giornate_di_studio_in_onore_di_Ezio_Buchi_Atti_del_Convegno_Verona_Palazzo_Giuliari_30_novembre_2006_Polo_Zanotto_1_dicembre_2006_a_cura_di_P_Basso_A_Buonopane_A_Cavarzere_e_S_Pesavento_pp_431_443?email_work_card=title
  3. Viaggio nella Roma imperiale, alla scoperta della preziosissima Forma Urbis - Prima puntata
  4. Il Salotto del GAAm - "Mondi Etruschi meno conosciuti: Etruria Padana" Quarto appuntamento del nostro Salotto dedicato agli Etruschi - 18 Marzo 2021 In questo ultimo incontro del ciclo Etrusco la dott.ssa Cristiana Battiston ci accompagna alla scoperta di quei luoghi del nord Italia che non si associano immediatamente alla cultura etrusca, ma che in realtà ne fanno parte.
  5. Vel Saties

    La Stele di Auvele Feluskes da Vetulonia

    Tesori Etruschi della Toscana | La Stele di Auvele Feluskes Alla scoperta del capolavoro nascosto nel Museo Civico Archeologico «Isidoro Falchi» di Vetulonia in compagnia dell’etruscologo Giuseppe M. Della Fina Un particolare della riproduzione grafica della Stele di Auvele Feluskes. Vetulonia, Museo Civico Archeologico «Isidoro Falchi» Giuseppe M. Della Fina | 27 novembre 2023 | Castiglione della Pescaia (Gr) Nella Sala A del Museo Civico Archeologico «Isidoro Falchi» di Vetulonia è presente una stele che ricorda Auvele Feluskes, un personaggio vissuto durante il VII secolo a.C.: il segnacolo funerario è databile, infatti, nell’ultimo quarto di quel secolo. Si tratta di una stele che riesce a illustrare le caratteristiche della società etrusca in decenni centrali per il suo sviluppo. Conosciamo i tempi e i modi del ritrovamento avvenuto nel 1894. Essi sono ricordati da Isidoro Falchi, il medico condotto appassionato di archeologia a cui si deve l’identificazione di Vetulonia, e da Luigi Adriano Milani, direttore del Regio Museo Archeologico di Firenze (oggi Museo Archeologico Nazionale), in una relazione pubblicata sulla rivista «Notizie degli Scavi di Antichità» nel 1895. Falchi ricorda che, scavando sul Poggio alle Birbe, fu localizzato, tra la casetta Bambagini e la «via del piano» (o «dei sepolcri»), «un grande ammasso di pietre piccole informi, che sembrava costituissero un cumulo regolare». Nel proseguo delle ricerche, il cumulo di pietre si rivelò «una tomba a circolo grandissimo di pietre ritte», al cui interno si rinvenne una «pietra grandissima e pesantissima», che «si mostrava pel circolo con una sua punta all’esterno fra i pruni e i cespugli del bosco». Lo scopritore denominò la tomba come «del Guerriero», o «della stele figurata». Il corredo funerario era stato già sconvolto e gli scopritori segnalano soltanto «frammenti di bucchero baccellati» e «fittili a grande anse intagliate». Rinvennero anche un piccone antico in ferro. La stele attrasse subito l’interesse degli studiosi soprattutto per l’iscrizione etrusca incisa su tre dei suoi lati: il destro, il sinistro e l’inferiore. Un’iscrizione difficile da leggere per lo stato di conservazione e sulla quale, da allora, si sono confrontati numerosi studiosi di epigrafia etrusca giungendo a conclusioni divergenti in alcuni dettagli significativi. Va segnalato subito che essa inquadra la figura di un guerriero intento a incedere verso sinistra: la testa è sormontata da un elmo di tipo corinzio simile ad alcuni che sono stati rinvenuti, dotato di un cimiero e di un paranaso; il corpo è nascosto da un grande scudo rotondo decorato da una rosetta a sei petali; le gambe sono raffigurate nude e prive di schinieri nell’atto di camminare (di marciare, verrebbe da scrivere); i piedi sempre nudi poggiano sul terreno da cui sorge un virgulto vegetale proprio tra le gambe del guerriero. L’uomo ha in mano una doppia ascia, intorno ad essa si è discusso a lungo: per alcuni rappresenterebbe il simbolo del potere militare di cui l’uomo era investito; per altri si tratterebbe invece di un’effettiva arma da combattimento. Il contesto sembrerebbe rendere la prima ipotesi più plausibile. Va segnalato che la stele è solo incisa e precede cronologicamente di poco altre rese a leggero rilievo e, di qualche decennio, quelle a pieno rilievo che sono datate tra il primo e il secondo quarto del VI secolo a.C. L’interesse dell’iscrizione è notevole e, senza entrare nel dibattitto che l’ha caratterizzata e la caratterizza, va segnalato che ricorda un personaggio di nome Auvele Feluskes. Paolo Poccetti nel 1999 ha proposto di riconoscere nel gentilizio (Feluskes) il ricordo dell’etnico dei Falisci. Per Adriano Maggiani, che ha realizzato un nuovo apografo dell’iscrizione nel 2007, anche il prenome (Auvele) trova un confronto nell’agro falisco. Ci dovremmo trovare così di fronte a un italico, a un uomo d’arme confrontabile, sempre nell’ipotesi di Maggiani, con Avile Tite a Volterra, Larth Ninies a Fiesole, i Vipiennas a Vulci e Lars Porsenna a Chiusi seppure in un’epoca più recente e con un successo ancora maggiore. Si potrebbe aggiungere anche Larth Cupures a Orvieto. Tutti personaggi che riuscirono a scalare la società del loro tempo grazie alle doti militari e alla capacità politica e, nel caso di Porsenna, a lasciare un segno importante nella storia etrusca. C’è un aspetto ulteriore da evidenziare nella stele rinvenuta a Vetulonia: si ricorda anche il matronimico di Auvele Feluskes, quindi non solo il nome del padre, ma anche quello della madre, una Papanai, a suggerire il ruolo sociale diverso avuto dalla donna nella società etrusca rispetto ad altre del mondo antico. Chi aveva dedicato la stele? Per alcuni epigrafisti un membro della famiglia; per Maggiani, che legge il nome del dedicante come Hirumina Phersnainas, un personaggio non legato a lui da legami di sangue, ma da vincoli di altro tipo, di «etaireia» o di «philìa», in quanto suo compagno di arme o erede politico. https://www.ilgiornaledellarte.com/articoli/tesori-etruschi-della-toscana-la-stele-di-auvele-feluskes/144239.html
  6. Vel Saties

    I LONGOBARDI - documentari

    Parte I In ordine: On the Scandinavian origin of the Longobards The Longobard Origo and Gens - The compact identity of a Germanic people The Longobards in Scoringa, Mauringa and Golaida: from the Wodanic adoption to the Marcomannic Wars The Longobard invasion and the myth of the "total fracture" with the Roman past
  7. Le attività di recupero e restauro conservativo dei reperti presso il ricovero austro-ungarico in caverna di Monte Scorluzzino PER APPROFONDIRE https://www.archaeoreporter.com/it/20... Le attività sono state effettuate su incarico del Parco Nazionale dello Stelvio - Lombardia da SAP - Società Archeologica srl nell’ambito del Progetto d’area Grande Guerra - Strategia Area Interna Alta Valtellina scheda 5.1 “Progetto d’area Grande Guerra: valorizzazione delle testimonianze e recupero dei manufatti (itinerari trincee)” (Spesa agevolata a valere sul Programma POR FESR Lombardia 2014 2020 Asse VI) Lotto 1 ID Operazione: 19014 30, CUP G99E19002020009. L'intervento si è svolto previa autorizzazione e sotto la direzione scientifica della Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per le province di Como, Lecco, Monza-Brianza, Pavia, Sondrio e Varese. L’ultimo pomeriggio della Grande Guerra intrappolato tra i ghiacci dello Stelvio: archeologia dei conflitti nella caverna dello Scorluzzino By Angelo Cimarosti 26 Dicembre 2023 Archeologia della Grande Guerra: una capsula del tempo tra i ghiacci della caverna sullo Scorluzzino sopra lo Stelvio - Elmetto autroungarico ritrovato (ph.ArchaeoReporter) La vanga, l’elmetto, i caricatori, persino i giornali. Tutto si è fermato all’ultimo pomeriggio della Grande Guerra, il 3 novembre 1918, imprigionato nel ghiaccio del ricovero in caverna scavato a quasi 3.000 metri, sul Monte Scorluzzino, a guardia del Passo dello Stelvio. Gli austro-ungarici avevano tenuto la posizione, uno dei presidi più in alta quota della Prima guerra mondiale, fin dal maggio 1915. Dopo tre anni e mezzo, però, era arrivato il momento di andarsene il più velocemente possibile. Proprio in quelle ore in una sala di Villa Giusti, al limitare della campagna padovana, la delegazione imperiale firmava l’armistizio. Si era attorno alle 15 e 20, e – per volontà italiana – si sarebbe ancora combattuto per un giorno, nella corsa in avanti ormai inarrestabile del Regio Esercito che dilagava ben oltre il Piave. Il peggior momento per morire in azione, o essere presi prigionieri e rischiare di lasciarci la pelle mesi dopo, per privazioni e malattie in qualche baracca lontana da casa. Così, il presidio austro-ungarico dello Scorluzzino, come quelli circostanti, abbandonò le linee. Tutto quanto poteva essere considerato inutile nella disperata discesa verso la Val Venosta venne lasciato sul posto. L’inverno molto nevoso, e quello successivo del 1919 fecero il resto, e di fatto sigillarono la situazione. Con il tempo appassionati, cercatori di cimeli e semplici curiosi, nel corso di un secolo fecero visita al ricovero, ma la parte più profonda, con l’acqua penetrata tra le rocce solidificata in duro ghiaccio, riuscì a resistere e a conservare preziose informazioni. Ecco quindi emergere reperti, proprio quando le temperature sempre più alte in montagna stavano mettendo a rischio il sito archeologico, perché di questo ormai si tratta: archeologia dell’età contemporanea, archeologia della Grande Guerra. Il concetto di “capsula del tempo”, spesso abusato, ha una ragion d’essere dove le basse temperature hanno aiutato a preservare il materiale e a tenere alla larga fattori esterni, per non parlare delle attività antropiche. E allo Scorluzzino il concetto può essere parzialmente applicato. Ora sappiamo che l’esercito austroungarico a così grande distanza dal mare utilizzava pagliericci riempiti non con paglia ma con alghe, molto adatte per le peculiarità antisettiche. Una catena logistica impressionante che partiva dall’Istria per arrivare ai 2.995 metri di quota. Che la propaganda italiana lanciava giornali irredentisti nelle trincee anche laddove la guerra bianca rendeva molto più rarefatta la presenza di militari. Il ghiaccio ha conservato le pagine dei giornali, note, corrispondenze. Ci sono i caricatori per le armi a ripetizione, le vanghette di ordinanza, i chiodi dove appendere le giberne e le giberne stesse. Scatolette di cibo raschiate a fondo per la fame, provata anche i noccioli di albicocca spessati per poterne mangiare il contenuto, chiaro segno di inedia. Questo nei 12 metri di profondità scavati nella roccia, per tre metri di larghezza e circa un paio di metri di altezza, completamente rivestiti di legno della Val Venosta accuratemente lavorato e ancora orgogliosamente sul posto a svolgere la sua funzione, anche se ormai compromesso dagli anni in alcuni punti come centinatura. Le attività di recupero e restauro conservativo dei reperti presso il ricovero austro-ungarico in caverna di Monte Scorluzzino, realizzate in condizioni climatiche e logistiche naturalmente complesse, sono state effettuate su incarico del Parco Nazionale dello Stelvio – Lombardia, da SAP – Società Archeologica, seguite dal professor Stefano Morosini dell’Università degli studi di Bergamo. Si tratta di progetto nato per valorizzare le testimonianze e recuperare importanti manufatti della Grande Guerra, svolto sotto la direzione scientifica della Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per le province di Como, Lecco, Monza-Brianza, Pavia, Sondrio e Varese (funzionario archeologo Stefano Rossi). Cosa non scontata, perché non tutte le Soprintendenze sono così attente all’archeologia dell’età contemporanea. Negli anni precedenti (2017-2020) si era messo in luce e recuperato, con l’intervento dei volontari del Museo della Guerra Bianca di Temù il ricovero, ancora più grande, del vicino Scorluzzo, denso di testimonianze materiali. Lo Scorluzzino, tra l’altro, è indubbiamente un’opera di ingegneria militare che merita di essere studiata e documentata a fondo: l’ingegner Pietro Azzola (Università di Bergamo) ha quindi svolto rilievi con metodologia integrata 3D laser-scanning e fotogrammetria terrestre e con drone per fissare su modelli tridimensionali scientifici il manufatto.
