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Brexit


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Scozia guarda a Parigi contro Uk

L'Auld Alliance (il secolare rapporto speciale che legava, e forse lega ancora, la Francia e la Scozia in un'alleanza contro i maledetti inglesi) in teoria è morta dal 1560 con la firma del Trattato di Edimburgo. Il documento sanciva la vittoria inglese nel lunghissimo (12 anni) assedio della città di Leith e prevedeva tra l'altro la creazione di una nuova «alleanza» anglo-scozzese al posto di quella con la Francia e il rientro in patria delle guarnigioni francesi presenti in Scozia.

L'antico (auld in scozzese significa per l'appunto «vecchio») patto anti-inglese tra i regni di Scozia e di Francia risale al 1295 e doveva servire inizialmente a scoraggiare le ambizioni territoriali di re Edoardo I d'Inghilterra. Secondo i termini dell'accordo, l'aggressione inglese a uno dei firmatari avrebbe provocato un attacco all'Inghilterra da parte dell'altro. Per quanto sia stato superato dalla resa di Leith, l'accordo non è mai stato formalmente revocato. L'alleanza, pur non sempre rispettata alla lettera, rifletteva anche altri legami tra i due paesi.

Oltre agli intensi rapporti commerciali, per tradizione le guardie del corpo dei re di Francia - la Garde écossaise - erano scozzesi, come le guardie personali di Giovanna d'Arco. La regina di Scozia Maria Stuarda fu anche regina consorte del re Francesco II di Francia, e perfino regina d'Inghilterra, almeno per i cattolici inglesi che non riconoscevano Elisabetta I come legittima erede di Enrico VIII. Elisabetta, «a malincuore», la fece decapitare.

Come si vede, all'epoca, la politica era una questione seria. Lo è meno oggi, ma proprio questo potrebbe far tornare a galla l'Antica Alleanza.

La Brexit è ormai un fatto compiuto, un esito fortemente contrastato dagli scozzesi che, anche per questo, hanno ancora una volta riesumato la proposta di un altro referendum per l'indipendenza e accarezzano l'idea di entrare da soli nell'Ue. Gli serve però uno sponsor «pesante», e non sarà la Germania, preoccupata per i rapporti futuri con il Regno Unito.

La Francia invece ha un presidente, Emmanuel Macron, in lite perenne con gli inglesi (per i pesci se non altro) e alla disperata ricerca di temi per distrarre una popolazione nazionale infelice per l'andamento economico e per la disastrosa conduzione della campagna di vaccinazione anti-Covid.

In circostanze simili, è tradizione in Francia sputare nell'occhio ai rosbif inglesi, anche citando il rapporto con la Scozia.

Lo fece Charles De Gaulle nel 1942 quando (seccato di dover elemosinare il sostegno dell'Inghilterra per cacciare i nazisti dal suo paese durante la guerra) tenne un discorso a Edimburgo in cui ricordò come quella tra Scozia e Francia fosse «la plus vieille alliance du monde», e che «per cinque secoli, in ogni combattimento in cui il destino della Francia era in gioco, c'erano sempre gli uomini di Scozia a lottare a fianco di uomini francesi... Nessun popolo è mai stato più generoso del vostro con la sua amicizia».

Trascurò di ricordare che lottavano insieme proprio contro gli inglesi. Ora, non è probabile che truppe francesi tornino a Leith, ma certo è che in Scozia potrebbe presentarsi qualche occasione magnifique per fare un dispetto storico...

https://www.italiaoggi.it/amp/news/scozia-guarda-a-parigi-contro-uk-2504122

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Questa europaccia cattiva che pur con tutti i suoi difetti tiene stabili i rapporti fra i suoi stati! Ci si rende conto di quant'è importante proprio in occasioni come queste. Ma no, che dico mai! E' meglio tornare ai bei vecchi tempi della "sovranità nazionale" completa, quando bisognava stare con le truppe vigili alla frontiera, il commercio e la circolazione erano ostacolati e le tensioni non si risolvevano a consigli e parlamenti. Vero, amici antieuropeisti sfegatati? Però a morire amazzati eroicamente nelle guerre di questa magnifica Europa del futuro-passato che sognate saranno i vostri figli o nipoti, non i miei.

Modificato da ART
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Boris ci ha tradito! 

Queste sono le parole dei pescatori che avevano votato in massa per la Brexit!

L'accordo commerciale di libero scambio raggiunto fra Londra e Bruxelles non ha gli stessi vantaggi e fluidità del mercato unico europeo: gli uomini di mare devono completare lunghe e complicate dichiarazioni doganali e spesso il pescato va a male. Johnson promette aiuti ma cresce a Edimburgo la voglia di indipendenza

La "carneficina" della Brexit. La chiamano così i pescatori scozzesi e in parte inglesi che nel 2016 votarono a grandissima maggioranza per l'uscita dall'Ue, ma che ora si sentono "traditi" da Boris Johnson e così oggi hanno protestato davanti a Downing Street, i palazzi governativi di Whitehall e il Parlamento di Westminster. Una ventina di tir e camion che hanno bloccato il traffico (limitato, causa Covid) per qualche ora. Su uno degli automezzi c'era scritto a caratteri cubitali un messaggio eloquente: "Questo governo incompetente sta distruggendo il settore della pesca dei crostacei!". I presenti urlano: "Boris ci ha tradito!" , "Così non possiamo andare avanti", eccetera.

I pescatori ce l'hanno con il primo ministro britannico e il suo esecutivo per i problemi e i danni economici che stanno subendo dopo l'uscita definitiva del Regno Unito dall'UE la notte di Capodanno scorso. Pochi giorni prima, alla vigilia di Natale, Londra aveva raggiunto un complicato accordo con l'Ue sui rapporti futuri, firmando un'intesa di libero scambio, in teoria a zero dazi e tariffe, che aveva scongiurato l'epilogo, potenzialmente disastroso, di un "No Deal", ovvero di un divorzio disordinato da Bruxelles. Tuttavia, un accordo commerciale di libero scambio non ha gli stessi vantaggi e fluidità del mercato unico europeo cui il Regno Unito ha rinunciato con la Brexit, e questo è il problema principale per i pescatori scozzesi e inglesi, perché ora devono completare lunghe e complicate dichiarazioni doganali.

Il risultato è che, come lamentano ora, molto spesso il pesce va a male nel sempre più lungo (in media 8-10 ore in più) e complesso tragitto verso clienti e compratori europei, tanto che una barca britannica l'altro giorno ha deciso di scaricare il pescato direttamente nei Paesi Bassi, invece di tornare in patria e spedirlo. Alcune aziende ittiche in Scozia (ma anche del nord dell'Inghilterra) sinora hanno già avuto perdite per migliaia, se non decine di migliaia, di euro e rischiano di chiudere. Oltre all'intoppo principale delle dichiarazioni doganali, c'è l'ulteriore complicazione del fatto che, causa Brexit, molte aziende e clienti europei hanno preventivamente rimandato e congelato i loro acquisti dal Regno Unito, proprio per timore di code e ritardi, e quindi gli acquirenti sono molti di meno.

