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IGNORED

Viaggio nel regno dei Parti


Cesare Augusto

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Caro George buongiorno, brutta esperienza quella di Crasso d’altro canto l’ambizione sfrenata, non supportata da valori morali, prim’ancora che materiali e sospinta dal solo desiderio  di accumulare ricchezze porta a questo…

He si! gli era andata bene con Spartaco e già in quell’occasione la spietatezza dimostrata nella eliminazione degli schiavi aveva suscitato anche nei contemporanei, se non  una qualche critica, almeno un certo “distinguo”…che dire: “chi male fa, mal fine aspetti” recita un vecchio adagio; oggi Caesar  saremo presso Orode, l’artefice del disastro romano a Carrae per verificare cosa accadde nel mondo partico dopo l’eliminazione del tanto odiato nemico.

La fine della prima guerra partica avvenne più o meno nel periodo in cui si consumò il contrasto tra Cesare e Pompeo ed in quell’occasione le simpatie della Partia furono per Pompeo anche se questi, avendo tradito apertamente e spudoratamente il patto che aveva contratto con loro, forse non meritava il loro favore.

Occorre però sottolineare lo spirito bellico del popolo Partico che riconosceva in Pompeo, per quanto spergiuro, un comandante audace e valido mentre di Cesare ricordava il contributo che aveva dato al tanto odiato Crasso, inviandogli in aiuto il figlio adottivo assieme alla migliore cavalleria gallica, o forse più semplicemente, non avendo avuto con lui un contatto diretto,  credevano meno nelle sue capacità militari.

Certo è che negli anni tra il 49 e 48 A.Ch non mancarono contatti tra Pompeo ed Orode per cercare di dar vita ad un vincolo di alleanza tra le due grandi potenze.

Pompeo operò una qualche apertura nel tentativo di far scoprire Orode,  per conoscere le vere intenzioni del Re,  soprattutto in merito all’aiuto che avrebbe potuto concedergli per porre fine alla guerra che aveva in corso con i suoi rivali interni.

Orode non si fece pregare e chiese esplicitamente a Pompeo,  in cambio dell’aiuto militare, la provincia della Siria.

Un’offerta di questo genere non sarebbe mai stata possibile da  accettare neanche per il più spregiudicato “Carrierista”; non era concepibile cedere ai “Barbari” parte del territorio conquistato da Roma  in cambio di un contingente straniero che lo aiutasse a regolare le sue querelle interne.

La rottura del negoziato irritò a tal punto Orode che per dare sfogo al suo disappunto  trattenne Hirro, l’inviato di Pompeo, come prigioniero.

Passato il momento Orode tornò tuttavia a considerare Pompeo come amico e quando,  pochi mesi dopo, a seguito della sconfitta subita a Farsalo il 9 agosto del 48 A.Ch.  Pompeo si rivolse al Re dei parti per chiedere rifugio alla Corte di Ctesifonte, se pure combattuto, si mostrò favorevole nel  concedergli ospitalità; ma Pompeo non andò a Ctesifonte, la scelta fatale cadde sull’Egitto anche perché era venuto a conoscenza che il suo rivale era appoggiato da Antioco, capì così che la strada per la Partia era diventata proibitiva.

D’altro canto anche l’invito ed i tentativi degli amici di farlo rientrare in Roma, come Corriolano, alla testa di legioni reclutate in terra straniera e fornite da un nemico straniero, cadde nel vuoto ed Orode fu così sollevato dal prendere l’ardua decisione tra respingere le suppliche del più grande generale di quel tempo o provocare, con la sua accondiscendenza, l’ostilità dei forti rivali di Pompeo.

L’anno 47 A.Ch. vide Cesare in Siria ed in Asia Minore inviato a contrastare Pharnace, figlio di Mitridate Re del Ponto, che aveva visto nelle lotte interne a Roma l’occasione per ristabilire l’impero del padre.

Dopo la facile vittoria di Zela (veni, vidi, vici)  è probabile che il condottiero romano avesse pensato anche a rivolgersi contro Orode, se non altro per vendicare la cocente sconfitta di Carrae; ma giudicando non ancora maturi i tempi soprassedette.

Molto era ancora rimasto da fare in: Africa, Spagna ed in patria; non era il momento di pensare ad una “Vendetta” in Oriente che venne differita in data da destinarsi cercò anzi, durante la sua permanenza in Asia, di evitare provocazioni ed esasperazioni, quali minacce o movimenti ostili che potessero al momento compromettere la “Pax Orientalis”

Aveva in animo di allestire una campagna contro la Partia e ne parlava apertamente; ma aspettava momenti migliori.

Nel 44 A.Ch. quatto anno dopo Farsalo, aveva oramai eliminato tutti i nemici interni e gli parve fosse giunto il momento di intervenire in Oriente; raccolse un buon numero di legioni e fece in modo tale che il Senato decretasse la ripresa della guerra contro i Parti ovviamente assegnandogli il comando delle operazioni.

Prese la via della Puglia e passato l’Adriatico, portò l’esercito in Asia; ma quale fosse il progetto della campagna da intraprendere rimane un mistero; secondo uno scrittore dell’epoca intendeva invadere la Partia passando dalla Piccola Armenia e procedere cautamente per saggiare la forza e la consistenza dell’esercito nemico prima di ingaggiare con gli orientali una battaglia campale, secondo altri aveva intenzione di conquistare in primis la Partia per poi risalire, attraverso il Caspio nella Scizia e da lì invadere la Germania e dopo averla conquistata, ritornare a Roma passando attraverso la Gallia; nessuno di questi autori ha tuttavia affidabilità tale  perché queste dicerie possano essere convalidate.

Il ”Grande Dittatore” probabilmente non aveva in mente alcun piano ben definito, c’è da credere che si sarebbe fatto guidare dalle circostanze del momento e non c’è dubbio alcuno che la spedizione, sotto i suoi auspici, avrebbe costituito un serio pericolo per i Parti; ci sono molte buone ragioni per credere che con ogni probabilità il paese sarebbe caduto in soggezione di Roma.

Il talento militare di Giulio Cesare era eccezionale ed enorme il suo potere organizzativo e di consolidamento, la sua prudenza e la cautela erano pari alla sua ambizione ed al suo coraggio ed una volta lanciata l’offensiva verso Est è impossibile dire fin dove sarebbero giunte le aquile romane e quali e quanti paesi avrebbe potuto ancora aggiungere al già vasto impero; ma la Partia fu salvata dall’imminente pericolo, dal pugnale dei “Tirannicidi” che il 15 marzo del 44 A.Ch. uccisero il solo uomo che avrebbe potuto mettere in serio pericolo il paese orientale; con la sua morte si arenò anche la progettata invasione dell’Asia.