  8. ROMA. Il “Templum Gentis Flaviae” nell’area della stazione Termini. https://www.archeomedia.net/roma-il-templum-gentis-flaviae-nellarea-della-stazione-termini/ Si avvicina a grandi passi il Giubileo del 2025 e Roma annaspa tra mille problemi: cantieri aperti ovunque, ma soprattutto il grande Buco Nero di piazza Venezia, uno dei “Non luoghi” della Capitale, spazi proibiti non vivibili, come il Colosseo, Fontana di Trevi ed ora il Pantheon. Nella zona di “Termini” è prevista la sistemazione della piazza tenendo conto (si afferma) della necessità di valorizzare il contesto storico-architettonico dell’area. L’obiettivo è trasformare Piazza dei Cinquecento in un hub della mobilità integrata e sostenibile, coerentemente con gli indirizzi del Piano Urbano della Mobilità Sostenibile di Roma Capitale . Sala-Ottagona-Terme-di-Diocleziano Non molti sanno che proprio nella zona antistante l’Aula Ottagona_ via Romita/via Cernaia_ che oggi ospita (speriamo provvisoriamente!) il Museo dell’Arte Salvata, in corrispondenza del piccolo parcheggio (che per fortuna sembrerebbe destinato a scomparire) vi è un’importante preesistenza sconosciuta ai più, cioè il tempio della Dinastia degli imperatori Flavi, quelli che costruirono il Colosseo. II “Templum Gentis Flaviae”: la localizzazione dell’edificio è stata riconosciuta con sicurezza in seguito a studi recenti in base alle fonti antiche e soprattutto a scoperte archeologiche. Sappiamo che la casa di Vespasiano (e quindi anche il tempio) si trovava sul Quirinale, in una località denominata ad malum Punicum (“al melograno”), nell’area in seguito occupata dall’angolo occidentale delle Terme di Diocleziano, in particolare al di sotto dell’ex Planetario dove sono presenti una domus databile in età giulio-claudia e notevoli strutture superstiti di un edificio più antico costituite da grandi blocchi di travertino collegati da grappe di piombo disposti parallelamente al fronte della sala verso via Romita. L’esigenza della “comprensione e “lettura” del monumento ha guidato a suo tempo in maniera preponderante la progettazione degli interventi di restauro dell’Aula Ottagona delle Terme di Diocleziano, infatti nell’intervento di restauro è diventata assolutamente prioritaria l’esigenza di evidenziare la complessa, straordinaria stratificazione storica presente nell’Aula, che descrive non solo la storia delle Terme ma anche la storia del luogo, ancora più interessante se in questa “narrazione” comprendiamo anche il “Templum Gentis Flaviae”. Abbiamo uno spaccato della Storia di Roma che va dalla “Casa dei Flavii” all’utilizzazione della sala a Planetario, con la creazione della straordinaria volta reticolare, mutuata dai grandi “Planetari” che nascevano negli anni venti in Germania. Ma la cosa più importante, ottenuta col mantenimento della volta metallica è il rapporto dialettico attivato con la volta ad ombrello della sala Termale, una sorta di “lezione” architettonica sull’evoluzione nel tempo dei sistemi voltati. Ritratto-marmoreo-di-Tito Tornando al “Templum”, grazie al professor Filippo Coarelli, è stato così possibile ricostruire un complesso monumentale (lungo 125 m), esteso fino alla chiesa di S. Bernardo, che comprendeva una grande area scoperta, porticata su tre lati, al centro della quale si trovava un podio quadrato di 47 m di lato, probabile sostegno di un edificio a pianta centrale. Nel 1901, al momento della realizzazione di piazza della Repubblica, in corrispondenza del settore nord del grande emiciclo (che riprende la forma dell’esedra delle terme), vennero recuperati numerosi frammenti di rilievi di età domizianea, nei quali si potevano riconoscere soggetti relativi alla celebrazione della gens Flavia, in origine appartenenti alla decorazione del tempio, nei quali appare anche un ritratto di Vespasiano (i cosiddetti “Rilievi Hartwig”, presentati nel 1994 a Roma, in una mostra dal titolo Dono Hartwig). Sempre in quegli anni venne recuperato un gigantesco ritratto marmoreo di Tito alto 2.30 mt che doveva appartenente ad una statua di circa 9 m di altezza (ora al Museo Archeologico di Napoli), che poteva provenire solo dal tempio. Si può quindi ricostruire il complesso come una grandiosa area porticata, cui si accedeva da nord, al centro della quale sorgeva la struttura principale, che comprendeva in basso il sepolcro, di cui si conserva il nucleo in calcestruzzo, certamente in origine rivestito di marmi, e in alto una rotonda a cupola modellata sul Pantheon, sede del culto dinastico. Quest’ultima viene a trovarsi più o meno al centro del largo antistante al Planetario, a pochi centimetri al di sotto del piano di calpestio, e quindi si può facilmente scavare: si tratta di un’operazione di costo limitato, ma certamente di grandissimo rilievo storico ed artistico, che permetterebbe il recupero di un monumento fondamentale per la conoscenza dell’architettura romana, oltre ai resti sottostanti della casa privata di Vespasiano. Inoltre altri autorevoli studiosi ritengono che il tempio sia stato sottoposto ad una procedura ‘sacrale’ di interramento (piu’ correttamente “congestio terrarum”) simile a quella del mausoleo di Lucilio Peto sulla via Salaria o ai monumenti funebri della Necropoli in tal caso si tratterebbe di un monumento in gran parte ancora integro che, con buona probabilità, conserva ancora le urne cinerarie dei Flavii. Una valorizzazione formidabile proprio in vista del Giubileo. Autore: Gianni Bulian Gianni Bulian. Laurea in architettura a Roma, nel 1970, con Ludovico Quaroni. Si specializza nel restauro architettonico e nella progettazione nel campo museale. Dal 1981 ha l’incarico del restauro e ristrutturazione del Complesso Monumentale delle Terme di Diocleziano nell’ambito del Museo Nazionale Romano per la Soprintendenza Archeologica di Roma. Nel 1996 è primo dirigente nel ruolo degli architetti del MiBAC e poi Soprintendente ai Beni Ambientali, Architettonici Artistici e Storici d’Abruzzo. Direttore ad interim della Soprintendenza ai Beni Architettonici e Paesaggistici di Firenze, Prato e Pistoia. Docente alla Scuola di Specializzazione in Restauro dei Monumenti dell’Università di Roma La Sapienza. Autore di numerosi progetti di restauro architettonico nazionali ed internazionali. Fonte: www.quotidianoarte.com, 13 dic 2023
  9. Sotterranei di Palazzo Valentini. Il Colosseo e il Campidoglio sono poco distanti, nell’area di Piazza Venezia. Non stupisce che il sottosuolo abbia potuto offrire - nell’area a maggior densità archeologica della capitale – ritrovamenti di prestigio. Come sempre a Roma il problema è che la città continua a crescere su se stessa, rendendo difficili prima gli scavi, e poi la fruizione degli stessi da parte del pubblico sotto i palazzi pubblici o privati. La riqualificazione dell’area fu ideata inizialmente da Piero Angela e Paco Lanciano per un partenariato pubblico-privato Roma Capitale e Civita. Le installazioni multimediali colpiscono per la presenza della voce narrante e così familare del grande divulgatore televisivo. Colpiscono, degli ambienti, i meravigliosi marmi policromi che, assieme alla presenza delle terme, suggeriscono la ricchezza delle domus, qualora ci fosse bisogno di sottolinearlo al di là della zona d’élite in cui sorgevano. Ma è l’insieme delle stratificazioni della città a essere visibile e apprezzabile, attraverso i reperti, che arrivano addirittura all’apparizione di un bunker della seconda guerra mondiale ancora nello stato originario. La speranza è quella di raggiungere i 50 mila visitatori all’anno, proprio grazie al rinnovamento tecnologico che trasforma in un’esperienza immersiva – come obbligatorio dire adesso – quella che era una musealizzazione ormai vetusta. Soprattutto è una speranza perché esperienze di visita e di ricerca sotto la Città Eterna possano aumentare sempre di più e allargare il patrimonio di conoscenza degli studiosi e dei visitatori
  10. Le necropoli vaticane Paolo Liverani, Giandomenico spinola LE NECROPOLI VATICANE La città dei morti di Roma. Con un contributo di Pietro Zander. JACA BOOK, Milano, 350pp., ILL. COL. 50,00 euro ISBN 978-88-16-60632-6 www.jacabook.it Recensione originariamente pubblicata su Archeo n. 435 – Maggio 2021 A poco piú di dieci anni dalla prima edizione, torna in libreria Le necropoli vaticane, opera, riccamente illustrata, che descrive un complesso archeologico di primaria importanza. Nel sottosuolo dell’odierna Città del Vaticano si conserva infatti un ricco corpus di monumenti funerari, che costituiscono documenti preziosi sia dal punto di vista storico-artistico, sia in quanto testimonianze della diffusione del cristianesimo. Nel volume vengono dunque passati in rassegna tutti i nuclei piú importanti, senza naturalmente tralasciare la tomba di Pietro e affiancando alle osservazioni di carattere archeologico e interpretativo anche notazioni sul restauro e la conservazione.