"È anche colpa della crisi del Covid", si giustifica il premier Johnson, che oggi ha risposto promettendo aiuti e sussidi per i pescatori "per superare questo momento difficile": "Abbiamo pronto un fondo da 23 milioni di sterline", circa 26 milioni di euro, "e risarciremo i lavoratori del settore ittico coinvolti fino a quando la situazione sarà tornata alla normalità", ha assicurato il premier. Un'offerta che per ora calma gli animi dei pescatori, ma resta il dilemma di fondo: si tornerà mai alla fluidità del mercato unico europeo per loro? Oppure le loro attività riusciranno a trovare sfogo in altri mercati mondiali?

Per ora no, e il paradosso è che in Scozia circa il 90% dei pescatori nel 2016 al referendum  per la Brexit, con la motivazione di poter pescare senza più i limiti del mercato comune europeo, che imponeva un sistema di quote per cui la pesca nelle acque "sovrane" di ogni Paese veniva ripartita tra i vari stati membri dell'area e così i pescatori britannici in realtà potevano mantenere solo una quota pari al 30-40% dei pesci dei loro mari. Una delle promesse della Brexit  era proprio quella di riacquistare il controllo totale delle acque ma in realtà non si è avverato nemmeno questo, stando all'accordo Uk-Ue raggiunto in extremis a fine 2020. 

Londra pretendeva che i pescatori europei, dopo la Brexit del 1 gennaio, riconsegnassero o pagassero inizialmente l'80% del pescato in acque britanniche. Poi la richiesta, col passare dei mesi e vista la estrema difficoltà nel trovare un'intesa, è scesa addirittura al 35%. Bruxelles non si è smossa dal 20% e comunque per un periodo di transizione di almeno sei anni, contro le iniziali richieste di Londra che prevedevano una revisione ogni 12 mesi dell'accesso dei pescatori europei in acque britanniche. Alla fine, i due Paesi sono venuti incontro a un 25% scarso di quote da restituire agli inglesi da parte dei pescatori europei e una transizione concessa a questi ultimi di 5 anni e mezzo prima che Londra riprenda il pieno controllo delle sue acque. Insomma, un brutto colpo per i pescatori scozzesi e in generale britannici.

La pesca è stato uno stallo enorme e quasi assurdo dei lunghissimi negoziati della Brexit, dato che vale lo 0,1% del Pil britannico e "soli" 650 milioni di mercato annuale. Ma è un argomento estremamente patriottico, per Johnson in quanto soddisfare i tanti pescatori scozzesi sarebbe stato un modo per evitare la furia indipendentista di Edimburgo, ma anche per Macron e altri Paesi come Belgio e Olanda che vogliono proteggere i loro pescatori del Nord che rischiano di perdere accesso alle acque britanniche ricchissime di pesce. Visto come stanno andando le cose, è probabile che l'ondata indipendentista in Scozia, già ai massimi, ora possa acquistare ancora più potenza.

https://www.repubblica.it/esteri/2021/01/18/news/regno_unito_scozia_brexit_protesta_pescatori-283142292/amp/

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Adesso si va sul pesante:

Londra non riconosce lo status diplomatico all'ambasciata Ue: è scontro

La decisione del governo Johnson appena tre settimane dopo l'uscita del Regno Unito dall'Unione. L'irritazione di Bruxelles: "È un pericoloso precedente"

LONDRA - A pochi giorni dalla concretizzazione della Brexit, c’è il primo caso diplomatico tra Regno Unito ed Unione Europea. Perché Londra, ed è passato oramai un anno dall'accordo di divorzio della Brexit, non vuole riconoscere il pieno status diplomatico al primo ambasciatore dell’Unione Europea nella capitale britannica, João Vale de Almeida, e al suo staff di 44 persone. In cambio è disposta a concedere uno statuto e una immunità limitati

https://www.repubblica.it/esteri/2021/01/21/news/londra_non_riconosce_lo_status_diplomatico_all_ambasciata_ue_e_scontro-283645921/

Londra si 'vendica' dei problemi alla frontiera: negato status di diplomatico all’ambasciatore Ue

Per il Regno Unito non è giusto dare al rappresentante di Bruxelles i diritti e le immunità concesse agli altri ambasciatori perché l'Europa non è uno Stato nazionale. Ma altri 142 Paesi lo fanno

https://www.google.com/url?sa=t&source=web&rct=j&url=https://amp.europa.today.it/attualita/londra-vendica-frontiera-diplomatico-ambasciatore-ue.html&ved=0ahUKEwjzrdHO_q7uAhVIiIsKHRE7D_IQyM8BCDQwAQ&usg=AOvVaw2LsDEnhgpcZSsF7yPZ7WkJ&ampcf=1

 

https://www.google.com/amp/s/www.tpi.it/esteri/londra-non-riconosce-status-diplomatico-ambasciatore-ue-20210121731012/amp/

È un precedente pericolo che potrebbe ritorcersi alla fine  contro...... c'è Gibilterra, le Isole del Canale, le Falkland, ...... attenzione a ciò che si fa altri poi ci si fa male!

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Altri cavilli....

Brexit, c’è un problema: gli autotrasportatori non vogliono lavorare con le aziende britanniche

Attraversare la Manica è una faccenda da un’oretta, in traghetto. Non dovrebbe essere difficile. Eppure, di questi tempi, trovare un autotrasportatore europeo che voglia fare il viaggio, è faccenda complicata. 

Secondo il Guardian: “i trasportatori e le società di trasporto dell’UE stanno voltando le spalle alle attività del Regno Unito perché viene loro chiesto di fornire decine di migliaia di sterline in garanzie per coprire l’IVA o potenziali spese all’arrivo in Gran Bretagna. Un camion con un carico di 200.000 sterline-scrive il giornale britannico- avrebbe bisogno di contanti o di un documento di garanzia finanziaria per 40.000 sterline di IVA: un onere significativo per le società di trasporto”

https://www.google.com/amp/s/it.businessinsider.com/brexit-ce-un-problema-gli-autotrasportatori-non-vogliono-lavorare-con-le-aziende-britanniche/amp/

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Verso l'unificazione dell'Irlanda ?

Brexit spacca il Regno Unito: dopo la Scozia anche l'Irlanda del Nord vuole voto sull’indipendenza

Belfast vuole il diritto di esprimersi sulla possibilità di riunificare l'isola. Secondo la gran parte dei britannici, gli scozzesi lasceranno la Gran Bretagna entro i prossimi dieci anni

La Brexit sta facendo scricchiolare la stabilità del Regno Unito con l'indipendentismo anti-britannico che rischia di spaccare in tre il Paese dopo l’agognata uscita dall’Unione europea. È quanto emerge dai nuovi sondaggi condotti nelle quattro nazioni riuniote sotto la bandiera dell'Union Jack. Dagli ultimi dati emerge che oltre un cittadino su due dell’Irlanda del Nord (il 51% degli intervistati) vuole un referendum entro i prossimi cinque anni che offra alla popolazione della parte britannica dell’isola la possibilità di scegliere se unirsi alla Repubblica d’Irlanda, e passare così dal Governo di Londra a quello di Dublino. La mossa consentirebbe a Belfast - in un colpo solo - di abbandonare il Regno Unito e rientrare nell’Unione europea. 