Nella guerra civile che seguì alla morte di Cesare anche i Parti sembra che abbiano avuto un ruolo.

Dopo la sconfitta di Zela e la morte di Cesare l’Oriente era in subbuglio e nel marasma un sostenitore di Pompeo: certo Cecilio Basso si era prodigato per rendere la Siria indipendente sotto la sua direzione, in quel frangente i Parti avevano inviato a Basso un contingente di soldati; ma nel 43 A.Ch. Basso ed il suo esercito erano confluiti con Cassio che si era recato in Siria a raccogliere proseliti e truppe per la sua lotta contro MarcoAntonio ed Ottaviano sì che il contingente Parto si trovò coinvolto nella manovra.

Cassio si fece carico di congedare le truppe Partiche che erano state, loro malgrado coinvolte con le beghe interne di Roma; ricompensò i soldati con denaro ringraziandoli per il loro contributo  sin qui espresso e colse l’opportunità per inviare ad Orode un’ambasceria questa volta con la richiesta di aiuti sostanziali.

Il Re dei Parti  colse al volo l’occasione; era nel suo interesse che le forze romane si logorassero il più a lungo possibile in conflitti interni invece di impegnarsi nella conquista dell’Oriente oltretutto avrebbe potuto sperare, nel caso che Cassio fosse uscito vincitore dalla contesa con Ottaviano e Marco Antonio, in un qualche segno di riconoscenza; Cassio era proconsole della Siria e forse con un nuovo accordo la provincia poteva essere affidata ai Parti.

Accettò la richiesta di Cassio e gli mandò uno squadrone di cavalieri Persiani che prese parte alla battaglia di Filippi.

La sconfitta di Cassio rappresentò per Orode una cocente delusione; ma invece di darsi pace e cercare di riappacificare gli animi seminò nel campo romano, già di per sé in confusione, disordine e discordie e francamente non è dato sapere se questo alla fine si sia risolto in un vantaggio ovvero uno svantaggio per la sua causa.

Il mondo romano gli sembrò più diviso di prima e “l’autodistruzione” che Horace profetizzava, sembrava essere sul punto di realizzarsi.

Tre rivali avevano tenuto in sospeso il corrotto mondo della romanità, ciascuno geloso degli altri due e smanioso di ingrandirsi a spese degli altri; dopo Filippi erano rimasti in due, accanitamente ostili tra loro, pretendenti al primato.

Mentre l’uno si era acquatierato in Italia, trattenuto dall’insurrezione contro lo Stato, l’altro era in Egitto, immerso nella lussuria, felice di una travolgente passione che lo spingeva verso una prodigalità senza pari.

Il dissoluto triunviro impose una tassazione iniqua ai paesi dell’Est per poter ricompensare i suoi favoriti ed i parassiti che lo attorniavano.

L’imposizione era tanto pesante da rendere tangibile l’invito ad intervenire di una potenza straniera: Roma era in quel momento debole e seriamente compromesso appariva il suo potere. 

In quel tempo la Partia ebbe anche la fortuna di avere al suo servizio un generale Romano di indubbio valore: Quinto Labieno, figlio di Tito, legato di Cesare in Gallia, che era passato con i Pompeiani e che era stato inviato ad Orode, poco prima della battaglia di Filippi, da Bruto e Cassio.

Il monarca Parto, conoscendo il rigore morale del triunviro lo invitò a fare della Partia la sua dimora e prendere servizio sotto la sua bandiera.

Labieno era uno tra i migliori ufficiali di Roma, conosceva pregi e difetti della macchina bellica Romana ed Orode confidava molto in lui.

Il monarca dei Parti ancora non aveva digerito la sconfitta di Pacoro del 52 – 50 A.Ch. né tantomeno la considerava come definitiva tanto che nell’inverno del 41 – 40 A.Ch. preparò una nuova campagna di conquista del territorio Romano.

Raccolse, dal suo vasto impero, un imponente esercito che pose sotto il comando di Pacoro e la guida di Q. Labieno e che nella primavera successiva attraversò l’Eufrate mentre Antonio ancora indulgeva ai suoi deliziosi ozi egiziani.

Ottaviano aveva appena riconquistato Perugia ed era intento alla riappacificazione del territorio Italiano.

Era primavera inoltrata quando l’istinto del guerriero si risvegliò in Antonio e lo scosse dall’alcova di Cleopatra.

Si era appena messo in marcia contro i Parti quando i messaggeri che gli erano stati inviati dal fratello Lucio lo implorarono di affrettarsi a tornare in Italia, nel più breve tempo possibile, per cercare di arrestare il vincente progredire di Ottaviano.

Con rammarico Antonio cambiò rotta e piuttosto che in Siria, da Alessandria fece vela per le italiche coste lasciando la cura e gli interessi romani in Oriente nelle incompetenti mani del suo luogotenente: Decidio Saxa, odiato dai provinciali per l’esazione degli esosi tributi e privo di rispetto per la sua manifesta incapacità di guerriero.

Le orde dei Parti non trovando una valida resistenza invasero la Siria e d’impeto occuparono subitamente tutto il tratto compreso tra l’Eufrate ed Antiochia, fecero irruzione nella fertile valle dell’Oronte  sino a  trovarsi  a minacciare la culla della civilizzazione ellenica del paese, costituita  dalle tre città di Antiochia, Apamaeia ed Epiphaneia.

Vennero inizialmente respinti da Apamaeia che posta su di una penisola rocciosa quasi circondata dal fiume oppose  valida resistenza; ma dopo che i Parti ebbero sconfitto in una battaglia campale Decidio Saxa e disperso le sue legioni, ricevettero la sottomissione sia di Apamaeia che di Antiochia, città precipitosamente abbandonate da Saxa che cercò rifugio in Cilicia.

Incoraggiati dai successi, Pacoro e Labieno decisero allora di dividere l’esercito in due tronconi ed operare simultaneamente, a tenaglia, in due diverse direzioni.

Pacoro scelse di portare l’offensiva Parta, attraverso la Siria, in Fenicia e Palestina mentre Labieno si incaricò di invadere l’Asia Minore per strappare ai Romani alcune tra le più fertili zone della regione.

Entrambe le iniziative furono coronate da successo, Pacoro s’impadronì di tutta la Siria e della costa ad eccezione della sola città di Tiro che non fu in grado di espugnare non avendo a disposizione una flotta e della Palestina che trovò nelle ormai consuete condizioni di guerra civile.