  11. ROMA. Complesso di Capo di Bove sulla via Appia antica. 9 Dicembre 2023 A 20 anni dai primi scavi che hanno riportato in luce l’impianto termale, si riprende con una nuova campagna di indagini nel Complesso di Capo di Bove, in via Appia Antica 222 – Roma. Le terme che oggi si vedono entrando nel sito mostrano diverse fasi edilizie, dalla costruzione nel II secolo d.C. fino ad una fase severiana (II-III secolo d.C.) in cui il complesso ha subito modifiche nella decorazione ed un ampliamento, e ad una fase di IV secolo in cui sono stati apportati profondi cambiamenti strutturali e funzionali. Lo scavo ha inoltre evidenziato la presenza di strutture a carattere agricolo-produttivo riferibili all’età post classica e medievale quando l’area rientrava nel Patrimonium Appiae Suburbanum, la vasta tenuta agricola di proprietà ecclesiastica. Oggi le nuove indagini possono aiutare a capire il rapporto tra le terme e la via Appia, con l’individuazione dell’ingresso originario dalla strada. Lo scavo rientra nel più ampio progetto di una nuova sistemazione del giardino di Capo di Bove, a cui si sta da tempo lavorando e che verrà presentata al pubblico nel corso del 2024. Il 20 dicembre si avrà la possibilità di visitare il cantiere di scavo con due speciali visite guidate alle 12 e alle 15 in cui si sarà aggiornati sui risultati delle ultime indagini archeologiche. Le visite guidate sono incluse nel biglietto di ingresso. Non è necessaria la prenotazione. Il biglietto può essere acquistato presso le biglietterie di Cecilia Metella (in Via Appia Antica 161) o di Villa dei Quintili (in Via Appia Nuova, 1092) oppure sul sito web. Fonte: www.parcoarcheologicoappiaantica.it
  12. La passione e la polvere Luigi Malnati LA PASSIONE E LA POLVERE Storia dell’archeologia italiana da Pompei ai nostri giorni Introduzione di Vittorio Sgarbi LA NAVE DI TESEO, Milano, 216pp., TAVV. COL. 20,00 euro ISBN 978-88-346-0537-0 http://www.lanavediteseo.eu Recensione originariamente pubblicata su Archeo n. 438 – Agosto 2021 C’è piú passione che polvere in questa storia dell’archeologia narrata da Luigi Malnati. Il quale, con un approccio quasi «stratigrafico», offre una rassegna puntuale e sistematica di una vicenda ormai plurisecolare. L’autore prende infatti le mosse dai primordi della disciplina, quando, in realtà, ancora non si poteva definirla in questi termini, dal momento che i primi approcci ebbero carattere squisitamente antiquario e, sul campo, si tradussero in cacce al tesoro condotte senza alcun, almeno larvato, criterio scientifico. Il quadro assume contorni diversi all’indomani dei primi scavi condotti a Ercolano e Pompei e poi nel successivo XIX secolo, soprattutto quando, nei suoi decenni finali, entrano in scena Giuseppe Fiorelli e Giacomo Boni. Entrambi, infatti, intuiscono l’importanza della sistematicità e conducono indagini ancora oggi esemplari, resistendo, come nel caso di Boni e come ricorda Malnati, a non poche pressioni. Molti «archeologi» (le virgolette sono dell’autore) volevano che, nei suoi scavi al Foro Romano, l’architetto veneziano si liberasse velocemente degli strati giudicati privi di particolare interesse per raggiungere i livelli «promettenti». Per molto tempo, in ogni caso, le attività si svolgono in un quadro normativo insufficiente e solo nel 1939 l’Italia si doterà di una legge sulla tutela delle cose d’interesse artistico e storico, voluta dall’allora ministro dell’educazione nazionale, Giuseppe Bottai. Un testo, che, come si legge, è rimasto in vigore sino a tempi recenti. Ed è proprio quando affronta gli sviluppi dell’archeologia – in termini sia scientifici, sia normativi – nel corso degli anni a noi piú vicini che Malnati, come si diceva, assume toni di appassionata preoccupazione. Forte della lunga esperienza maturata sul campo e dell’altrettanto profonda conoscenza della macchina amministrativa, lo studioso arriva infatti a presagire la possibile scomparsa della disciplina: un’eventualità postulata, crediamo, anche in forma di provocazione, ma che, nondimeno, impone una seria riflessione. Stefano Mammini
  13. Vel Saties

    Isola di Creta: di chi è quell’armatura?

    Isola di Creta: di chi è quell’armatura? https://www.archeologiaviva.it/22244/isola-di-creta-di-chi-e-quellarmatura/ Enigma a Festòs Questa volta non è una tomba eppure quello che è emerso nello scavo archeologico di Festòs, sull’isola greca di Creta, ha tutte le sembianze di un corredo (funerario). Di sicuro è una scoperta a cui seguono molti interrogativi. Quale guerriero antico avrà indossato quell’elmo? A chi apparteneva quest’armatura al tempo lucente e decorata? Era forse un eroe locale a cui si rendeva omaggio in un’area di culto? Sono alcuni dei quesiti che si sono posti i ricercatori dell’Università Ca’ Foscari Venezia quando nello scavo archeologico di Festòs, sull’isola greca di Creta, hanno a poco a poco riportato alla luce l’armatura di un guerriero. Corredo stupefacente L’eccezionale ritrovamento, una panoplia bronzea di guerriero, composta da un umbone di scudo e da frammenti di un elmo e forse di una cintura, è avvenuto nello scavo archeologico del sito di Festòs (Creta), condotto a luglio 2023 dall’équipe di Ilaria Caloi dell’ateneo veneziano, sotto la direzione di Pietro Militello dell’Università di Catania. Lo scavo, iniziato nel 2022, è eseguito in regime di concessione della Scuola Archeologica Italiana di Atene, diretta da Emanuele Papi, e autorizzato da Vassiliki Sythiakaki, responsabile della 13a Eforia Greca. Apparteneva a un eroe locale In Grecia è rarissimo il ritrovamento di una panoplia di guerriero in un contesto di insediamento e non di sepoltura in area dedicata. Spiega Ilaria Caloi: «L’ipotesi più accattivante – che solo la continuazione dello scavo potrà confermare – è che l’armatura possa attribuirsi a un eroe locale, onorato all’interno di un’area di culto o di un cenotafio, in stretta connessione con la fondazione della polis di Festòs tra l’VIII e il VII sec. a.C.» L’umbone in bronzo ritrovato (foto sopra) costituisce la parte centrale dello scudo, che doveva essere in materiale deperibile, verosimilmente cuoio. Presenta un elemento conico centrale dotato di una lunga protuberanza e un disco esterno con una serie di fori attorno al bordo, che servivano probabilmente al fissaggio. Alla stessa funzione doveva servire l’anello bronzeo che sporge internamente, in corrispondenza della protuberanza centrale. Dell’elmo la parte meglio conservata sono le due paragnatidi (foto sopra), ossia le parti bronzee che proteggevano ciascuna delle guance scendendo fino alla mandibola. Sono decorate con elementi circolari, e dotate di forellini per il fissaggio all’elmo. Attualmente sono in fase di restauro. Le armi? In un contenitore alimentare Aggiunge Caloi: «La straordinarietà del ritrovamento di Festòs consiste nella peculiare deposizione delle armi all’interno di un contesto non funerario: sono state infatti ritrovate all’interno di un pithos, un enorme contenitore da derrate di quasi 120 cm di diametro massimo, e nascoste al di sotto di un coperchio in terracotta, a sua volta ricoperto da un grande frammento di vaso con motivi decorativi a forma di brocchette (oinoichoai) e spirali correnti. Il pithos si apriva ad est con un ingresso dotato di una enorme soglia monolitica lunga 160 cm». Pithos con deposizione sotto il coperchio Luogo di Culto È probabile che l’area dei ritrovamenti fosse dedicata al culto, ipotesi suggerita anche dalla deposizione rituale delle parti di panoplia e dalla fisionomia dell’ambiente.Anche gli oggetti ritrovati nelle immediate vicinanze al di fuori del grande pithos portano a corroborare questa ipotesi. Si tratta di due coltelli in ferro, una serie di vasi per versare (aryballoi) di dimensioni diverse, databili tra l’VIII e il VII sec. a.C., e uno scudo di piccole dimensioni in terracotta, sovradipinto in bianco. Sono oggetti che rimandano al corredo di una tomba di guerriero, ma che, in questo caso, potrebbero rappresentare le offerte votive in un’area santuariale. Palazzo di Festos – Creta Il luogo in cui è avvenuto il ritrovamento è ugualmente significativo: si trova sulle pendici sud-occidentali della collina di Kastrì, la stessa su cui nel XIX sec. a.C. fu costruito il Primo Palazzo di Festòs, e subito ad Ovest del sontuoso cortile occidentale del palazzo. Un tassello centrale in una storia millenaria Questa singolare scoperta getta luce su un periodo cruciale per il sito archeologico di Festòs, quello della fondazione della polis. Si tratta di un tassello importante per ricostruire la storia di un centro millenario: fondato nel V millennio a.C., Festòs divenne prima un palazzo minoico, alla stessa stregua di Cnosso, poi una polis greca e rimase un centro importante fino al 146 a.C., anno della sua distruzione a opera della vicina Gortina.