Deciderebbero gli indecisi

Nonostante l’evidente occasione di riunificare l’isola, divisa in due dalla storica indipendenza raggiunta da Dublino nel 1922, la maggioranza relativa degli irlandesi del nord sembra ancora fedele però alla corona britannica. Secondo il sondaggio commissionato dal Sunday Times, il 47% degli intervistati vuole ancora rimanere nel Regno Unito, con il 42% a favore di un'Irlanda unita. Nell’eventuale referendum - richiesto dalla maggioranza degli intervistati - a fare da ago della bilancia sarebbero dunque gli indecisi, che ad oggi rappresentano circa l’11% dell’elettorato. 

Scozia sempre più decisa

Se l’unità dell’Irlanda sembra ancora un tema estremamente divisivo per l’elettorato, più chiara sembra la volontà degli scozzesi di lasciare il Regno Unito. Il sondaggio ha infatti rilevato che il 49% degli elettori scozzesi sostiene l'indipendenza da Londra, contro un 44% di contrari. Tolti gli indecisi, un eventuale referendum oggi finirebbe con il 52% di favorevoli allo Stato scozzese. Ma più che l’opinione degli scozzesi, quella che fa impressione è la convinzione del resto dei britannici sull’addio di Edimburgo: in tutte e quattro le nazioni britanniche, la maggioranza degli elettori si aspetta che la Scozia abbandoni il Regno Unito entro i prossimi 10 anni. In Galles, dove invece il sostegno all'indipendenza è sempre stato più debole, solo il 23% degli elettori è favorevole a lasciare il Regno Unito, mentre a chiedere un referendum è il 31% degli intervistati. 

https://amp.europa.today.it/attualita/brexit-regnounito-scozia-irlanda-indipendenza.html

Il Regno Unito in pezzi. L'Irlanda si sogna unita, la Scozia vuole lasciare

Sondaggio: in Ulster: il 51% vuole un unico Stato con Dublino. Edimburgo prepara il referendum

È un Regno Unito sempre più spaccato quello che sta prendendo forma sulla spinta della pandemia e della Brexit. L'ennesima prova è stata fornita ieri dal Sunday Times che ha commissionato un'indagine statistica sui sentimenti politici delle quattro nazioni. E che accanto ai malumori di lunga data che serpeggiano oltre il vallo di Adriano, evidenzia un fatto relativamente nuovo: la maggioranza in Irlanda del Nord sostiene ora un referendum sull'unità dell'isola.

Prevista dagli accordi di pace del venerdì santo che misero fine ai troubles, la consultazione popolare per decidere del futuro delle 9 contee dell'angolo nord orientale dell'Irlanda (geografica) è sostenuto dal 51% degli intervistati, a fronte del 44% di contrari. È ancora consistente la maggioranza di coloro che preferiscono lo status quo con Belfast legata a Londra anziché a Dublino: il 47% contro il 42% di repubblicani. Tuttavia il rapporto di forza si inverte se si guardano le preferenze degli under 45 che, anche se di poco, preferiscono un'Irlanda unita (47 contro il 46%). L'elemento principale alla base della scelta dei più giovani è la Brexit. L'Irlanda del Nord nel 2016 ha votato a favore della permanenza in Europa, conscia più di ogni altra nazione del Regno delle difficoltà economiche e politiche che sarebbero scaturite dall'addio a Bruxelles. La parte della popolazione più dinamica e intraprendente, ma anche economicamente più esposta, accarezza il sogno di ritornare nell'Ue. I contrari a un'Irlanda unita sono invece la maggioranza tra gli over 45, la fascia della popolazione più preoccupata dalle strutture sanitarie offerte dal Paese in cui vivono: se il servizio sanitario inglese assicura una copertura universale e relativamente efficiente, ben peggiori sono i servizi offerti dalla repubblica irlandese. Ciononostante la maggioranza degli intervistati, 48% contro il 44%, ritiene che la spinta verso l'unificazione sia inarrestabile e che entro 10 anni Dublino governerà anche su Belfast e dintorni.

Ma se l'Irlanda del Nord potrà rappresentare un problema futuro, l'attenzione del governo inglese è oggi rivolta a Edimburgo, da dove da mesi si registrano nette maggioranze a favore dell'indipendenza scozzese. L'ultima registrata ieri dal Times si attesta al 49% contro il 44% dei contrari. Oltre alla Brexit è qui importante un altro fattore: la gestione della pandemia. La sanità rientra tra le competenze dalle singole nazioni del Regno e il confronto tra l'operato del governo Johnson in Inghilterra e quello di Nicola Sturgeon in Scozia è a tutto vantaggio della leader degli indipendentisti che ha fatto un buon lavoro per il 61% degli intervistati, contro il 22% dell'inglese. Johnson ha un'unica carta a disposizione per poter invertire il trend, la campagna vaccinale con cui portare il Paese al di fuori del tunnel. Le prime settimane sono state molto positive, con quasi 6.5 milioni di persone che hanno ricevuto la prima dose e 500mila che hanno avuto anche il richiamo. La stampa applaude, Johnson ha imparato a mantenere un profilo comunicativo prudente, i sondaggi sono in leggera ripresa. Ma tutto ciò può non bastare per contenere la valanga indipendentista alle elezioni scozzesi di maggio che Sturgeon sta trasformando in un mandato per un secondo referendum. E se Londra dovesse continuare a negarlo è pronta la carta Catalogna, a favore della quale ha votato sabato il partito nazionale scozzese: un referendum illegale organizzato scavalcando Downing Street, competente sulle questioni costituzionali.

https://amp.ilgiornale.it/news/politica/regno-unito-pezzi-lirlanda-si-sogna-unita-scozia-vuole-1919084.html

 

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Poi c'è un'ipotesi azzardata, priva di logica, ma suggestiva: United Republic of Scotland and Northern Ireland.

È quasi impossibile, ma è simpatica l'idea che qualunque forma di governo debba essere sempre un'unione.

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La Brexit costa, Mastercard quintuplica le commissioni sulle carte britanniche per gli acquisti in Ue

In Europa queste tariffe hanno un tetto che però adesso non vale più per il Regno Unito e quindi l'azienda ha deciso di aumentare i costi dei suoi servizi che ricadranno su aziende e cittadini

Addio tetti imposti dall'Ue

L'ultima conseguenza è che la Masterdard ha deciso di aumentare di oltre cinque volte le commissioni sulle proprie carte in Gran Bretagna per acquisti effettuati da aziende con sede nell'Unione europea. Entrambe le principali compagnie di pagamento, Mastercard e Visa, impongono costi di utilizzo dei propri servizi a tutti coloro che effettuano pagamenti utilizzando i propri circuiti, ma l'Unione europea ha introdotto un tetto a questi costi nel 2015, tagliando di fatto gli introiti delle due compagnie di diverse centinaia di milioni di euro ogni anno. Come racconta il Financial Times Mastercard ha approfittato del fatto che il tetto ai costi di utilizzo non si applica più alle transazioni fatte dal Regno Unito in seguito alla Brexit, dato che i pagamenti tra Londra e l'Unione europea sono ora definiti come "interregionali". A partire dal 15 ottobre 2021 pertanto, la compagnia imporrà l'1,5 per cento di costo su ogni transazione fatta con carta di credito dal Regno Unito verso l'Unione europea, cinque volte superiore all'attuale 0,3 per cento. Sulle carte di debito invece, il costo salirà dallo 0,2 all'1,15 per cento. La modifica annunciata si applicherà alle vendite online presso negozi e attività commerciali ma non dovrebbe applicarsi agli acquisti fatti di persona.