Hicarno ed Antigono, zio e nipote, entrambe principi della casata degli Asmoneani si contendevano il regno ebraico; Hicarno era  riuscito ad esiliare Antigono il quale fu ben felice di  fare causa comune con gli invasori e purchè lo riportassero sul trono usurpato dallo zio,  si offrì di dare a Pacoro 2.000 talenti e 500 donne ebree.

L’offerta venne accettata e con l’aiuto dei Parti Hicarno venne deposto e mutilato; Gerusalemme ebbe un nuovo Re Sacerdote nella persona di Antigono che per tre anni, dal 40 al 37 A.Ch. regnò sul paese, sia pure come Satrapo dei Parti o Vitaxa.

Labieno intanto aveva occupato l’intera Asia Minore, l’esercito di Decidio Saxa disfatto ed il suo duce che si era rifugiato in Cilicia, ucciso.

L’intera costa Orientale con Pamphilia, Lycia e Caria furono conquistate; la città di Stratonicaea assediata; Mylasa ed Alabanda espugnate e secondo alcuni storici del tempo anche la Licia e l’Ionia subirono il saccheggio dei Parti che si impossessarono dell’Asia Minore sino alle sponde dell’Ellesponto.

Si dice pure che per un intero anno nell’Asia Occidentale il ruolo e l’autorità di Roma siano scomparse, come per incanto, cancellate dagli Orientali  riconosciuti dominatori sovrani.

Non sorprende che Labieno esaltato dal successo si sia attribuito di fatto il titolo di Imperatore e che abbia coniato moneta ponendovi sopra la sua effige ed il nome seguito dal ridicolo aggettivo di “Partico” che all’orecchio dei Romani suonava come: “Conquistatore della Partia” un titolo onorifico che non poteva certo reclamare.

Sin qui la fortuna della guerra che da questo momento mutò però direzione.

Nell’autunno del 39 A.Ch. Antonio ed Ottavio avevano appianato le loro divergenze ed il triunviro, lasciata l’Italia riprese il comando delle operazioni nell’Est con l’obbiettivo di combattere Labieno e portar guerra ai Parti.

Ventidio sbarcò inaspettatamente sulla costa dell’Asia Minore e questo allarmò Labieno che privo di truppe Partiche non era in grado di opporre resistenza tanto che fu costretto a ritirarsi in Cilicia e nel contempo chiedere  aiuti a Pacoro che non si fece pregare ed inviò subito all’amico un forte contingente di cavalieri; ma questi prim’ancora di porsi sotto il comando di Labieno ebbero la dabbenaggine d’agire per proprio conto nel tentativo di sorprendere il campo romano, con il bel risultato di rimediare una sonora sconfitta da parte dell’esercito di Ventidio.

Si ritirarono lasciando in Cilicia il povero Labieno al suo destino il quale, rimasto solo, non trovò di meglio che cercare salvezza nella fuga; fu raggiunto, circondato, catturato ed ucciso.

Allarmato dalla piega che avevano preso gli eventi Pacoro lasciò che fosse Antigono, il principe Asmoneano a curare gli interessi Partici in Palestina e concentrò le sue truppe nel Nord della Siria e nella Commagene nell’attesa dell’attacco Romano lasciando solo, un sia pure nutrito distaccamento di truppa,  al comando di un generale di nome Pharnapates, a guardia delle “Porte della Siria” un passo molto stretto sul monte Amano a cavallo tra Siria e Cilicia.

Ventidio aveva mandato in avanscoperta un ufficiale chiamato Pompedio Silo che con alcuni cavalieri aveva avuto il compito di forzare il blocco; Pompidio costrinse a battaglia Pharnapates e avrebbe sicuramente avuto la peggio se lo stesso Ventidio che evidentemente temeva per la sicurezza del suo subordinato, non fosse comparso all’improvviso sulla scena e ribaltato i termini della battaglia a favore dei Romani.

Il distaccamento di Pharnapates venne sopraffatto, lo stesso comandante ucciso ed aperta la via di penetrazione verso l’Oriente.

Appresa la notizia Pacoro ritenne più prudente ritirarsi ed attraversare nuovamente l’Eufrate.

Sembra che Ventidio, ponti d’oro al nemico che fugge, non abbia apportato molestie all’esercito dei Parti in ritirata e si sia limitato a riportare la Siria sotto l’egida di Roma.

Pacoro non era tuttavia disposto a rinunciare alla Siria anche perché il suo governo, nel paese, era stato improntato a mitezza e giustizia, l’amministrazione si era dimostrata capace ed il popolo siriano mostrava di preferire la sua gestione a quella di Roma, inoltre era riuscito ad accattivarsi le simpatie e l’alleanza di molti piccoli principi e dinasti che occupavano una posizione di semi indipendenza ai confini della Partia quali: Antioco, Re della Commagene; Lisanio, Tetrarca di Iturea; Malco, sceicco degli Arabi Nabatei ed altri.

Ancora, quell’Antioco che aveva messo a capo dei Giudei si opponeva validamente ad Erode cui Antonio ed Ottaviano avevano assegnato il trono.

Durante l’inverno Pacoro si dedicò al progetto di una nuova invasione del territorio siriano ed all’inizio della primavera, prima che il nemico se ne rendesse conto, attraversò nuovamente l’Eufrate; ma non nel solito punto, se l’avesse fatto avrebbe trovato impreparati i Romani che avevano le truppe ancora raccolte nei quartieri invernali, alcuni a Nord altri a Sud dei Monti del Tauro.

Ventidio, con uno strattagemma, lo aveva indotto a guadare il fiume più a Sud, rispetto al consueto punto di attraversamento e questo significò impiegare più tempo per spostare l’esercito, tempo prezioso impiegato dal generale romano  per riunire le  truppe, disperse nei vari quartieri invernali, sì che quando l’esercito dei Parti apparve sulla sponda destra dell’Eufrate Ventidio era praticamente pronto per affrontarlo.

Il generale romano aveva sistemato un nutrito gruppo di frombolieri vicino alla sponda del fiume, in una posizione più elevata ed i Parti che non avevano trovato difficoltà nel guadare l’Eufrate finirono per trovarsi sotto il tiro del nemico che per quanto sistemato su posizioni vantaggiose non aveva tuttavia coscienza della sua forza né delle sue capacità di attacco e quando i romani, dopo un primo ripiegamento delle avanguardie dell’esercito Parto vennero nuovamente  attaccati con maggior vigore si sbandarono e cedettero la posizione.