  14. Partiamo con un pippone per dire cosa è un survey o Raccolta di superficie: è una tecnica archeologica non invasiva (non si scava nulla) che serve per localizzare siti,emergenze monumentali ed altri elementi dell'attività umana, contribuendo a fornire una cronologia/periodizzazione e inquadrarne una tipologia. La maggior parte dei survey si svolge ed è efficace su aree arate, ma si ha la possibilità di impostarne su territori di ogni tipo. Serve a raccogliere materiale su un'area in maniera metodica per mappare e rilevare emergenze di un sito totalmente o parzialmente sepolto. Aiuta a datare il sito attraverso i materiali raccolti o registrati e fornisce un'idea della distribuzione dei manufatti ed eventualmente della tipologia. Durante i survey potete quindi raccogliere materiale edilizio, frammenti ceramici, metallici, in osso o corno, selci, materiale lapideo, monete etc etc. L'analisi di tutte queste emergenze da un survey ben pianificato e realizzato permette di delineare con una notevole precisione la presenza di edifici ed attività, la loro funzione e la loro periodizzazione. Il survey aiuta a comprendere il popolamento del paesaggio in una dimensione territoriale (in confronto allo scavo che invece dà una prospettiva locale) e diacronica, dal momento che si registrano gli elementi in maniera non selettiva per la loro epoca. In questo breve documentario della serie di Archeoreporter si espongono le linee ed i risultati di una prima campagna di survey nella zona di Bibione ove è stata individuata una villa romana. Vedrete come si realizza un survey, a cosa serve e che risultati può fornire per la comprensione di un sito archeologico. Ville romane tra i campi e le lagune in Veneto: la ricognizione "in diretta" a Caorle Bibione Antica Progetto archeologico “La villa marittima romana di Bibione e il suo contesto” Le ricerche di superficie Conclusa la prima campagna di ricognizione Dopo la fortunata campagna di scavo nel sito della villa romana, svoltasi nel marzo 2023, che ha dato l’opportunità a numerosi interessati di accedere alla Valgrande e visitare gli straordinari resti che stanno emergendo, nel novembre 2023 hanno preso avvio le ricerche sul territorio. Le ricerche sul territorio prevedono ricognizioni sistematiche di superficie, carotaggi e indagini geofisiche, condotte nell'ottica di raccogliere dati utili a ricostruire quale fosse l’aspetto del paesaggio nell’antichità e a comprendere come fosse popolato e sfruttato. In passato il territorio in questione è stato oggetto di alcuni studi. Alcuni spargimenti di materiali di età romana sono noti nel comune di San Michele al Tagliamento (presso Bevazzana), altri nel comune di Caorle, lungo il ramo principale del Tagliamento di età romana e presso la sua probabile foce; nel territorio sono conosciuti anche rinvenimenti di età tardo medievale. Allo stato attuale rimane comunque ancora incerta la posizione dei porti antichi alle foci del Tagliamento e le modalità insediative della fascia costiera. Il programma di ricerca prevede tre campagne di ricognizione della durata di circa 1 mese ciascuna. La prima campagna si è svolta dal 6 novembre al 1 dicembre 2023 e ha interessato alcune aree situate nel comune di Caorle e altre nel comune di San Michele al Tagliamento. Le ricerche di superficie sono condotte quando i campi sono sgombri da colture e arati/fresati, sfruttando la sistemazione idraulico-agraria esistente (il periodo ideale sono quindi i mesi autunnali e invernali). Tali ricerche prevedono che gli operatori camminino sui terreni per linee parallele, distanti da 5 a 10 metri, al fine di individuare l’eventuale presenza di materiale archeologico; qualora si individuino concentrazioni di reperti, viene condotta una ricognizione più intensiva per documentare la distribuzione degli stessi e si procede alla raccolta dei materiali più significativi. In casi eccezionali possono essere condotte ricerche geofisiche, che consentono di indagare il sottosuolo senza scavare, e carotaggi, per ricostruire le caratteristiche geomorfologiche e ambientali. Tutti i proprietari dei terreni hanno ricevuto una comunicazione personale che illustra gli obiettivi del progetto e le metodologie adottate, poiché è molto importante stabilire un dialogo per pianificare nel modo migliore le attività da svolgere, nella massima collaborazione, e ricostruire insieme la storia di questa straordinario territorio anfibio, da sempre strategico per la vita e l’economia delle comunità. Il progetto di ricerca archeologica Nel 2022 ha preso avvio un progetto di ricerca archeologica incentrato sullo scavo della villa romana di Mutteron dei Frati, situata all’interno della Valgrande (Bibione), e sullo studio della fascia costiera in cui la villa si inseriva, compresa tra il canale Nicesolo (dove scorreva il Tagliamento in età romana) e l’attuale corso del Tagliamento (Comuni di Caorle e di San Michele al Tagliamento). Il progetto, di durata triennale, è condotto dalle Università di Regensburg (Germania) (prof. Dirk Steuernagel, dott.ssa Alice Vacilotto) e Padova (prof. ssa Maria Stella Busana), in accordo con la competente Soprintendenza (Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per l’Area Metropolitana di Venezia e per Province di Belluno, Padova e Treviso), ed è finanziato da un importante ente tedesco (DFG-Deutsche Forschungsgemeinschaft), oltre che dall’ateneo di Padova, con il generoso supporto della proprietà di Valgrande e dell’affittuario. (da comunicato stampa) Mi si permetta di dire che alla fine son contento che si siano separate le due sezioni di archeologia del forum perché troppe notizie (spesso scritte da "giornalisti" che non ne sanno nulla e riportano cose da altri siti o da note stampa) significano nessuna notizia. E lasciare la parte di approfondimenti può permettere di fare davvero approfondimento anche se magari in pochissimi leggera perché, in realtà, al pubblico non interessa approfondire ma il "cotto e mangiato".
  15. Vel Saties

    Là dove è nata la civiltà di Halstatt

    La cultura di Hallstatt (1200 a.C. - 500 a.C.) è stata una cultura dell'Europa centrale dell'età del bronzo e degli inizi dell'età del ferro. Prende il nome dalla cittadina di Hallstatt, nei pressi di Salisburgo (Salzkammergut), nei dintorni del quale è stato rinvenuto il sito tipo attribuito a tale cultura. Nel 1846 Johann Georg Ramsauer, direttore delle locali miniere, scoprì una grande necropoli preistorica del I millennio a.C. Gli scavi proseguirono nella seconda metà del XIX secolo, fino al 1876, ad opera dall'Accademia delle scienze di Vienna, portando alla scoperta di oltre mille tombe con una ricca suppellettile funeraria. Gli oggetti si erano conservati particolarmente bene a causa della salinità del suolo. Lo stile e la decorazione degli oggetti rinvenuti erano fortemente caratteristici e oggetti simili erano diffusi in gran parte dell'Europa. A causa dell'importanza della scoperta il sito diede il nome alla fase più antica dell'età del ferro nella cronologia elaborata nel 1872 dall'archeologo svedese Hans Hildebrand, mentre la fase più recente dell'età del ferro prendeva il nome dal sito di La Tène (Cultura di La Tène). Gli abitanti del sito sfruttarono le miniere di salgemma esistenti nell'area, da cui si ricavava il sale, indispensabile ovunque per la conservazione dei cibi e che comportava intensi scambi commerciali. Il sito declinò con l'inizio dello sfruttamento delle vicine miniere di Hallein e fu abbandonato per una frana nel IV secolo a.C. Nella necropoli le sepolture a inumazione sono di poco più numerose di quelle a incinerazione. Le fasi La cultura di Hallstatt si sviluppò tra il XIII e il VI secolo a.C., come probabile evoluzione della "cultura dei campi di urne" a cui inizialmente si sovrappone, e fu suddivisa in quattro fasi principali: Hallstatt A e Hallstatt B corrispondono alla tarda età del bronzo (1200-800 a.C. ca.) Hallstatt C corrisponde agli inizi dell'età del ferro (800-600 a.C. ca.) e alle tombe a tumulo principesche Hallstatt D (600-500 a.C. ca.) l'area occidentale, probabilmente in connessione con il commercio verso il Mediterraneo, acquista una maggiore importanza La ceramica e gli oggetti di ornamento presentano ugualmente significative differenze tra i diversi periodi. La cultura di Hallstatt è collegata alla formazione dei Protocelti. La diffusione Collocazione della Cultura di Hallstatt (XIII-VI secolo a.C.). Si possono inoltre distinguere in questa cultura un'area orientale (Croazia, Slovenia, Ungheria occidentale, Austria, Moravia, Slovacchia) e un'area occidentale (Italia settentrionale, Svizzera, Francia orientale, Germania e Boemia). Gli scambi commerciali e i movimenti migratori delle popolazioni diffusero ulteriormente la cultura di Hallstatt nella metà orientale della penisola iberica e nelle isole britanniche. Contatti commerciali Il commercio con la Grecia, che probabilmente si svolgeva a partire dalla colonia di Massalia (Marsiglia) è attestato dal ritrovamento di vasi in ceramica a figure nere di stile Attico nelle tombe più ricche delle fasi più tarde. Sono attestate inoltre importazioni di lussuose opere toreutiche dall'Etruria. Si importavano inoltre ambra, avorio e vino. Alcuni ritrovamenti avevano fatto pensare alla presenza di importazioni di tessuti di seta dall'oriente, ma analisi recenti hanno smentito questa ipotesi. Dal sud veniva importata una tintura rossa. I tumuli principeschi Girocollo in ambra. Corazze ed elmo dall'Austria Nelle zone centrali della cultura di Hallstatt si rinvennero tombe particolarmente ricche sotto grandi tumuli, riferibili cronologicamente alla fase finale di questa cultura. Ai tumuli sono associati abitati fortificati in altura. I corredi presentano spesso beni di lusso di importazione, che testimoniano dei numerosi contatti commerciali. Le tombe contengono spesso carri da guerra a quattro ruote e finimenti da cavallo. Tra gli esempi più noti si possono citare i tumuli di Býčí Skála ("Roccia del Toro"), di Vix e di Hochdorf an der Enz. Un modello di carro da guerra fatto in piombo è stato rinvenuto nel sito di Frögg, in Carinzia. I siti fortificati comprendono spesso officine per la lavorazione del bronzo, dell'argento e dell'oro. Si possono citare i siti di Heuneburg, nell'alta valle del Danubio, nella cui necropoli sono stati rinvenuti nove grandi tumuli, di Mont Lassois presso Châtillon-sur-Seine, nella Francia orientale, con la ricca tomba di Vix, e di Molpir nella Repubblica Ceca. Di particolare pregio artistico gli elaborati gioielli di bronzo e di oro, e le stele scolpite, come il celebre guerriero di Hirschlanden.