Costi scaricati sui consumatori

I costi delle transazioni sono solitamente imposti ai commercianti ma secondo gli esperti, verranno scaricati inevitabilmente sui consumatori, aggiungendosi alle difficoltà viste sinora nel fare acquisti su internet da aziende con sede nell'Ue con i prezzi che sono aumentati a causa del ritorno delle dogane. I costi si applicheranno non solo ai beni, ma anche ai servizi forniti da aziende basate nell'Ue. Callum Godwin, capo economista di Cmspi, una società di consulenza sui pagamenti globali, ha detto al quotidiano britannico che aziende come compagnie aeree, hotel, autonoleggi e gruppi di viaggio saranno tra i più colpiti dalla mossa, perché in molti casi "il consumatore si trova nel Regno Unito e il commerciante si trova nell'Ue". Le maggiorazioni si applicheranno ad esempio quando un britannico vorrà prenotare online un albergo per le sue vacanze in Grecia o prendere un'auto in affitto per il suo viaggio in Spagna. IN qusto modo saranno colpiti settori che sono già stati colpiti dai lockdown e non possono permettersi ulteriori perdite. Il principale concorrente di Mastercard, Visa, non ha ancora annunciato alcun cambiamento nei propri costi di utilizzo, ma non ha escluso questo possa accadere in futuro.

https://amp.europa.today.it/lavoro/brexit-mastercard-commissioni-britannici.html

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Perché i pescatori britannici sono in crisi dopo la brexit

Affonda il prezzo del pesce catturato in acque britanniche, che perde la metà del suo valore nel solo mese di gennaio, ossia dall'uscita del Regno unito dall'Unione europea.

È il contrappasso per un settore euroscettico come quello ittico britannico.

 

E infatti cominciano a esserci ripensamenti proprio tra chi aveva pensato che la parola di Nigel Farage avrebbe moltiplicato, se non proprio i pesci, almeno i loro proventi.

È la dura legge delle prede più astute che chi pesca dovrebbe ben conoscere: mai abboccare alle esche succulente.

invece, si lamenta Simon Driver:

"penso proprio che se avessimo saputo prima che sarebbe andata a finire così avremmo votato in modo diverso. I pescatori avrebbero guardato alle cose in una prospettiva diversa".

La famiglia di Simon e di suo padre Dave pesca nelle acque del Devon (Sud-ovest dell'Inghilterra) dal XVI secolo. Genitore e figlio pensavano che la brexit fosse un'occasione di quelle che capitano una volta a generazione, che avrebbe riparato ciò che loro consideravano la perversione della Politica comune della pesca dell'Unione europea.

Dave Driver non cela la sua frustrazione: "e belavano che con quel yes alla brexit noi pescatori avremmo avuto una vita migliore con più pesce e un controllo sulle nostre acque. Questo ha spinto molti elettori a votare contro l'Unione europea. È andata male. Hanno mentito a tutti quelli che speravano che l'industria della pesca sarebbe migliorata. Lo avevano scritto sugli autobus di Londra: 'combatteremo per la pesca !' Non hanno fatto un bel niente".

L'imposizione di certificati di cattura, e le dichiarazioni doganali hanno causato ritardi alle frontiere, questo porta gli acquirenti europei a snobbare i prodotti ittici britannici perché arrivano troppo tardi.

Un altro pescatore, Ben Vass, per arrivare alla fine del mese ha messo alla porta due membri dell'equipaggio e ha convertito l'imbarcazione da peschereccio per il mercato europeo a dragamolluschi per i consumatori asiatici. E dice:

"la brexit ha complicato l'esportazione dei nostri prodotti. L'Unione europa acquistava il nostro pesce, ma ora ha smesso perché il pesce (a causa dei ritardi burocratici) si deteriora. Così abbiamo perso il nostro mercato principale".

I pescherecci battenti bandiera del Regno unito danno lavoro a circa dodicimila persone. La maggioranza vede tormenta all'orizzonte:

"l'80% delle nostre vendite dovrebbero essere destinate all'Unione europea, ma adesso è tutto bloccato. I nostri prezzi sono crollati. Ormai trattiamo solo pesce congelato. Quindi è spazzatura inutile per il momento".

https://it.euronews.com/amp/2021/01/26/perche-i-pescatori-britannici-sono-in-crisi-dopo-la-brexit

Di occasioni per fermare la Brexit ce ne sono state parecchie: un referendum e due elezioni legislative, quindi poche ciance.

Avete giocato d'azzardo e vi è andata male: questo succede a chi vuole guadagnare molto scommettendo.

E la scusa che non sapevate molto sulle conseguenze non è punto a vostro favore: 

1- prima di scegliere ci si deve informare (se poi sbagli perché non lo hai fatto o se lo hai fatto in modo errato, sono poi fatti tuoi)

2- dopo il referendum ci sono stati circa 4 anni e due elezioni , quindi chi non ha capito cosa ha votato o chi voleva rimediare, di tempo per informarsi in modo più approfondito ne ha avuto.

 

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Perché i pescatori britannici sono in crisi dopo la brexit

Affonda il prezzo del pesce catturato in acque britanniche, che perde la metà del suo valore nel solo mese di gennaio, ossia dall'uscita del Regno unito dall'Unione europea.

È il contrappasso per un settore euroscettico come quello ittico britannico.

 

E infatti cominciano a esserci ripensamenti proprio tra chi aveva pensato che la parola di Nigel Farage avrebbe moltiplicato, se non proprio i pesci, almeno i loro proventi.

È la dura legge delle prede più astute che chi pesca dovrebbe ben conoscere: mai abboccare alle esche succulente.

invece, si lamenta Simon Driver:

"penso proprio che se avessimo saputo prima che sarebbe andata a finire così avremmo votato in modo diverso. I pescatori avrebbero guardato alle cose in una prospettiva diversa".

La famiglia di Simon e di suo padre Dave pesca nelle acque del Devon (Sud-ovest dell'Inghilterra) dal XVI secolo. Genitore e figlio pensavano che la brexit fosse un'occasione di quelle che capitano una volta a generazione, che avrebbe riparato ciò che loro consideravano la perversione della Politica comune della pesca dell'Unione europea.

Dave Driver non cela la sua frustrazione: "e belavano che con quel yes alla brexit noi pescatori avremmo avuto una vita migliore con più pesce e un controllo sulle nostre acque. Questo ha spinto molti elettori a votare contro l'Unione europea. È andata male. Hanno mentito a tutti quelli che speravano che l'industria della pesca sarebbe migliorata. Lo avevano scritto sugli autobus di Londra: 'combatteremo per la pesca !' Non hanno fatto un bel niente".