I soldati Parti, superato l’ostacolo, come avevano fatto altre volte, si riversarono contro l’accampamento romano sperando nella sorpresa e nell’impeto dell’attacco; ma la guarnigione del campo resse l’urto, gli assalitori furono a loro volta assaliti e svantaggiati dal fatto di dover combattere risalendo la collinetta su cui era sistemato il campo romano, furono costretti a riportarsi al piano e continuare lì la battaglia mandando in campo la cavalleria catafratta degli asiatici per arginare la controffensiva.

I frombolieri ripresero allora forza ed inflissero al nemico perdite sostanziali, lo stesso Pacoro cadde vittima di un colpo mortale e come sempre accade negli eserciti orientali quando il comandante viene meno, l’esercito si sbandò e fuggì lasciando il campo all’armata Romana che ne uscì vittoriosa.

I Parti si divisero in due tronconi, uno si riversò verso il ponte di barche che era servito per  l’attraversamento del fiume; ma intercettato dai Romani venne pressochè annientato; l’altro si diresse verso Nord, nella Commagene e trovò rifugio nel territorio del Re Antioco che si era opposto validamente a Ventidio e potè fare ritorno in patria.

Sembra che la battaglia sia avvenuta nello stesso giorno, anniversario della sconfitta di Carrae e Roma gioì nell’immaginare di aver vendicato la perdita delle legioni di Crasso con l’annientamento dell’esercito imperiale dei Parti.

In questo modo terminò l’invasione della Siria preconizzata da Pacoro e Labieno ed anche l’espansione del potere degli Arsacidi verso Occidente.

Quando le due maggiori potenze dell’epoca erano entrate per la prima volta in “rotta di collisione” quando gli arcieri orientali aveva annientato l’esercito di Crasso ed erano debordati in Siria, Palestina ed Asia Minore, quando Apameia, Antiochia e Gerusalemme caddero nelle loro mani, quando Decidio Saxa venne sconfitto ed ucciso, quando vennero occupate la Cilicia, Panphilia, Lycia, Caria e devastate la Lidia e l’Ionia…sembrò che Roma avesse incontrato un popolo a lei superiore.

Parve che la potenza sino allora dominante fosse costretta a retrocedere di fronte alla prepotente irruenza , sullo scenario della storia, del popolo dei Parti che aveva oramai dilatato i suoi confini sino all’Egeo ed al Mediterraneo.

La storia del contrasto tra Est ed Ovest; tra Asia ed Europa è una storia ad alterne vicende con l’ascesa e la ricaduta prima di uno poi dell’altro continente.

Il modo di guerreggiare degli orientali si era perfettamente adattato alla difesa delle ampie pianure dell’Asia; ma era completamente inadatto alla conquista di territori ristretti e protetti da mura.

Il sistema bellico dei Parti non possedeva l’elasticità di quello Romano che era in grado di adattarsi ad ogni circostanza e consentiva l’introduzione di sempre nuovi armamenti, era un sistema rigido che mancava di flessibilità; l’alternarsi al potere di tredici  Re Arsacidi non era riuscito a rinnovarlo, qualche variazione nei dettagli; ma era sostanzialmente rimasto immutato qual’era stato sotto la guida del primo Arsace.

I Romani, al contrario, sempre erano riusciti a modificarsi, pur di migliorare il loro modo di combattere, sia con nuove manovre  o modificando le armi di difesa ed offesa, sia con l’apporto di nuove macchine da guerra.

Controbilanciarono la tattica dei Parti “dell’ordine sciolto”  dei caroselli di cavalleria e del continuo gettito di dardi aumentando essi stessi il numero dei cavalieri ricorrendo al maggiore impiego di forze ausiliarie e di frombolieri; nello stesso tempo trassero vantaggio dell’inefficienza dei Parti contro le fortificazioni e contro di loro applicarono la tecnica dell’imboscata e della ritirata in luogo protetto.

Il risultato fu che, dopo una decennale esperienza, i Parti si resero finalmente conto che non avrebbero potuto costituire una seria duratura minaccia ai domini di Roma e misero da parte, per sempre, il sogno di poter conquistare l’Occidente; prese dunque  avvio nello loro coscienze, un nuovo modo di concepire il futuro, non disdegnarono di diventare un popolo pacifico; dopo essere stati estremamente aggressivi a spese dei loro vicini: Bactriani, Scizi, Siro Macedoni ed Armeni ed aver occupato i loro territori, erano adesso contenti di mantenere i confini acquisiti né cercarono nuovi nemici.

Il contrasto con Roma era stato generato da un contenzioso per l’influenza sui confini del Regno Armeno e la loro speranza era adesso intesa a riportare quel regno in loro soggezione.

Il dolore di Orode per la perdita del figlio Pacoro fu grande ed anomalo per il poco emotivo Oriente; il Gran Re rifiutò per molti giorni il cibo ne accennava a coricarsi sino a che il suo dolore prese altra piega, immaginò che il figlio fosse tornato, immaginò di vederlo e di sentirlo e lo chiamava in continuazione e non riuscendo a rendersi conto della realtà dei fatti la sua disperazione raggiunse vette sempre più aspre.

Il tempo che mitiga le pene, alla fine riportò un minimo di ragione nella mente sconvolta del Re che inizio a prendersi nuovamente cura del suo popolo, degli affari di stato e della successione.

Dei trenta figli che ancora gli rimanevano non ve n’era uno cui si sentiva di nominare a succedergli, d’altro canto nessuno di loro si era in un qualche modo distinto dagli altri ed in questa “Calma piatta” convinto che a lui solo spettasse il compito di nominare un successore, benchè poco convinto, scelse il primogenito e nel dubbio la sua decisione potesse essere messa in discussione dai nobili e dai magistrati, abdicò in suo favore, così Phraate divenne, a tutti gli effetti, il nuovo sovrano.

Mai scelta fu più infelice; Phraate covava gelosia verso alcuni fratelli, figli di una principessa sposata da Orode, mentre sua madre era solo una concubina, li fece uccidere e quando il vecchi Re mostrò la sua disapprovazione, al fratricidio unì anche il crimine del parricidio.

Morì così Orode, figlio di Phraate 3° e tredicesiono Arsace, dopo un regno di 18, secondo altri 20 anni, che è passato alla storia come il più memorabile dei sovrani Parti essendo riuscito a portare il paese ai più alti vertici della gloria, mai prima raggiunti  anche se i meriti di tanta ascesa,  più che suoi personali, furono legati alla oculata selezione e scelta che aveva operato tra gli ufficiali preposti al comando dell’esercito.

Ambizioni a parte, era giunto al potere dopo aver ucciso padre e fratello non si fece scrupolo di mantenerlo con il sacrificio dei suoi subalterni; unico tratto amabile del suo carattere rimane l’affezione per il figlio Pacoro che lo redime in parte dal fatto di essersi dimostrato,in più di una occasione, totalmente privo di umanità.