  16. Delfi, il santuario sepolto del Dio Apollo Alla fine del XIX secolo alcuni archeologi francesi, con l’appoggio del neonato stato greco, portarono alla luce i resti del santuario di Apollo a Delfi, sede del famoso oracolo, nascosti per secoli sotto un piccolo villaggio /medio/2019/12/12/situato-su-un-terrazzo-sopra-il-tempio-di-apollo-in-una-posizione-da-cui-dominava-il-paesaggio-circostante-il-teatro-del-santuario-poteva-accogliere-cinquemila-spettatori_22884be2_800x532.jpg Situato su un terrazzo sopra il tempio di Apollo, il teatro del santuario poteva accogliere cinquemila spettatori Foto: Funkystock/Age fotostock Secondo i greci Delfi era il centro del mondo. Senza dubbio è un luogo unico per la sua posizione. L’immenso complesso monumentale si sviluppa su varie terrazze in un anfiteatro naturale sulle pendici del monte Parnaso, nella Grecia centrale, a 500 metri di altitudine. In quanto sede del tempio e dell’oracolo del dio Apollo, Delfi era uno dei più importanti centri di culto e di pellegrinaggio dell’antichità. Inoltre, ospitava competizioni atletiche, poetiche e musicali. Tra il VI e il IV secolo a. C. il santuario accumulò grandi ricchezze grazie agli oggetti, ai trofei e agli ex voto offerti dai fedeli in segno di gratitudine e devozione. Anche se l’oracolo rimase in attività fino al IV secolo d.C., già verso la fine del II secolo d.C. era iniziata la costruzione di case negli spazi liberi a nord e a ovest del tempio. Nacque allora un piccolo nucleo urbano che successivamente venne ampliato approfittando dei crolli causati da un terremoto nel 365. Dopo la chiusura dei templi pagani dell’impero romano, avvenuta nel 391, gli antichi edifici furono smantellati per riutilizzarne la pietra o per costruirvi sopra. In poco tempo nessuno di questi era più visibile. Secoli dopo, in epoca moderna, nella zona dove una volta sorgeva il famoso santuario era rimasto solo un villaggio di misere abitazioni di nome Kastri. Nel 1833 il nuovo stato greco ritenne necessario promuovere la rivalutazione del suo passato e salvaguardarne le vestigia. Vennero approvate leggi contro la vendita di reperti antichi, fu creata la Società archeologica greca e venne permesso l’insediamento di centri archeologici stranieri. Tuttavia, gli scavi di Delfi costituivano un caso a parte, dato che implicavano uno sforzo titanico. Per realizzarli era innanzitutto necessario espropriare gli abitanti di Kastri, risarcirli e trasferirli in un’altra zona. Il villaggio di Kastri e, ai suoi piedi, gli scavi del tempio di Apollo in un'immagine del 1893 Foto: N.C./École Francaise d'Athènes. Ministry of culture and sports/Ephirate of antiquities of Phokis Visto che la situazione economica della Grecia non permetteva grandi spese, nel 1838 il governo dichiarò le proprietà non trasferibili e ne proibì la riqualificazione. Nel frattempo gli archeologi iniziarono a effettuare delle ricerche su un terreno abbandonato. Nel 1840 il tedesco Karl Müller scoprì parte della struttura del tempio, ovvero una decina di metri del muro poligonale di sostegno, ricoperto di iscrizioni, che era già stato identificato in precedenza da alcuni viaggiatori. Müller morì a causa di un’insolazione mentre cercava di copiare le iscrizioni, e gli scavi vennero richiusi. Ma un astuto abitante della zona, di nome Dimos Frangos, un ex capitano che si era battuto contro i turchi, comprò il terreno prevedendo l’opportunità di futuri benefici. Più tardi, tra il 1860 e il 1861, il francese Paul Foucart portò alla luce un’altra cinquantina di metri del muro. Di fronte a così tante scoperte, nel 1862 la Società archeologica greca organizzò una lotteria per raccogliere fondi. Tuttavia, né questa né un’altra iniziativa successiva diedero buoni risultati: i proprietari avevano intuito che i loro terreni erano di grande valore e chiedevano cifre esorbitanti. Tutto cambiò nel 1870 quando, in seguito a un forte terremoto, si staccarono dalla montagna enormi rocce che distrussero il villaggio e causarono la morte di 30 persone. Dopo il sisma fu creata una commissione per negoziare con gli abitanti e trovargli una nuova sistemazione. Ma questi si rifiutavano di vendere se non venivano pagati in contanti. La Società archeologica greca decise allora di contattare i proprietari a uno a uno. Il capitano Frangos fu il primo ad accettare una somma di novemila dracme per una proprietà che ne valeva un centinaio. Questo incentivò gli altri. Ciononostante, i terreni da espropriare erano ancora molti e i soldi pochi. In attesa di finanziamenti, nel 1880 la Società archeologica greca cedette il terreno di Frangos alla Scuola archeologica francese di Atene perché potesse effettuare degli scavi. Tempio di Atena Pronaia situato a 800 metri dal santuario di Apollo, sul terrazzo di Marmarià Foto: Orgad Navè/Fototeca 9x12 A caccia della concessione La Scuola archeologica francese di Atene era stata fondata nel 1846 e a partire dal 1874 si era ritrovata a competere con l’Istituto archeologico germanico di Atene, fondato quello stesso anno. Quando l’anno seguente i tedeschi ottennero il permesso di realizzare scavi a Olimpia, le proteste francesi non si fecero attendere. Il governo greco assegnò allora alla Francia la concessione per l’isola di Delo e promise di affidarle i futuri scavi a Delfi. Nel 1880 Bertrand Haussoullier si mise alla guida della missione francese a Delfi. Haussoullier si concentrò sui 20 metri della proprietà di Frangos, tra il settore che era stato scavato nel 1840 e quello portato alla luce nel 1860. Era sicuro di trovarsi di fronte alla terrazza del tempio, ma non si spiegava la presenza di alcuni muri che si trovavano di fronte. Gli scavi rivelarono che si trattava della spianata accanto al terrazzo, dove sorgevano dei monumenti commemorativi. I muri appartenevano a uno di questi, il portico degli ateniesi, costruito all’inizio del V secolo a.C. per ospitare i trofei delle vittorie navali di Atene. Nelle vicinanze fu ritrovata anche la colonna frammentata della sfinge, un ex voto dell’isola di Naxos. Risalente alla metà del VI secolo a.C., la sfinge dei nassi si trova oggi al museo archeologico di Delfi Foto: Akg/Album Nel 1881 il primo ministro Alexandros Kumunduros promise Delfi alla Francia in cambio dell’appoggio alle rivendicazioni territoriali greche. Iniziava così un periodo di dieci anni, noto in Francia come “la guerra di Troia”, durante il quale Delfi fu moneta di scambio nelle negoziazioni tra il governo greco e quello francese. Presto vi si aggiunsero gli Stati Uniti, anch’essi interessati a partecipare agli scavi del sito. Alla morte di Kumunduros il nuovo primo ministro, Charilaos Trikoupis, offrì Delfi ai francesi a cambio della riduzione delle imposte sulle importazioni di uva sultanina, un prodotto all’epoca estremamente ricercato in Francia, dove la fillossera aveva distrutto le viti locali. Il senato francese rifiutò e Trikupis ritirò l’offerta. Alla fine, in seguito agli scavi illegali del tedesco Hans Pomtow nel 1887 e a una nuova proposta con cui la Francia si impegnava a pagare 400mila franchi per espropriare Kastri, il 13 aprile del 1891 il re Giorgio I di Grecia firmò la concessione. Iniziano i “grandi scavi” I cosiddetti “grandi scavi” sarebbero dovuti iniziare nel settembre del 1892. Tuttavia, gli abitanti del villaggio, furiosi per non essere ancora stati pagati, impedirono l’accesso alla zona. Gli archeologi furono costretti a lavorare sotto la protezione della polizia fino a quando, l’11 ottobre, non vennero effettuati i pagamenti. Quattro giorni prima si era svolta l’inaugurazione ufficiale. I lavori si protrassero per dieci anni, dal 1892 al 1901, sotto la direzione di Théophile Homolle, futuro direttore del Museo del Louvre. Data l’enorme estensione del sito, circa 20mila metri quadrati, furono impiegati 200 operai per dieci ore al giorno e vennero installati quattro chilometri di rotaie su cui circolavano 75 carrelli, che trasportavano 28.500 metri cubici di terra. Nonostante le difficoltà – vento, pioggia, smottamenti – l’opera diede ben presto i suoi frutti. Nel 1893 vennero scoperti l’altare di Chio, la roccia della sibilla e il tesoro degli ateniesi. Un edificio, quest’ultimo, offerto alla dea Atena per commemorare la vittoria di Maratona sui persiani nel 490 a.C.: sui suoi blocchi erano incisi il testo e le notazioni musicali dell’Inno ad Apollo. Questa foto fu scattata il 30 maggio del 