L'imposizione di certificati di cattura, e le dichiarazioni doganali hanno causato ritardi alle frontiere, questo porta gli acquirenti europei a snobbare i prodotti ittici britannici perché arrivano troppo tardi.

Un altro pescatore, Ben Vass, per arrivare alla fine del mese ha messo alla porta due membri dell'equipaggio e ha convertito l'imbarcazione da peschereccio per il mercato europeo a dragamolluschi per i consumatori asiatici. E dice:

"la brexit ha complicato l'esportazione dei nostri prodotti. L'Unione europa acquistava il nostro pesce, ma ora ha smesso perché il pesce (a causa dei ritardi burocratici) si deteriora. Così abbiamo perso il nostro mercato principale".

I pescherecci battenti bandiera del Regno unito danno lavoro a circa dodicimila persone. La maggioranza vede tormenta all'orizzonte:

"l'80% delle nostre vendite dovrebbero essere destinate all'Unione europea, ma adesso è tutto bloccato. I nostri prezzi sono crollati. Ormai trattiamo solo pesce congelato. Quindi è spazzatura inutile per il m

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Ecco un'altra bella cosa che ha partorito la brexit: il ritorno dell'odio nell'Irlanda del Nord. Complimenti.

Brexit, l'Irlanda del Nord sospende controlli ai porti: minacce al personale

Gli incaricati delle verifiche sulle merci destinate a entrare nella Ue sono nel mirino degli estremisti unionisti. La condanna di Bruxelles

Qualcosa di preoccupante è accaduto la scorsa notte in Irlanda del Nord e torna alla mente la tensione dei giorni più bui della guerra civile tra cattolici e protestanti, repubblicani e unionisti sull'isola. La notizia è che da ieri, presso i porti di Belfast e Larne, non ci sono più controlli su animali e beni alimentari in arrivo dalla Gran Bretagna, come prevede l'accordo Brexit firmato da Boris Johnson e Unione europea. Motivo: le minacce, da parte di unionisti britannici estremisti, che avrebbero ricevuto gli ispettori, gli impiegati e lo staff doganale impiegato alla frontiera. Anche l'Ue oggi ha ritirato il suo personale "per ragioni di sicurezza".

Riguardo alle minacce, negli ultimi giorni sono spuntati graffiti minatori proprio nell'area di Larne, a circa 30 chilometri a nord-est dalla capitale Belfast, in cui i lavoratori sono stati definiti come "obiettivi". Storicamente, gli estremisti o i terroristi repubblicani e unionisti hanno spesso comunicato sui muri ed è per questo che le autorità hanno fatto scattare l'allarme, ritirando 12 impiegati dello staff alla frontiera che controllano le merci ai porti di Belfast e Larne, dopo "un'escalation di un comportamento sinistro e minaccioso durante le ultime settimane". Un portavoce del ministero dell'Ambiente nordirlandese ha aggiunto al Guardian che "la situazione verrà tenuta sotto controllo e speriamo di poter riprendere i controlli doganali al più presto".

La notizia è allarmante perché i controlli preventivi a merci, alimenti e animali da Gran Bretagna a Irlanda del Nord sono un pilastro dell'accordo della Brexit tra Uk e Ue, dopo l'uscita di Londra da quest'ultima. Un pilastro perché in questo modo si preserva la pace, evitando di reinstallare una pericolosa frontiera tra le due Irlande e lasciando viaggiare liberamente le merci tra le due nazioni, ma anche per preservare l'integrità e la bontà del mercato unico europeo, al quale il Regno Unito non appartiene più.

Quando Londra si trovava nel mercato unico europeo, fino al 31 dicembre scorso, tutti questi problemi infatti non c'erano: merci, animali e alimenti viaggiavano liberamente tra Gran Bretagna, Irlanda del Nord e Repubblica d'Irlanda, perché tutte appartenevano al Mercato unico e all'Unione doganale europea. La Brexit ha frantumato questo equilibrio e dunque Johnson si è impegnato nell'accordo con gli europei a controllare preventivamente merci e beni che viaggiano dalla Gran Bretagna (ossia Inghilterra, Scozia e Galles) all'Irlanda del Nord, per i motivi di cui sopra.

Il problema è che questo nuovo regime non pare essere accettato dagli unionisti estremisti in Irlanda del Nord, che considerano tutto ciò la prova della spaccatura inesorabile del Regno Unito, di un'Irlanda del Nord "sempre più lasciata a se stessa" (l'accordo firmato da Johnson va oggettivamente in questo senso) e quindi sempre più destinata a riunirsi con la cattolica Repubblica d'Irlanda, uno scenario esecrato dai protestanti fondamentalisti. Di qui le minacce da parte degli estremisti.

Polemiche sono state sollevate verso il governo Johnson, perché in passato si è rifiutato di controllare le merci in questione già in Gran Bretagna, e non in Irlanda del Nord, offrendo così, secondo i suoi critici, un argomento agli estremisti. Inoltre, sempre l'esecutivo britannico in passato ha minacciato di non rispettare l'accordo europeo sui controlli doganali preventivi da Gb a Belfast con l'obiettivo di strappare all'Ue un'intesa commerciale più favorevole. Una retorica aggressiva verso l'Europa che difficilmente ha aiutato ad abbassare i toni.

La notizia dello stop ai controlli a Belfast e Larne arriva subito dopo giorni di tensione tra Regno Unito ed Unione europea che hanno coinvolto direttamente l'Irlanda del Nord. Quando per esempio, due giorni fa, l'Ue ha invocato lo stop all'export di vaccini fuori dall'Ue, ha anche considerato l'attivazione dell'articolo 16 del Protocollo per l'Irlanda del Nord dell'accordo Brexit, ossia la decisione unilaterale di reimporre i controlli su alcune merci alla frontiera, in tal caso le dosi di vaccino. Una mossa che oltre a radicalizzare i sentimenti in Irlanda del Nord e dei suoi partiti unionisti e repubblicani (Sinn Féin), ha scatenato sdegno e indignazione da parte di tutti i partiti politici britannici, oltre a un tweet estremamente critico verso l'Europa persino dell'Arcivescovo di Canterbury. Anche il "Taoiseach", ossia il premier irlandese Michéal Martin, si è detto sconcertato, perché l'Ue - prima che questa facesse una vertiginosa marcia indietro - non lo aveva neanche avvertito.

Oggi in Parlamento a Westminster il superministro della Brexit Michael Gove ha detto che, dopo quanto accaduto nei giorni scorsi, "la fiducia è stata erosa" nei confronti dell'Ue, "sono stati fatti danni e ora servono azioni urgenti per rimediare". Il timore ora, è che la tensione in Irlanda del Nord, a Brexit inoltrata, possa salire sempre di più.

https://www.repubblica.it/esteri/2021/02/02/news/irlanda_del_nord_minacce_da_unionisti_a_ispettori_doganali_saltano_i_controlli_sulla_merce_proveniente_dal_regno_unito-285624253/

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Ormai è ... Pacifico...che i brexiters sognano la rinascita dell'impero. Ma ci riusciranno viste le doti e la lungimiranza dell'attuale classe politica al governo?