Un pensiero corre alla nemesi storica.

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I Parti al tempo di Augusto

 

 

Phraate 4° giustamente orgoglioso del successo ottenuto su Antonio e per aver riportato la Media Atropatene sotto la sua autorità, ritenendo oltremodo sicura la sua posizione al governo del paese tornò a dedicarsi a quella che era la sua naturale predisposizione: la crudeltà

Riprese il suo tirannico atteggiamento nei confronti di coloro che nei primi anni del regno gli erano apparsi odiosi e dette inizio a tutta una serie di persecuzioni che esasperò il popolo che alla fine lo costrinse a lasciare il paese, correva l’anno 33 A.Ch.

A capo della rivolta era assurto un nobile Parto di nome Tiridate che alla fine venne proclamato Re.

Phraate frattanto si era rifugiato nella Scizia e si appellò ai nomadi di quel paese perché abbracciassero la sua causa e lo aiutassero a riconquistare il regno perduto.

Facili al saccheggio ed alla guerra le orde scizie non si fecero pregare, attraversarono la frontiera, ebbero facilmente ragione delle forze ribelli e misero nuovamente sul trono della Partia il monarca esiliato.

Tiridate, al loro arrivo fuggì portando con sé il più giovane figlio di Phraate 4°e si presentò ad Ottaviano che a quel tempo era in Siria, dopo aver regolato la questione con Antonio in Egitto e consegnò nelle sue mani il giovane principe nel contempo chiedendo il suo aiuto contro il tiranno.

Ottaviano accettò il prezioso ostaggio; ma con molta diplomazia declinò l’invito ad impegnarsi nel fornire aiuti a Tiridate, poteva restare in Siria, se lo desiderava, sotto protezione romana; ma non avrebbe dovuto aspettarsi di essere nuovamente posto sul trono della Partia dall’esercito di Roma.

Alcuni anni dopo ( 23 A.Ch.) Phraate stesso contattò Ottaviano chiedendogli la restituzione del figlio rapito e la consegna di Tiridate, l’Imperatore rispose che sarebbe stato ben lieto di ridargli il figlio senza per questo pretendere riscatto alcuno, solo che gli fossero riconsegnati i prigionieri e le insegne sottratte a Crasso e ad Antonio, era uno scambio tutto sommato accettabile.

La  consegna del fuggitivo Tiridate era invece oggetto di altra considerazione, non avrebbe potuto accontentarlo giacchè se l’avesse fatto avrebbe infranto il dovere di ospitalità e ne andava di mezzo l’onore di Roma.

Il monarca Parto non replicò alla richiesta di rilasciare i prigionieri e le insegne, si mostrò compiaciuto della disponibilità di Ottaviano al rilascio del figlio; ma ignorò il resto del messaggio.

Non erano ancora passati tre anni da quella richiesta che Ottaviano, oramai divenuto Augusto si recò nuovamente in Oriente; la guerra sembrava ormai inevitabile data la testardaggine di Phraate 4° senonchè questi si  rese improvvisamente disponibile alla riconsegna delle insegne e questa buona predisposizione venne salutata come una vittoria ed in effetti lo fu, se si considera che Phraate regnava senza il consenso del suo popolo e che la riprovazione per un atto poco patriottico ed imperdonabile, era controbilanciata dal timore tangibile che l’imperatore romano potesse accogliere le istanze di Tiridate e riportarlo sul Trono della Partia.

Gli ultimi anni del regno di Phraate 4° ed egli regnò ancora per circa 20 anni dopo la riconsegna delle insegne, non fecero registrare eventi bellici di una qualche consistenza; dopo tanti anni di lotta tra Roma e la Partia si era venuto a creare un sano timore tra le due nazioni ciascuna delle quali era stata vittoriosa sul proprio territorio; ma quando si era avventurata in campo avverso aveva dovuto subire la supremazia dell’avversario; adesso ognuna spiava i movimenti dell’altra al di qua ed al di là dell’Eufrate con inusuale pacifismo.

Augusto, come linea base della sua politica bloccò l’espansione territoriale che Roma aveva oramai raggiunto, politica strettamente seguita da Tiberio e da tutti gli imperatori della gens Giulio Claudia e dai successivi sino a Traiano; il primo, dopo una pausa di 130 anni a derogare dalla politica di Ottaviano; con lui risorse lo spirito di conquista e l’aspirazione al dominio universale.

Intendiamoci non è che di colpo la pace regnasse sovrana sull’impero di Roma e fuori di esso, tanto è vero che Roma fu spesso tentata di intervenire con le armi nelle querelle interne di popoli oltre i confini dell’impero  tuttavia prevalse, in linea generale, uno stato di pace e di amicizia che non vide né l’allestimento di una campagna in previsione di un grande attacco oltre confine né le frontiere vennero dilatate.

Le rivalità marginali ch’erano ancora in essere vennero risolte attraverso l’azione diplomatica, almeno con la Partia e l’Armenia.

Dopo che Phraate ebbe restituito ad Ottaviano le insegne sottratte a Crasso e ad Antonio tra i due trascorse un periodo idilliaco.

Tra l’11 A.Ch. ed il 7 A.Ch.  in Phraate 4° sorse poi il sospetto che uno dei suoi figli volesse deporlo per accedere al trono, azione del resto già da lui stesso e dai suoi ancestori praticata con successo ; astutamente decise di allontanare i figli dalla Partia e si rivolse ad Augusto perché li ospitasse in Roma, con la scusa di far loro apprendere la civiltà di quella grande nazione.

Quattro erano i figli: Vonones, il primogenito, poi Seraspadanes,  Rhodaspes e Phraate; due di loro erano già sposati ed avevano a loro volta dei figli.

Furono ospitati a Roma e trattati come il loro rango comportava, supportati da una carica pubblica in modo munifico anche se gli scrittori romani dell’epoca parlarono di loro come ostaggi.

Le relazioni amichevoli tra Phraate ed Ottaviano sarebbero durate forse fino alla morte di uno dei due se non fosse intervenuto un evento rivoluzionario in Armenia.

Alla morte di Artaxias, nel 20 A.Ch. Ottaviano era ancora in Asia ed aveva mandato Tiberio in Armenia per regolare la successione di quel paese e Tiberio non aveva trovato di meglio che insediare al trono un fratello dello stesso Artaxias, chiamato Tigrane e la Partia non aveva sollevato obbiezioni sulla persona; ma così facendo Tiberio aveva tacitamente riconfermato la sovranità di Roma sul paese.