1893, quando venne alla luce la statua di Cleobi Foto: N.C./École Francaise d'Athènes. Ministry of culture and sports/Ephorate of antiquities of Phokis Nel 1894, invece, furono scoperte la statua di Antinoo e di Bitone (quella di Cleobi era stata rinvenuta l’anno prima) e i tesori degli cnidi e dei sicioni, mentre nel 1896 fu rinvenuta l’inimitabile figura di bronzo dell’auriga. Tra il 1895 e il 1897 vennero portati alla luce il teatro e lo stadio, quindi il ginnasio e la fonte Castalia. A partire dal 1898 fu la volta del terrazzo inferiore, detto Marmarià, con il tempio di Atena Pronaia. La metodologia usata era quella dell’epoca, molto sbrigativa. D’altro canto, la scrupolosità del diario degli scavi, l’ampio uso della fotografia e la pubblicazione di riassunti annuali rappresentavano una novità. Forse perché si trattava di un luogo ampiamente descritto dagli autori antichi, l’approccio fu più letterario che archeologico. Il 28 maggio 1894 venne alla luce la statua di Bitone e un anno prima quella di suo fratello Cleobi Foto: N.C./École francaise d'Athènes. Ministry of culture and sports/Ephorate of antiquities of Phokis Alla conclusione degli scavi, Homolle dichiarò la sua delusione per non aver trovato «neanche una metopa né un frammento del fregio, neppure il dito di una figura del frontone del tempio». E nemmeno la caverna dell’oracolo né altri ex voto citati dai testi antichi. D’altro canto, la scarsa qualità dei resti rivenuti obbligò a ricostruire il tesoro degli ateniesi nel 1903 e l’altare di Chio nel 1920. Nel 1935 la parte orientale del sito archeologico venne sepolta da una frana e fu necessario rimettere in funzione rotaie e carrelli. Nel 1938, invece, vennero ricostruite alcune colonne del tempio di Apollo e di Atena Pronaia. I “grandi scavi” segnarono l’inizio di un lungo cammino che continua ancor oggi e che ha portato al recupero di uno dei luoghi più emblematici del mondo antico. Nel 1992, in occasione del centenario della campagna, Jean Leclant, segretario emerito della Scuola francese, ha definito gli scavi «il trionfo dello spirito di Apollo, tutto sapienza e bellezza».
  17. Scoperte sorprendenti dal relitto di Anticitera https://www.storicang.it/a/scoperte-sorprendenti-dal-relitto-di-anticitera_15743 Gli scavi subacquei nel sito in cui nel 1900 venne scoperta un’imbarcazione romana affondata continuano a riservare grandi sorprese agli archeologi, che nella più recente campagna hanno ritrovato manufatti importanti, come una gigantesca testa in marmo Agli esordi del XX secolo alcuni pescatori di spugne greci scoprirono nelle acque dell’isola di Anticitera, nel mar Egeo, i resti di un naufragio di epoca romana, del I secolo a.C. Il relitto, che si trova a quarantacinque metri di profondità, trasportava un prezioso carico che comprendeva tra l’altro una splendida statua di bronzo, meglio nota come l’Efebo di Anticitera, e un singolare manufatto dotato di ruote dentate (considerato da alcuni un predecessore dei moderni computer) conosciuto come la Macchina di Anticitera. Da allora gli archeologi hanno condotto diverse campagne di scavo sul sito per cercare di ricostruire le circostanze dell’incidente. Questi lavori hanno portato alla luce una gran quantità di oggetti che facevano parte dell’ingente carico. Un archeologo subacqueo scava nel giacimento del relitto di Anticitera Foto: Nikos Giannoulakis La più recente campagna archeologica nel giacimento di Anticitera si è svolta tra il 23 maggio e il 15 giugno 2022, nell’ambito di un programma di studi della durata prevista di cinque anni. Gli esiti sono stati eccellenti, secondo gli archeologi che hanno partecipato al progetto, condotto dalla Swiss School of Archaeology in Greece sotto la direzione di Lorenz Baumer, professore di archeologia classica all’università di Ginevra, in collaborazione con il ministero delle antichità subacquee greco. La più recente campagna archeologica nel giacimento di Anticitera si è svolta tra il 23 maggio e il 15 giugno 2022, nell’ambito di un programma di studi della durata prevista di cinque anni. Gli esiti sono stati eccellenti, secondo gli archeologi che hanno partecipato al progetto, condotto dalla Swiss School of Archaeology in Greece sotto la direzione di Lorenz Baumer, professore di archeologia classica all’università di Ginevra, in collaborazione con il ministero delle antichità subacquee greco. Una colossale testa in marmo L’obiettivo di questo ambizioso progetto archeologico è quello di comprendere meglio la posizione della nave sul fondo del mare, la sua rotta, che cosa trasportava e come avvenne il naufragio. La presente indagine è consistita nel prelievo di alcune rocce di notevoli dimensioni (certe del peso di 8,5 tonnellate) che coprivano parzialmente l’area del naufragio: una superficie finora mai esplorata. Base in marmo di una statua che conserva la parte inferiore delle due gambe Foto: Nikos Giannoulakis @ESAG Gli archeologi hanno scoperto sul posto elementi di grande interesse, come ad esempio il basamento di una statua in marmo che comprende la parte inferiore delle gambe. È emersa anche una grande testa in marmo che rappresenta una figura mascolina barbuta, più grande del naturale, che a prima vista parrebbe molto simile all’eroe greco Eracle e che, secondo gli esperti, è molto probabilmente la parte mancante di una statua acefala conservata nel Museo archeologico nazionale di Atene, nota come l’Eracle di Anticitera. Scoperta della testa in marmo di una statua, forse una rappresentazione dell’eroe Eracle Foto: Nikos Giannoulakis @ESAG Due denti umani Senza dubbio, però, uno dei ritrovamenti più sorprendenti della campagna sono stati due denti umani, apparsi in un agglomerato solido di depositi marini insieme a frammenti di rame, legno e altri materiali. I ricercatori ritengono che un’analisi genetica e isotopica di questi reperti dentali potrà fornire informazioni preziose sugli individui a cui appartennero. Studio della testa in marmo nella coperta della nave di ricerca Foto: Nikos Giannoulakis @ESAG Infine sono stati localizzati anche molti elementi dell’equipaggiamento navale, come borchie in bronzo e ferro, la catena di piombo di un’ancora di grandi dimensioni in legno, e resti di ferro informi coperti di depositi marini. Tutti questi elementi saranno analizzati ai raggi X in laboratorio. Allo stesso modo tutti i ritrovamenti sono stati documentati con grande precisione, al fine di inserirli nel modello 3D del giacimento che i ricercatori stanno disegnando, e saranno sottoposti a un trattamento di conservazione prima di essere studiati. Conglomerato di resti marini dove sono stati trovati due denti umani Foto: Nikos Giannoulakis @ESAG
  18. Out of the Ashes: Il recupero della biblioteca perduta di Ercolano (2003) Vent’anni fa, gli ingegneri e gli studiosi classici della Brigham Young University furono pionieri nell’uso delle tecnologie di imaging multispettrale per leggere documenti antichi, inclusi i fragili e carbonizzati papiri di Ercolano. Nel caso dei papiri di Ercolano, che furono carbonizzati e sepolti dalla stessa eruzione che distrusse l'antica città di Pompei nel 79 d.C., il team della BYU ha ottenuto risultati miracolosi. L'inchiostro nero sulle pagine annerite dei papiri divenne improvvisamente leggibile, con stupore degli studiosi. Le immagini della BYU avrebbero portato a dozzine di nuove pubblicazioni e avrebbero cambiato per sempre il mondo della papirologia. Out of the Ashes: Recovering the Lost Library of Herculaneum, prodotto nel 2003, racconta la storia dell'unica biblioteca mai recuperata dall'antichità e gli sforzi di un team mondiale di studiosi per srotolare, leggere e preservare i fragili rotoli. Il documentario è stato prodotto dalla Brigham Young University/KBYU Television per la televisione pubblica americana. Un ringraziamento speciale a Roger Macfarlane, professore associato di arti e lettere comparate della BYU, Giovanni Tata, e alla Biblioteca Nazionale "Vittorio Emanuele III" di Napoli, Italia. Nel 2023, gli ingegneri dell'Università del Kentucky hanno annunciato nuovi entusiasmanti progressi che consentiranno di leggere i papiri di Ercolano senza srotolarli e di decifrare i testi utilizzando l'intelligenza artificiale. L'annuncio ha suscitato un rinnovato interesse per il documentario originale su Ercolano e per il lavoro rivoluzionario della BYU che utilizza la tecnologia per studiare gli antichi papiri.