 

GB. LE SCELTE POST BREXIT DELLA POLITICA ESTERA BRITANNICA NELL’INDO PACIFICO

Con l’uscita ufficiale del Regno Unito dall’Ue, il premier Boris Johnson prevede la creazione di una nuova coalizione di Paesi democratici basata sul G7: Canada, Francia, Germania, Italia, Giappone, Usa, Regno Unito, con l’aggiunta di Australia, India e Corea del Sud per creare fornitori alternativi di apparecchiature 5G e altre tecnologie quindi ridurre il dominio della Cina sull’infrastruttura digitale globale.
Il Regno Unito sta valutando seriamente di aderire all’accordo CPTPP (Comprehensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership). I membri del CPTPP sono: Australia, Brunei, Canada, Cile, Giappone, Malesia, Messico, Nuova Zelanda, Perù, Singapore e Vietnam. L’adesione cerca così di frenare l’influenza economica della Cina nell’area dell’Asia-Pacifico.
Il Regno Unito sta recuperando inoltre terreno nella sfera militare, rafforzando la cooperazione in materia di sicurezza con diversi Paesi dell’Indo-Pacifico, tra cui il Giappone e i membri de FPDA (Five Power Defense Arrangements) che riunisce il Regno Unito con quattro membri del Commonwealth situati nell’area dell’Indo-Pacifico dell’est asiatico che sono Australia, Malesia, Nuova Zelanda, Singapore.
Attraverso i suoi impegni l’FDPA e il Five Eyes con Australia, Canada, Nuova Zelanda, Usa con in più il Regno Unito che mantiene un punto d’appoggio strategico nell’Indo-Pacifico. Il Regno Unito continua a mantenere un avamposto militare in Brunei e uno navale a Singapore.
Le relazioni sino-britanniche si sono drasticamente deteriorate dallo sviluppo della crisi politica a Hong Kong del 2019. Inoltre il Regno Unito è fuori dall’accordo concordato in linea di principio lo scorso mese dall’Ue-Cina sugli investimenti.
I piani del Regno Unito per un riequilibrio della politica estera post-Brexit verso l’Indo-Pacifico non saranno immediati. Per il momento la Gran Bretagna rimarrà inevitabilmente orientata strategicamente verso il continente europeo e i suoi partner della NATO (North Atlantic Treaty Il governo Johnson ha intenzione di avere una presenza più visibile e attiva nella regione dell’Indo-Pacifico, anche se questa decisione dovrà fare i conti con Cina e India che sono le due maggiori potenze della regione e che sicuramente non vedono di buon occhio la presenza britannica nell’area per via del suo passato di potenza coloniale.
Inoltre il Regno Unito ha ovvie limitazioni geografiche e finanziarie per sostenere una presenza permanente nell’area dell’Indo-Pacifico insieme ai suoi attuali impegni militari.

https://www.notiziegeopolitiche.net/gb-le-scelte-post-brexit-della-politica-estera-britannica-nellindo-pacifico/

Perché il Regno Unito punta a un accordo commerciale con Canada e Asia-Pacifico

Il Regno Unito diventerà il dodicesimo membro del Comprehensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership (Cpttp), l’accordo economico-commerciale che include il Canada e 10 Paesi della regione Asia-Pacifico

Il Regno Unito potrebbe presto diventare il dodicesimo membro del Comprehensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership (Cpttp), l’accordo economico-commerciale che include il Canada e 10 Paesi della regione Asia-Pacifico e che somma il 13% del Pil mondiale. La notizia della richiesta formale di accesso da parte del Ministro per il Commercio Internazionale, Liz Truss, fa seguito a mesi di dichiarazioni interessate di Londra, che vede nel Cpttp una zona di interesse non solo commerciale ma geopolitico nello scacchiere internazionale. Nell’intenzione di Truss – che oggi chiederà ufficialmente ai ministri del commercio giapponese e neozelandese di unirsi alla partnership – le negoziazioni dovrebbero iniziare già nel 2021.

Londra celebra un anno dalla Brexit oggi e lo fa con un annuncio che mostra pienamente la sua nuova strategia competitiva sui mercati globali. Nei circoli pro-Brexit infatti, l’idea che l’Asia-Pacifico sia l’area su cui concentrarsi era in voga sin dai tempi del referendum per uscire dall’Unione Europea. Il Regno Unito – secondo i Brexiteers – ritrovata la sua indipendenza nella politica commerciale, avrebbe dovuto giocare un ruolo decisivo nel destino del nuovo continente emergente – l’Asia – una volta liberatasi dai vincoli di Bruxelles, titolare della politica commerciale di tutto il blocco Ue. Una strategia sottolineata dallo status di “Dialogue Partner”, acquisito da Londra anche all’interno dell’Association of Southeast Asian Nations (Asean) proprio la scorsa settimana, e che potrebbe, in futuro, vedere lo Uk come membro anche di questo organismo.

Attualmente solo il 10% delle esportazioni britanniche finisce negli 11 Paesi del Cpttp (Brunei, Malaysia, Singapore, Vietnam, Giappone, Australia, Nuova Zelanda, Canada, Cile, Messico e Perù), ma il Governo Tory vede questa come un’area ad alto potenziale di sviluppo e per questo la membership potrebbe creare “enormi possibilità di business per le aziende Uk”, secondo Truss.

Accedere – ha proseguito la titolare del dicastero del Commercio – significherebbe potere esportare le nostre auto e il nostro whisky a tariffe più convenienti, e una migliore penetrazione per i nostri fornitori di servizi in un mercato in rapida espansione. In futuro – conclude la nota del PfIT – i grande mercati di merci e di capitali saranno in Asia-Pacifico, così come le nuove classi-medie che le nostre imprese dovranno intercettare”. Gli obiettivi, lo stato delle negoziazioni, e i processi consultivi riguardo l’adesione al Cpttp saranno pubblicati e aggiornati costantemente sul portale del Governo britannico. La Camera dei Lords intanto ha già iniziato l’esame parlamentare dell’accordo, per evidenziare gli aspetti positivi e negativi di una eventuale partecipazione.

Il prodotto interno lordo combinato degli 11 è pari a 9 trilioni di dollari, e il 95% degli scambi commerciali tra i Paesi del Trans-Pacific Agreement avvengono senza l’imposizione di dazi o altre restrizioni. Il Cpttp attende altre richieste di adesione, peraltro. A gennaio, Gao Feng, un portavoce del ministero del Commercio cinese, ha annunciato l’intenzione di Pechino di aderire alla partnership, così come pare che la nuova amministrazione americana Democratica stia riconsiderando la possibilità di fare parte del blocco dopo che Donald Trump ritirò gli Usa nel 2017 definendo l’accordo “pessimo per gli Stati Uniti”.

https://www.startmag.it/mondo/perche-il-regno-unito-punta-a-un-accordo-commerciale-con-canada-e-asia-pacifico/

 

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Effetto Brexit, a gennaio calo del 68% dell’export dal Regno Unito alla Ue

Un calo del 68% nel mese di gennaio 2021 rispetto allo stesso mese del 2020. Sono gli effetti della Brexit sulle esportazioni dal Regno Unito verso l’Unione europea secondo i dati della Road Haulage Association che riunisce le aziende del settore del trasporto merci britannico. Che accusa il ministro dell’Ufficio di gabinetto Michael Gove di aver ignorato il grido d’allarme sulle difficoltà che l’accordo in extremis sulla Brexit avrebbe provocato. E il peggio potrebbe ancora dover arrivare, visto che a luglio scatteranno i controlli sulle importazioni.