Quattordici anni dopo, nel 6 A.Ch. Tigrane morì e gli Armeni, senza attendere il placet dell’imperatore romano, conferirono la sovranità ai suoi tre figli che il padre aveva preventivamente designato come suoi successori, associandoli al governo.

Ottaviano non poteva lasciare correre su questa liberalità e nel 5 A.Ch. inviò il Armenia una spedizione che depose i tre figli di Tigrane ed al loro posto insediò al trono un certo Artavasdes il quale sia per rango di nascita che per affermazione personale, non era associabile alla posizione reale.

Gli Armeni non accettarono questa risoluzione ed insoddisfatti per tre anni “Ob collo torto” subirono l’imposizione del nuovo sovrano; ma alla fine imbastirono una rivolta, sconfissero la guarnigione romana inviata a supporto dell’autorità di Artavasdes e cacciarono il Re dal loro regno mettendo al suo posto un nuovo monarca che portava anch’egli il nome di Tigrane e temendo una rivalsa di Roma cercarono l’aiuto e  la protezione Phraate 4°

Il Re dei Parti non poteva rifiutare l’offerta degli Armeni; sin dai tempi di Mitridate 2° era invalsa in loro la convinzione che l’Armenia dovesse essere sotto l’egida del Paese ed è per questo che Phraate, anche a costo di una rottura con Roma, rispose positivamente all’invito degli Armeni.

Ottaviano Augusto, in età oramai avanzata dovette rassegnarsi all’offesa, non aveva nessuno di cui potesse fidarsi da inviare contro Phraate 4°; il figliastro Tiberio, all’epoca il suo miglior generale, in contrasto con la sua politica, si era ritirato a Rodi ed il nipote più grande “…ancora non aveva insanguinato la spada

Conscio della situazione in cui era venuto a trovarsi l’imperatore dei Romani, Phraate 4° sperava che il passaggio dell’Armenia da Roma alla Partia non avesse come conseguenza lo scontro militare tra i due imperi.

Augusto aveva oramai raggiunto i sessanta anni d’età ed anche se forte era il suo senso dell’onore non poteva dare a Roma ciò che il paese avrebbe richiesto da un imperatore molto più giovane.

Sino da quando era scoppiata la rivolta nell’Armenia con il supporto dei Parti, non sembra abbia mai vacillato nella determinazione di riaffermare la sovranità romana su quel paese; ma solo esitato, seguendo gli sviluppi, nell’attesa di aver chiaro che cosa si sarebbe dovuto fare per affrontare e risolvere positivamente il problema.

Tiberio era sicuramente la persona più adatta alla bisogna possedendo sia particolari abilità diplomatiche che doti di guerriero; ma ritenendo di aver subito sgarbi da parte dell’autorità imperiale aveva abbandonato il servizio pubblico e si era ritirato a vita privata.

Sesterzio di tiberio

Il più anziano dei nipoti non aveva che diciotto anni ed affidarsi ad un così giovane ed inesperto ufficiale poteva essere una mossa azzardata che avrebbe quasi sicuramente potuto avere risvolti non  positivi.

Augusto attese ancora sino al primo anno A.Ch. prima di spedire  in Oriente Caio con il compito di ristabilire l’ordine e sedare il conflitto con Armeni e Parti nel modo che più ritesse opportuno.

Altri fatti erano però avvenuti nella Parthia dove il non più giovane sovrano aveva impalmato una giovane italo-slava che, fra l’altro gli aveva presentato lo stesso Augusto e da questo accoppiamento era nato un figlio che crescendo, con il tempo era riuscito, con l’aiuto della madre, ad occupare una posizione di prestigio.

Era stata proprio la madre: Musa ad indurre Phraate 4° a mandare a Roma i quattro figli di primo letto perché ricevessero una educazione adeguata al loro rango.

La loro assenza si rivelò propizia per Phraataces che restando l’unico supporto del vecchio padre ne trasse vantaggio per accreditarsi come suo unico naturale successore.

Phrataces

Nel dubbio tuttavia che la sua aspirazione al trono non fosse così solida come sperava e che i fratelli ne rivendicassero la priorità, anziché lasciare che il tempo facesse il suo corso naturale, l’ambizioso giovane decise di diventare artefice delle proprie fortune ed assieme alla madre somministrò al vecchio Re il veleno che lo portò alla morte.

Così, ancora una volta sotto il segno del parricidio, Phraataces salì al trono e regnò sovrano assieme alla madre che assunse il titolo di “Regina” e “Dea” e la cui immagine compare anche sul rovescio delle monete del nuovo sovrano.

Moneta di Phrataces con Musa

Il primo atto di Phraataces come Re, fu di mandare una ambasceria ad Augusto professandogli l’amicizia del popolo Partico pure sapendo che questa si era, ad esser buoni,  appannata dalle ultime vicende Armene; informò l’Imperatore della sua ascesa al trono, si scusò per le circostanze con cui l’ascesa era avvenuta e propose il rinnovo del trattato di pace a suo tempo stilato tra l’Imperatore e suo padre, assieme alla  richiesta di far tornare in patria i suoi fratelli con mogli e figli giacchè disse: il loro posto era in Partia e non a Roma; nei riguardi dell’Armenia glissò l’argomento, lasciando ad Augusto l’iniziativa di un eventuale negoziato, oppure di accettare lo stato di fatto.

Augusto replicò al messaggero del Re, in maniera molto severa chiamando Phraataces con il suo solo nome evitando di aggiungere il titolo di Re, ingiungendogli anzi di non fregiarsi di questo appellativo giacchè frutto di ingiustificata arroganza; gli impose poi di evacuare tutte le posizioni che le sue truppe avevano occupato in Armenia ed infine, relativamente alla consegna dei principi Parti, fratelli di Phraataces, e dei loro famigliari, oppose un netto rifiuto lasciando intendere che i suoi fratelli desideravano restare a Roma e che presto avrebbero rivendicato il trono della Partia; ovviamente  non dette risposta alla richiesta di rinnovo del trattato di pace, fece anzi chiaramente intendere che nessun trattato di pace o di amicizia poteva essere concluso con la Partia sino a che le sue truppe fossero rimaste in Armenia.

Probabilmente Phraataces si aspettava una risposta di questo tipo e forse per questo non si allarmò più di tanto anzi rispose sprezzante, in tono di sfida, proponendosi come “Re dei Re” secondo l’antica designazione orientale e declassando Ottaviano al titolo di “Cesare”

Con tutta probabilità se guerra ci fu, in questo frangente, fu guerra di parole e le truppe Partiche continuarono a presidiare l’Armenia mentre da parte sua Ottaviano si limitò a minacciare astenendosi dal prendere misure concrete; ma quando, all’inizio del primo secolo dopo Cristo l’Imperatore passò dalle parole ai fatti e spedì il nipote Caio in Oriente alla testa di un grande esercito, con l’ordine di riportare l’Armenia sotto l’influenza di Roma anche a costo di intraprendere una guerra contro la Partia e quando Caio mosse verso la Siria con tutta la magnificenza e la dignità imperiale, Phraataces finalmente si allarmò.