  19. Solo in UK potevano pensare un reality sull'archeologia e portare avanti il format per quasi 30 anni. In Italia non sarebbe mai stato possibile! Cosa succede? Un team multidisciplinare ha 3 giorni per comprendere, scoprire, documentare le evidenze archeologiche di un sito. In questa puntata di un po' di anni fa Time Team torna sul sito dell'Abbazia di Athelney, il nascondiglio di Alfredo il Grande a distanza di 10 anni di una puntata precedente. Cercano tracce della lotta di re Alfredo contro i vichinghi. In precedenza la squadra aveva trovato prove di lavorazione del ferro e scoperto l'Abbazia costruita per commemorare la vittoria di Alfred, ma credono che ci siano ancora altre scoperte da fare. Il sito è naturalmente difeso da paludi e terreni allagabili, rendendolo una base ideale per la lotta di Alfred contro i Vichinghi. La squadra ora ha il permesso di scavare e scoprire altri segreti del nascondiglio di Alfred nelle paludi. Questa èla loro tesi... vediamo cosa avverrà alla riprova dei dati scientifici. Verranno effettuata ricerca geofisica, ricerchoia archivistica, ricerca di materiale di superficie e, ovviamente una piccolo scavo stratigrafico per saggi limitati.
  20. Vel Saties

    Quando un crollo conduce ad una piccola scoperta

    Ci vuole anche c**o, è vero... ma per una volta un distacco di un paramento non siè risolto in un disastro ma in una nuova opportunità di conoscenza. In epigrafia capita ogni tanto: si rimuove una lastra che non sapevi fosse di reimpiego e sotto trovi una nuova epigrafe... https://stilearte.it/si-stacca-piccola-lastra-di-marmo-da-edificio-romano-a-roselle-e-sul-lato-b-si-scopre-unepigrafe-cosa-dice-il-frammento-studiosi-al-lavoro/ Si stacca piccola lastra di marmo da edificio romano a Roselle. E sul lato B si scopre un’epigrafe. Cosa dice il frammento? Studiosi al lavoro 13 Novembre 2023 Il punto in cui è avvenuto il distacco che ha consentito una piccola, interessante scoperta @ Parco archeologico di Roselle A sinistra, impronta lasciata dalla lastra di marmo. Ben visibili le lettere, in negativo, sulla stesura di malta. Altre informazioni potrebbero essere ricavate dal marmo lì accanto? @ Parco archeologico di Roselle “Non tutto il male vien per nuocere”! Capita a volte che un piccolo danno possa essere fonte di nuove informazioni. – osservano gli studiosi che dirigono il parco archeologico di Roselle – E’ quello che è successo tempo fa a Roselle, quando si è staccata un piccola lastra di rivestimento all’interno della cosiddetta basilica “A”, nell’area settentrionale del foro romano. La lastra, in marmo di Carrara, è risultata infatti essere una parte di un’epigrafe, riutilizzata però da rovescio, in modo che la scritta fosse contro il muro e quindi non si leggesse”. Sul pilastro a sinistra dell’abside della basilica ne è ancora ben visibile l’impronta. L’epigrafe compressa sulla malta antica ha lasciato un calco. “In epoca romana era uso comune reimpiegare materiali, soprattutto se preziosi come il marmo, ad esempio quando rotti o quando l’iscrizione non era più adeguata o addirittura da nascondere perché la persona ricordata era caduta in disgrazia”. – spiega il Parco archeologico di Roselle – La lapide è in corso di studio”. Sarà possibile rimuovere delicatamente anche altri lacerti di marmo, lì vicino, per capire se esista l’opportunità di comporre un “puzzle”? Intanto si lavora sul singolo lacerto. Volete vedere quello che c’è scritto? Abbiamo preso l’immagine della malta con le lettere impresse e l’abbiamo portata in una posizione speculare, collocandola nel possibile verso di lettura. Ecco cosa si legge. Roselle, conosciuta come Rusel nell’antica lingua etrusca e Rusellae per i Romani, rappresenta un affascinante sito archeologico di origini etrusche situato a soli 8 chilometri a nord della moderna città di Grosseto, in Italia. I resti della città sono collocati nelle vicinanze dell’attuale frazione omonima. Storia Roselle occupava una posizione strategica, lungo il passaggio tra la valle dell’Ombrone e la Maremma grossetana, sulle rive del vecchio lago Prile. Originariamente un’antica lucumonia dell’Etruria centrale e parte della dodecapoli etrusca, la città ha conservato tracce di diverse fasi storiche, dalla fase etrusco-villanoviana a quella romana. Fondata nel VII secolo a.C., Roselle fu menzionata da Dionigi di Alicarnasso tra le città che fornirono aiuto ai Latini durante la guerra contro Tarquinio Prisco. La città prosperò a spese delle lucumonie circostanti, in particolare Vetulonia. Nel 294 a.C., Roselle cadde sotto il dominio romano, diventando prima un municipio e successivamente, durante l’epoca di Augusto, una colonia. Questo periodo vide la costruzione del Foro, della basilica, di un sistema di raccolta delle acque piovane e di un edificio termale. Tracce di un anfiteatro e di ville romane sono ancora visibili. Tuttavia, a partire dal VI secolo, Roselle subì un declino, influenzato dalla diffusione della malaria che flagellò l’intera Maremma. La città fu abbandonata e rimase in uno stato di oblio fino al tardo Settecento, quando Pietro Leopoldo avviò la bonifica della zona. Scavi archeologici Negli anni ’50, la Soprintendenza archeologica della Toscana ha avviato una lunga campagna di scavi che ha riportato alla luce gli antichi edifici di Roselle. Tra i reperti più significativi si trovano la cinta muraria, l’anfiteatro romano, la Domus dei Mosaici, il Tempietto dei flamines Augustales, la basilica paleocristiana e le terme. La necropoli e la cattedrale di Roselle aggiungono ulteriori strati di fascino e mistero a questa antica città che, grazie agli sforzi degli archeologi moderni, continua a svelare la sua storia secolare.
  21. Radiocarbon dating the end of urban services in a late Roman town di Michael McCormick NB: traduzione dall'inglese automatizzata, mi spiace per le references rimando all'articolo di cui riporto qui sotto il link https://www.pnas.org/doi/10.1073/pnas.1904037116 La caduta dell’Impero Romano fu un affare molto più grande della deposizione di Romolo Augusto da parte di un generalissimo nel 476 d.C. (un bambino burattino che governava la metà occidentale impoverita dell’impero), un evento memorizzato da generazioni di liceali. Ricerche recenti hanno scoperto una storia grande e complessa che presenta ancora migrazioni barbariche e massicce conversioni religiose. Ma gli archeologi hanno anche portato alla luce le trasformazioni economiche dell’epoca, tra cui lo spostamento, l’impoverimento e il declino urbano nelle province occidentali nel 400, e la simultanea crescita economica dinamica e città in forte espansione nella metà orientale più ricca e popolosa dell’Impero Romano durante quello che gli archeologi della Terra Santa chiamano periodo bizantino. La maggior parte degli specialisti ora ritiene che il tardo Impero Romano sia stato un'impresa funzionante fino al 600. Anche le prove scritte continuano a crescere. Nuove risorse online raccolgono documenti scritti latini e greci finora inosservati, spesso anonimi, che documentano argomenti come la società degli schiavi del tardo Impero Romano (1). Robuste tipologie cronologiche delle mutevoli, onnipresenti e quasi indistruttibili ceramiche da tavola tardo romane (i) consentono agli archeologi di datare a buon mercato (e fino al secolo o meno) diversi strati dei loro scavi, e (ii) consentono nuove cronotipologie di ancora più comuni recipienti per cucinare e trasportare che espandono le prove che ogni sito fornisce sulla questione cruciale della cronologia: quando tutto questo finì? Le ceramiche di scarto forniscono un primo, grezzo strato di datazione per la rapida crescita e la cessazione dei tumuli di discarica che circondavano Elusa, una delle fiorenti città agricole bizantine del deserto del Negev, offrendo una misura proxy per la loro traiettoria economica. Ma un nuovo studio su PNAS di Bar-Oz et al. (2) cerca di individuare un punto di svolta nel declino dell'urbanistica tardo romana o bizantina attraverso la datazione radiometrica dei cumuli di rifiuti. Le città agricole del Negev furono una delle grandi storie di successo nella fiorente economia dell'Impero Romano d'Oriente. Grazie all'ingegnosa tecnologia di gestione dell'acqua e ai forti mercati urbani del prospero impero bizantino del IV e V secolo d.C., città come Elusa sperimentarono una ricchezza che probabilmente riflette la domanda di vini bianchi costosi, inebrianti e dolci prodotti nei loro caldi vigneti e vigneti nel deserto. trasportati con cammelli (Fig. 1) ai porti di Gaza e Ashkelon, da dove venivano esportati fino a Marsiglia e persino a Bordeaux. Il vino viaggiava in caratteristiche anfore la cui forma si adattava alle rastrelliere dei cammelli con cui raggiungeva il mare e ne testimoniano ancora l'origine quando affiorano negli scavi dalla Francia alla Turchia (3). Fig. 1. Il cammelliere Orbikon con il suo carico di anfore. Dal pavimento a mosaico di una chiesa a Kissufim, Israele, che si trovava a 5 km dalla strada romana che collegava le cantine del Negev a Gaza. Collezione dell'Autorità israeliana per le antichità. Foto © Museo di Israele, Gerusalemme. Otto datazioni calibrate al radiocarbonio mostrano che le principali discariche di rifiuti di Elusa cessarono di ricevere rifiuti non più tardi del 550 circa d.C. Altre testimonianze archeologiche dimostrano che la città continuò comunque ad essere abitata. Bar-Oz et al. (2) sostengono che le date di discarica documentano la fine dei servizi cittadini di lunga data, un punto di svolta verso una tendenza al ribasso. Le città del Negev fanno parte del più ampio dibattito sul crollo del potente Impero Romano d’Oriente e delle sue fiorenti città: le argomentazioni archeologiche sul declino urbano furono avanzate già nel 1954, ma tali scoperte furono pubblicate in russo (8) e ci