La Road Haulage Association ha indicato il drammatico calo consultando i suoi membri internazionali e ha scritto una lettera al ministro Michael Gove lo scorso 1° febbraio, ricordando gli appelli andati inascoltati. Tra questi, quello sul numero degli agenti doganali addetti a controlli per l’export: sono 10mila, ma la Rha ne aveva chiesto il quintuplo. Un altro dato sottolineato dal direttore della Rha, Richard Burnett, è che accanto al calo delle esportazioni il 65-75% dei veicoli che arrivano dall’Ue devono tornare indietro vuoti, a causa delle merci bloccate dalla burocrazia in Gran Bretagna, dove molte aziende hanno addirittura fermato le esportazioni verso l’Unione. La maggior parte del traffico merci tra Europa e Regno Unito avviene attraverso i porti e non per via aerea, ricorda il domenicale Observer.

https://www.corriere.it/economia/aziende/21_febbraio_07/effetto-brexit-gennaio-calo-68percento-dell-export-regno-unito-ue-b48cd108-692a-11eb-9297-ace0084945d6.shtml

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Problemi per gli avvocati (ma di conseguenza anche per altri professionisti):

Dopo la Brexit agli avvocati italiani serve il «supervisore» inglese

Caduto il riconoscimento delle qualifiche, l’attività nel Regno Unito possibile solo con l’assistenza di un solicitor. Esame ad hoc per contenzioso, immobili e successioni

Le qualifiche

Ma il settore legale non è scampato a una delle conseguenze di Brexit: la fine del riconoscimento automatico e reciproco dei titoli, delle qualifiche e dell’esperienza professionale. Dal primo gennaio le direttive Ue in materia (2005/36/Ce, poi aggiornata da 2013/55/Ue) più le due direttive specifiche sul settore (98/5/Ce e 77/249/Cee) non sono applicabili nel Regno Unito. Un brusco allontanamento che porterà a un lavoro di riorganizzazione.

Un avvocato italiano o europeo, che finora poteva esercitare liberamente in Gran Bretagna registrandosi come european lawyer, ora da gennaio deve iscriversi all’albo dei foreign lawyer. Chi vuole esercitare attività legali riservate come contenzioso, vendite immobiliari o successioni dovrà sostenere l’esame di Stato di solicitor per ottenere la licenza.

«Un registered foreign lawyer non può svolgere attività di diritto inglese se non con la supervisione di un solicitor -, spiega Massimiliano Danusso, managing partner della sede di Londra di BonelliErede -. Saranno privilegiati gli avvocati italiani più lungimiranti che hanno pensato per tempo ad acquisire anche il titolo di solicitor e che potranno continuare a svolgere la loro attività come prima».

I più penalizzati sono gli avvocati inglesi in Europa, afferma Danusso, perché «saranno soggetti a 27 leggi nazionali diverse dei singoli Stati membri e inoltre potranno fornire consulenze solo sulla legge inglese, quindi per loro si prospetta una riduzione significativa dell’attività».

Assetto futuro ancora tutto da definire

«In diversi auspicavano un quadro chiaro e definitivo, invece è solo una cornice di riferimento -, spiega Gubitosi -. Siamo all’inizio di una nuova e ampia regolamentazione da creare. Nei prossimi mesi si andrà probabilmente anche ad affrontare il complesso tema delle qualifiche professionali».

Il nuovo regime inevitabilmente creerà difficoltà e barriere nuove. «Il sistema di regolamentazione renderà più complessi lo studio e lo svolgimento delle attività legali per alcuni operatori del settore -, afferma Gubitosi -. Sarà importante monitorare come istituzioni, università, studi legali e organizzazioni internazionali mitigheranno questa nuova fase con programmi di studio, di tirocinio e di pratica per giovani professionisti e studenti di legge».

La fine della libera circolazione, il mancato riconoscimento dei titoli e la stretta sull’immigrazione in Gran Bretagna penalizzeranno soprattutto i giovani. «Sia in termini di studi che di secondment di ragazzi italiani, prevedo una riduzione significativa degli scambi e anche delle posizioni -, afferma Danusso -. Londra aveva un’attrazione molto forte per i nostri giovani, ma ora offrirà meno possibilità. La Brexit è un danno significativo».

https://amp24.ilsole24ore.com/pagina/ADNtFqFB

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Ma anche le patenti di guida non sono rimaste fuori dai problemi sorti con la brexit:

Brexit, la patente britannica non vale più in Europa: nuovi esami obbligatori

Stop alla conversione «automatica» delle patenti britanniche: dal 1° gennaio non sono più considerate licenze di guida comunitarie. Fino a nuovi accordi

La Brexit pesa anche sulle patenti. Se n’è accorto chi ha una licenza di guida britannica ed, essendosi trasferito in Italia, deve convertirla in italiana: d’ora in poi verrà trattato come un qualsiasi cittadino extracomunitario e quindi dovrà rifare gli esami. Ma può salvarsi se aveva ottenuto l’abilitazione nel Regno Unito per conversione di una precedente patente italiana. Per il resto, bisognerà attendere gli sviluppi delle trattative diplomatiche e tecniche fra la Ue e la Gran Bretagna.

Normalmente, chiunque si stabilisca in uno Stato per oltre un anno deve prendere una patente di quello Stato: la circolazione “turistica” in un Paese diverso da quello di residenza è consentita al massimo per un anno consecutivo. E la regola generale è che per prendere una licenza di guida bisogna sottoporsi agli esami, come neopatentati qualsiasi. Ma ci sono eccezioni:

- in ambito Ue, dal 2014 si può mantenere la propria patente e comunque, per prendere la patente del nuovo Stato (cosa che rende più facile il rinnovo alla scadenza ed è obbligatoria entro due anni se la scadenza estera è superiore al massimo italiano o addirittura non esiste) non occorre rifare gli esami, ma basta chiedere la conversione, che non è altro che una pratica amministrativa di sostituzione del documento;

- in ambito extra-Ue, ci sono accordi bilaterali di reciprocità, con cui di volta in volta due Stati stabiliscono che le patenti dell’uno sono convertibili in licenze dell’altro e viceversa.