Per tutto l’inverno il Re dei Parti si era convinto che se fosse stato possibile un incontro tra il monarca ed un rampollo dell’Imperial Casa  Romana le ragioni del contendere si sarebbero potute risolvere pacificamente e propose pertanto di incontrare Caio su di un’isola dell’Eufrate.

La proposta venne accettata; su entrambe le opposte rive del grande fiume erano schierate le migliori truppe dei due eserciti, nel caso che la discussione fosse degenerata  mentre i due capi, accompagnati da un egual numero di attendenti e guardie del corpo passarono dalle rispettive sponde sull’isola e qui, al centro di entrambe le armate, dettero inizio ad uno scambio di idee che fortunatamente portò ad un accordo soddisfacente per tutti e due i partecipanti, al primo punto del quale c’era l’accettazione da parte di Phraataces di abbandonare l’Armenia.

All’accordo seguirono festeggiamenti ed il Re dei Parti venne dapprima invitato da Caio sulla sponda Romana del fiume dopodichè fu Caio a festeggiare dai Parti sulla sponda opposta.

Per la prima volta la Partia era apparsa disposta a lasciare l’Armenia a Roma e fu dato l’ordine di ritiro delle truppe dal paese.

In Armenia, durante i torbidi che seguirono alla decisione, lo stesso Caio perse la vita; ma Roma onorabilmente si astenne da ogni interferenza politica od intrighi d’arme negli affari  interni del paese lasciando che fossero gli stessi Armeni a decidere del loro futuro.

La buona predisposizione che Phraataces aveva dimostrato nel lasciare che Roma, con la sua influenza sull’Armenia  assumesse una posizione predominante in Asia  fu dovuta, con tutta probabilità, allo stato di agitazione che serpeggiava nel paese ed alle difficoltà interne che lo minacciavano.

Il fatto di essere un parricida, nel paese dei Parti, non ostava alla popolarità di un sovrano…era già successo con suo padre e suo nonno ed il regno era rimasto tranquillo e prospero; ma c’erano connesse rivolte di palazzo che gettavano discredito sui principali attori ed offendevano l’orgoglio dei nobili Parti.

Motivi privati ed egoistici avevano isolato il giovane principe che non aveva la pubblica approvazione sopratutto per l’ultima decisione presa. quella di abbandonare l’Armenia.   

Giocavano a suo svantaggio anche l’influenza che la coreggente madre aveva su di lui, ancor più in quanto straniera, slava  e per di più presentata al padre dal capo di una potenza nemica da sempre: Roma.

I Nobili le dimostravano il loro disprezzo e “chiacchere” per lo più infondate, aumentavano la sua impopolarità e si ripercuotevano sul sovrano come una profonda ombra di disonore.

I magistrati si consultarono e dopo pochi anni dalla sua ascesa al potere si ribellarono alla sua autorità e sentenziarono la sua deposizione o la morte.

Al suo posto fu messo un arsacide di nome Orode, ma in breve tempo divenne anch’egli inviso alla nobiltà e fu ucciso chi dice durante un banchetto chi è più propenso a credere che sia stato ucciso durante una battuta di caccia.

I magistrati, dopo queste esperienze negative, decisero infine di richiamare al trono uno dei legittimi eredi di Phraate 4° mandati a Roma una quindicina d’anni prima e nel 5 A.D.  inviarono ad Augusto una ambasceria per chiedere che il primogenito: Vonones fosse lasciato tornare in patria per salire al trono che era stato di suo padre.

Augusto accondiscese con gioia ritenendo un onore per Roma dare un Re alla Partia e Vonones fu istradato in Asia con grande pompa e molti doni per andare a ricoprire la posizione che tra i popoli dell’epoca era la più elevata, dopo quella di Roma.

Si dice che i principi, al momento della loro incoronazione godano sempre di ampia popolarità, certamente Vonones non fece eccezione ed i sudditi lo ricevettero con grandi dimostrazioni di giubilo; ma questo stato idilliaco non ebbe lunga durata.

La lunga permanenza del principe in terra straniera ne aveva modificato i comportamenti originari, caratteristici del popolo orientale e ben presto ci si accorse che l’Arsace era “Pane di Roma” a metà tra lussuria e raffinatezza, valori propri della civiltà occidentale.

Gli sport “Rudi” e le rozze maniere dei suoi concittadini lo disgustavano; non trovava piacere ad andare a cavallo e raramente compariva sul terreno di caccia.

Raramente presenziava alle feste” triviali”che costituivano il normale comportamento nazionale e quando lo faceva rimaneva solo per brevissimo tempo.

Quando si mostrava in pubblico era solito presentarsi in lettiga.

Aveva portato con sé, da Roma molti amici greci che i Parti disprezzavano e ridicolizzavano, oltretutto il favore che egli mostrava nei confronti di queste persone aumentava la gelosia e la collera degli asiatici.

Non fece alcuno sforzo per conciliare i suoi comportamenti con l’atavica realtà del suo popolo né lasciò che i nobili Parti potessero avere accesso con facilità alla sua persona.

In questa fase di isolamento virtù e grazie, ancora non note alla nazione, furono agli occhi dei Parti considerate non meriti; ma difetti  che  li fecero riflettere con disapprovazione sulla richiesta fatta all’imperatore romano per portare Vonones sul trono della Partia.

“…La Partia era davvero degenerata se si era ridotta a chiedere un Re che apparteneva oramai ad un altro mondo ed a cui era stata inculcata una forma di civilizzazione straniera ed ostile al loro modo di agire. Tutta la gloria guadagnata con l’annientamento di Crasso e la repulsione di Antonio era andata completamente perduta se il paese era governato da sangue slavo ed trono degli Arsacidi poteva essere considerato a livello di provincia romana. Se fossero stati conquistati sarebbe stato penoso; ma dover soffrire l’insulto di essere governati da un principe imposto da Roma, senza aver prima combattuto, era molto peggio”

 

 

Era questo il pensiero dominante tra i Parti che alla fine, dopo pochi anni di regno, nel 10 A.D. chiamarono al trono un certo Artabano, un Arsacide giunto all’età virile  tra la regione di Dahae ed il Caspio e che all’epoca era Re delle Media Atropatene.