vollero decenni per generarle. ricerca tradizionale in Occidente. Ora, una generazione di archeologi ha scoperto i prosperi paesaggi urbani dell’Impero Romano d’Oriente e i segni della loro diminuzione. Più recentemente, come Bar-Oz et al. (2) si noti che l’archeogenetica e la scienza paleoclimatica stanno svelando la portata di quelli che sembrano shock esogeni per il resiliente sistema romano, sotto forma di rapidi cambiamenti climatici e epidemie senza precedenti. Gli scienziati prima costrinsero gli storici a prestare attenzione ai resoconti dei testimoni oculari di un velo solare nella primavera del 536 d.C. che durò dai 14 ai 18 mesi (9). Nel 2015, le carote di ghiaccio polare hanno dimostrato che questo evento era vulcanico (10); nel 2016, gli scienziati del clima hanno collegato questo fenomeno e le successive eruzioni con un calo recentemente ricostruito delle temperature medie estive di circa 1-3 °C in tutta l'Eurasia dal 536 fino al 630 almeno, definendo una piccola era glaciale tardoantica (11). Nel 2018, la tefra proveniente da una carota di ghiaccio europea ha individuato quel vulcano in Islanda (12), che consentirà la ricostruzione del diverso impatto del raffreddamento emisferico. Quando e perché queste città straordinariamente conservate caddero nell'abbandono? Il dibattito è continuato dopo la loro scoperta e le ipotesi rispecchiano controversie più ampie sulla caduta dell’impero di Roma (4). Furono le invasioni persiane e arabe nel 600 (5)? Oppure le tasse, le strutture sociali e la burocrazia romane oppressive soffocarono le città di successo (6)? Potrebbe il cambiamento climatico nel ∼600 d.C. aver seccato i vigneti attentamente curati (7)? Documenti storici conservati in modo non uniforme menzionano grandi epidemie che colpirono l'Impero Romano, a cominciare dalla peste antonina (∼ dal 165 al 180 d.C.) il cui agente patogeno rimane non identificato. Queste grandi epidemie culminarono nella pandemia che porta il nome di Giustiniano, l’imperatore regnante, e che testimoni oculari descrivono come un crescendo di morte. A partire dal 541 e continuando fino al 750 d.C., una malattia terrificante si diffuse dai porti romani dell’Egitto in tutto il mondo mediterraneo. Tra i primi luoghi colpiti ci furono le città lungo il confine egiziano del Negev (13), inclusa plausibilmente Elusa. Il DNA antico (aDNA) ha posto fine al dibattito sull’identità dell’agente patogeno: dopo i primi risultati contestati, diversi laboratori hanno ora identificato con certezza l’agente patogeno come Yersinia pestis (peste bubbonica) e ricostruito il suo genoma, ponendo le basi per un dibattito più ampio fondato sull’archeologia e sulla batteriologia. filogenesi sull'entità e sulla frequenza delle ondate di morte. Per coincidenza, la prima e la seconda identificazione robusta (14, 15) del batterio nelle sepolture risalenti al 550 d.C. circa avvennero lontano da dove la malattia emerse per la prima volta, in Baviera, una regione eccezionalmente ben esplorata dove nessuno sapeva che la peste di Giustiniano aveva raggiunto. La Baviera offriva una sorta di zona “riccioli d’oro”, dove buone condizioni consentono il recupero di resti umani che portano ancora l’aDNA dell’agente patogeno che li ha uccisi. Un terzo studio di successo (16) ha riportato una quantità molto maggiore di aDNA della peste nelle aree indagate: risultati positivi da tre nuovi siti in Baviera e i primi risultati robusti dalla Francia mediterranea e dalla Spagna, dove i documenti storici affermano che la malattia colpì nel 500. Sorprendentemente, anche la Gran Bretagna anglosassone ha prodotto vittime di Y. pestis. Mappare ogni focolaio di una malattia che si ripresenta regolarmente per 200 anni sarà arduo, e dovrà estendersi ai territori levantini dell’Impero bizantino di Bar-Oz et al. (2), dove i documenti storici dicono che la peste ebbe inizio ma dove le condizioni ambientali sono anche meno favorevoli alla conservazione dell’aDNA. Alcuni hanno indicato questi shock esogeni derivanti dal clima e dalle malattie come fattori critici che indeboliscono l’impero sulla strada verso la caduta finale di Roma (17, 18), mentre altri negano la loro importanza a favore delle tradizionali cause politiche, sociali e militari (19, 20). Da qui l'importanza della datazione assoluta delle antiche discariche (2). Mentre le sconfitte militari che comportano morti di massa e distruzioni dovute al fuoco possono essere relativamente facili da osservare archeologicamente, il deterioramento economico e urbano lascia tracce materiali più sottili, soprattutto nelle principali città antiche come Costantinopoli (Istanbul) o Alessandria, dove la costruzione moderna cancella i delicati residui di antico declino. Anche in città permanentemente abbandonate come Elusa, è difficile decifrare quando, esattamente, tra i ∼500 e i 700 si verificarono i cambiamenti e di che tipo. Strettamente connessa alla questione del quando è la domanda del perché. Le date basate sulla ceramica non sono sufficientemente risolte; l'assenza di pentole approssimativamente databili potrebbe non significare l'assenza di persone (ad esempio, se le reti commerciali che forniscono le stoviglie sono cambiate). È proprio qui che la rimozione organizzata dei rifiuti dalle città tardo romane offre nuove intuizioni quando la sua cessazione può essere datata in modo affidabile e accurato mediante il radiocarbonio. Non c’è alcun segno di violenza nella morte di queste città. Le città sono morte velocemente o lentamente? Hanno condiviso un destino comune o sono morti ciascuno in modo diverso, per ragioni diverse, in tempi diversi? Il team del Weizmann Institute of Science (2) ha sviluppato un approccio promettente per datare quando iniziarono i grandi cambiamenti, applicando analisi geoarcheologiche dei sedimenti, quantificazione, dati del sistema informativo geografico, datazioni archeologiche estese (ceramiche, monete, vetro) e, soprattutto, analisi multiple al radiocarbonio datazioni ai tumuli di discarica generati da uno di questi insediamenti (2). La rimozione organizzata dei rifiuti era una caratteristica regolare della vita di queste città e, probabilmente, di molte altre simili in tutto l'impero: la necessità di un suo studio sistematico era chiara da tempo (21). La fine di tale rimozione dei rifiuti sembra un valido indicatore della cessazione dei normali servizi e pratiche urbane, rendendolo un indicatore importante sul percorso delle città romane verso l’oblio. Di per sé, il cambiamento nel comportamento urbano potrebbe avere ulteriori implicazioni. Se i rifiuti non venissero più rimossi ma scaricati all’interno della città dalle singole famiglie, ciò suggerirebbe uno spazio vuoto, forse riflettendo il calo della popolazione; inoltre, accumulare rifiuti attira i parassiti che se ne nutrono, permettendo alle loro popolazioni di crescere a più stretto contatto con gli abitanti umani. In un sito all'interno della Napoli tardo romana, tale scarico in un lotto libero è stato datato archeologicamente circa 100 anni prima rispetto ai risultati di Elusa, il che si adatta bene al precoce declino urbano dell'Impero d'Occidente (22). Tra i parassiti che ci si potrebbe aspettare in tali depositi di rifiuti intramurali (e che erano abbondanti nella discarica di Napoli) c'è il ratto nero (Rattus rattus), il presunto ospite principale di Y. pestis nel mondo tardo romano. Anche se diabolico da individuare archeologicamente, lo scavo di questi piccoli mammiferi sarà cruciale per decifrare la diffusione e l’impatto della peste. E questo ci riporta alle interessanti implicazioni di Bar-Oz et al. (2). La nuova datazione si sovrappone a quei due grandi shock esogeni che colpirono l’economia romana: il rapido cambiamento climatico a partire dal 536, e la pandemia della peste di Giustiniano che iniziò tra il 541 e il 542. La coincidenza cronologica è sorprendente, ma è solo il primo passo verso ciò che promette di stimolare nuovi dibattiti e scoperte su come il cambiamento ambientale, l’evoluzione delle malattie e della genetica umana, e fattori più tradizionali di economia, governance, migrazione e cultura, hanno interagito durante la straordinaria epoca di cambiamento, distruzione, rinnovamento e resilienza che ha visto la caduta del mondo. L’Impero Romano e le origini dell’Eurasia occidentale e del Nord Africa medievali e moderne.
  22. Atlante digitale dell’Impero romano: https://imperium.ahlfeldt.se/ https://www.usaretecnologia.it/2023/02/16/atlante-digitale-dellimpero-romano/?fbclid=IwAR09NLcSw6so8xx-NCAv0MABr6ILNFCyiPxBkD_Ia1XjGil_4-mG3_SdSLo Gli antichi romani nel corso dei secoli della loro dominazione costruirono una rete viaria molto efficiente per collegare i territori più lontani con la capitale dell’impero. In Svezia, Johan Åhlfeldt ha avuto la brillante idea di utilizzare il Barrington Atlas of the Greek and Roman World ed altre base di dati provenienti dal progetto DARMC per sviluppare una mappa storica digitale su server per la rappresentazione di dati geospaziali molto performante. Grazie ad un primo lavoro del 2012 di Johan Åhlfeldt e della LUND University, sviluppato con il progetto Pelagios, è stato possibile porre le basi per la costruzione di un atlante digitale dell’Impero romano e della sua viabilità storica. In una seconda fase è stato creato DARE (Digital Atlas of the Roman Empire) che non è altro che un sistema di informazione geografica storica online di tipo GIS che attinge informazioni da diverse banche dati pubbliche. La mappa digitale dell’Impero romano è di tipo Open Data e può essere utilizzata sotto licenza Creative Commons BY-SA 4.0. Dal 2019 l’atlante digitale dell’Impero romano viene ospitato dal Center for Digital Humanities, University of Gothenburg (Università di Göteborg).
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