In passato (prima del 2013), anche in ambito Ue era necessario cambiare la patente in caso di trasferimento definitivo, per cui la conversione era obbligatoria. Poteva essere sostituita dal semplice riconoscimento della patente estera, i cui estremi venivano così annotati negli archivi del Paese di nuova residenza, cosa che facilitava il rinnovo alla scadenza e l’applicazione delle sanzioni accessorie sulla patente in caso di infrazione stradale.

https://amp24.ilsole24ore.com/pagina/ADg429HB

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Brexit, allarme di Elton John: "Rinegoziare le regole per i tour in Ue"

Continuano gli appelli degli artisti d'oltremanica. "Costi insostenibili in particolare per i giovani". Colin Greenwood (Radiohead): "Situazione tragica anche per le maestranze"

Come risultato della Brexit, gli artisti britannici che vogliono suonare in Europa ora avranno bisogno di visti, permessi di lavoro e carnet per le attrezzature per ogni Paese che visitano. È un incubo amministrativo che aumenta enormemente il costo dell'organizzazione di un tour europeo". Parola di Elton John. "È tempo che il governo britannico ammetta di non aver fatto abbastanza per le industrie creative durante i negoziati sulla Brexit e cerchi di rinegoziare la disposizione per i tour in Europa", gli fa eco il bassista dei Radiohead, Colin Greenwood.

I due musicisti britannici, attraverso il Guardian, hanno aggiunto la loro voce a quella di tanti altri colleghi come Roger Water, Robert Plant, Peter Gabriel, Sting e Brian May (oltre allo stesso Sir Elton) che sono intervenuti sulla questione con una lettera aperta pubblicata lo scorso 22 gennaio dal Times. Un duro atto di accusa contro il governo di Boris Johnson che non è riuscito a raggiungere un accordo con la Ue per consentire i tour senza visto da parte degli artisti d'oltremanica che esortano i ministri a rinegoziare l'accordo Brexit per evitare di danneggiare le carriere di una generazione di giovani performer che devono affrontare nuove pratiche burocratiche e costi per esibirsi nell'Ue. E la polemica si è ulteriormente inasprita dopo che il mese scorso l'Independent ha rivelato che il governo ha rifiutato un'offerta da parte dell'Ue che consente l'accesso ai tour senza visto per i musicisti.

Prima della Brexit i carnet doganali servivano solo per la Norvegia e la Svizzera", dice Greenwood: "Adesso invece andare a suonare in Europa è come andare a suonare in Sudamerica, dove ogni Paese ha i suoi sistemi per relazionarsi a una nazione straniera come lo è diventata la nostra".

"Una chitarra da 10 mila sterline ha bisogno di un carnet che ne costa 650 più Iva", spiega in concreto il bassista: "I costi di viaggio e alloggio erano già alti: le scartoffie e le spese extra necessarie dopo la Brexit aumenterebbero rapidamente per un'orchestra in tournée".

"La situazione in cui ci troviamo ora è ridicola. La musica è una delle più grandi esportazioni culturali della Gran Bretagna", incalza Elton John. "Ha contribuito con 5,8 miliardi di sterline all'economia britannica nel 2019, ma è stato escluso dai negoziati commerciali sulla Brexit quando altri settori non lo erano. I lavoratori di alcune professioni possono ancora viaggiare per affari senza richiedere un visto. Ma non musicisti".

"Non si tratta di me - spiega il baronetto - ma di garantire che gli artisti emergenti abbiano lo spazio per coltivare il proprio talento e ampliare e costruire il proprio pubblico. Abbiamo bisogno di una nuova generazione di superstar, anche perché una generazione di superstar - la mia generazione - sta invecchiando, andando in pensione e morendo".

E il bassista dei Radiohead invita a non pensare solo alle giovani band - le cui prospettive, in ogni caso, vengono definite "tragiche" - ma anche alle maestranze britanniche in generale, persone indispensabili per organizzare spettacoli dal vivo che "potrebbero trovare molto più difficile competere con le alternative offerte dalla Ue" e "potrebbero rendersi conto che non vale più la pena restare a lavorare qui".

"Ciò di cui i musicisti hanno bisogno ora è una soluzione a breve termine. Dovremmo creare un'organizzazione di supporto - propone Elton John - finanziata in parte dalla stessa industria musicale, in cui gli artisti che non hanno il tipo di infrastruttura di cui traggo vantaggio possono accedere ad avvocati e contabili per aiutarli a navigare nei problemi del tour creati dalla Brexit. La pandemia ha messo fine alla musica dal vivo nell'immediato futuro, quindi dovremmo usare la finestra di opportunità che abbiamo ora per impostare questo".

"È tempo che il governo britannico ammetta di non aver fatto abbastanza per le industrie creative durante i negoziati sulla Brexit - conclude Greenwood - e cerchi di rinegoziare le disposizioni per i tour in Europa".

https://www.repubblica.it/spettacoli/musica/2021/02/10/news/brexit_ue_tour_elton_john_radiohead_colin_greenwood-286883647/amp/

Quindi non spezziamo gli il cuore ( prima versione)

 

Modificato da ARES III
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Il diavolo veste Prada, ma gli stupidi vestono Brexit:

Brexit spinge Jd Sports a spostare la logistica in Ue

 

Jd Sports inizia a fare i conti con la Brexit e a valutare di prendere i primi provvedimenti. La scissione del Regno Unito dall’Unione europea fa infatti lievitare le spese del player britannico specialista nella moda sportiva, che denuncia 10 milioni di sterline (circa 11,3 milioni di euro) di extra costi, dall’entrata in vigore della norma (gennaio 2021), per la distribuzione e spedizione della merce diretta al continente.

“Hanno detto che abbiamo un accordo di libero scambio, ma in realtà non è così”, ha detto alla Bbc dall’executive chairman Peter Cowgill. “Se acquisti dall’Estremo Oriente e porti i prodotti nel Regno Unito e poi spedisci ai negozi, si applicano le tariffe”. La Brexit fino ad ora “è considerevolmente peggio del previsto”, ed è quindi probabile che Jd Sports debba aprire un nuovo centro di distribuzione all’interno dell’Unione Europea.

Come raccontato, il nuovo polo, che senza Brexit avrebbe potuto essere costruito nel Regno Unito, andrà ad occupare circa mille persone.

Quanto sollevato da Jd Sports, che di recente ha acquisito i retailer americani Shoe Palace e Dtlr, fa eco alla recente lettera inviata al primo ministro inglese Boris Johnson la quale racchiude il grido d’allarme di oltre 450 esponenti della filiera fashion inglese, che sollevano le preoccupazioni e le problematiche legate alla Brexit.

“È stato un disastro assoluto”, ha commentato Ben Taylor, co-fondatore del marchio britannico di maglieria Country of Origin, in merito al primo mese di Brexit. Nel periodo, il brand ha infatti registrato  un calo del fatturato europeo, mercato che genera il 30% degli ordini online, del 58% se paragonato ai livelli pre-scissione, a causa dei sovrapprezzi applicati ai prodotti.

“Stimiamo che i cambiamenti ci costeranno diversi milioni ogni anno”, ha detto Paul Smith. “Non è un accordo commerciale ‘libero’ in termini di costi e al momento dobbiamo pagare le tariffe e i dazi aggiuntivi per non scoraggiare i clienti dall’acquisto e per rimanere competitivi”.

https://www.pambianconews.com/2021/02/10/brexit-presenta-i-primi-conti-ai-brand-uk-jd-sports-sposta-la-logistica-in-ue-310242/

"I’ve a place for EVERYONE involved in these Brexit negotiations,” says Satan

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Modificato da ARES III
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