Quando offerta, la corona non si rifiuta mai, anche se in tempi moderni può essere accaduto ed Artabano, nel ricevere l’investitura dei nobili Parti espresse il suo compiacimento ed alla testa di un consistente numero di armati, invase la Partia e si scontrò con le forze lealiste di Vonones.

Artabano venne battuto e respinto e Vonones fu così orgoglioso della vittoria riportata sul Re della Media che fece immediatamente coniare una moneta per commemorare l’avvenimento; al dritto compare la sua testa con la leggenda: ΒΑΣΙΛΕΥΣ  ΟΝΩΝΗΣ e sul rovescio la vittoria con la leggenda: ΒΑΣΙΛΕΥΣ  ΟΝΩΝΗΣ  ΝΕΙΚΗΣΑΣ  ΑΡΤΑΒΑΝΟΝ; ma l’autoesaltazione era prematura.

Moneta di Vonones

Artabano si ritirò nella Media Atropatene dove raccolse nuove, più consistenti forze e con queste tornò all’attacco.

Questa volta ebbe successo; l’esercito di Vonones fu sbaragliato e lo stesso Re costretto a trovare rifugio, dopo un rocambolesca fuga, a Seleucia mentre il suo esercito, più lento nei movimenti della ritirata, ebbe a patire non poco dell’azione dei Medi.

Ctesifonte accolse il trionfo di Artabano acclamandolo Re mentre Vonones dopo aver lasciato vacante il trono della Partia, si ritirò in Armenia e qui non solo trovò asilo; ma fu addirittura proclamato Re.

Artabano ovviamente fece le proprie rimostranze e minacciò guerra se Vonones  non gli fosse stato consegnato al chè l’Armenia ebbe timore e prima che avesse un momento di ripensamento lo stesso Vonones abbandonò di sua spontanea volontà il paese chiedendo asilo politico e protezione a Cretico Silano, governatore della Siria che lo ricevette con gioia, gli concesse una guardia e gli lasciò il titolo di Re; più che bonomia fu un espediente per tenerlo sotto controllo in una specie di onorevole cattività.

Erano appena avvenuti questi fatti che Tiberio, succeduto ad Augusto alla guida dell’Impero, decise di affidare l’amministrazione e la pacificazione dell’Oriente ad un personaggio importante e di notevole esperienza che con la dignità della sua funzione, la pompa e lo splendore che lo circondavano avrebbe dovuto imporsi all’attenzione e colpire l’immaginazione degli orientali.

Non è da escludere che nella scelta della persona possano aver giocato motivi di gelosia ed il desiderio di allontanare da Roma un  possibile rivale ed un esercito che era rimasto forse troppo attaccato al suo comandante, anche se attribuire a Tiberio questi sospetti è poco corretto, d’altro canto non è possibile immaginare scelta migliore di quella operata dall’imperatore: in quella circostanza ed in quel periodo.

Germanico era, alla fin fine, la seconda carica dell’Impero, aveva padronanza degli affari di stato era un buon soldato ed un ottimo generale ed era ben visto da tutte le classi sociali per i suoi modi di fare cortesi ed amabili.

Ad un tempo nipote e figlio adottivo dell’Imperatore Tiberio gli Orientali avrebbero dovuto vedere in lui l’alter ego del grande autocrate occidentale, averne soggezione per la grandezza della sua posizione e nel contempo restare affascinati ed incantati dalla sua personalità.

V’è dell’altro, Tiberio per imprimere maggiormente nella loro mente l’immagine di Germanico  non gli aveva conferito, come al solito, il titolo di “Ufficiale amministrativo Romano” ma coniò per lui un nuovo titolo, inedito al linguaggio ufficiale, che lo investiva del comando straordinario di tutti i domini di Roma ad Oriente dell’Ellesponto.

Gli furono attribuiti il potere di far pace o di far guerra, di arruolare truppe, annettere province, nominare Re, concludere trattati e stipulare tutti gli atti di sovranità che riteneva opportuno senza dover attendere la convalida del potere centrale di Roma.

Moneta di Germanico

 

Lo accompagnava un seguito di inusuale magnificenza, appositamente allestito per impressionare la fantasia degli Orientali e metterli nella convinzione di aver a che fare con un negoziatore non comune; ma dotato di straordinario potere.

Germanico giunse in Asia nella primavera del 18 A.D. e nel giro di un anno assolse tutti compiti che gli erano stati richiesti.

Visitò di persona l’Armenia per accertarsi della fedeltà e della buona predisposizione degli Armeni verso Roma e si guardò bene di imporre nuovamente sul trono Vanones, dato che avrebbe potuto avere il significato di una sfida nei confronti della Partia, nel contempo  non lasciò che a salire al trono fosse un Arsacide proprio perche questo avrebbe potuto rappresentare motivo di esaltazione per i Parti e  disonore per Roma, perseguì invece la via del “ medio virtus” per non urtare la suscettibilità di Armeni e Parti salvando nel contempo la dignità dell’Impero Romano.

C’era in Armenia, dove si era sistemato con il suo seguito, un principe straniero  chiamato Zeno, figlio di Polemo, una volta Re del Ponto e successivamente dell’Armenia minore  che era in buoni rapporti con gli Armeni per aver, durante la sua permanenza, confermato e rispettato gli usi, i costumi e le abitudini del popolo Armeno.

Germanico venuto a conoscenza del fatto e verificato il gradimento degli Armeni lo propose come Re e lo pose al governo di Artaxata con il beneplacito dei nobili ed il gradimento della quasi totalità del popolo e con il loro consenso gli pose sul capo, di suo pugno, il diadema salutandolo come Re Artaxias, denominazione mai usata prima di allora.

Per soddisfare le richieste dei Parti che reclamavano la consegna di Vonones od in alternativa che fosse esiliato a grande distanza dalla loro frontiera, Germanico confinò lo sfortunato principe in Cilicia, nella città di Pomperopoli, un cambio di residenza tanto detestato dallo stesso principe che nell’ultimo anno aveva cercato più volte di fuggire; ma scoperto venne inseguito ed in una scaramuccia ucciso sulla sponda del fiume Pyramus.

Nonostante qualche residua difficoltà, la pacificazione dell’Est divenne una consolidata realtà e Germanico, terminato il suo difficile compito si concesse un periodo di meritato riposo, di piacere  e di lussuria, in Egitto.

Le disposizioni date da Germanico furono sufficienti per preservare la tranquillità in Oriente per una quindicina d’anni.

Artabano, in pace con Roma e con l’Armenia, sfogava la sua aggressività verso le tribù frontaliere, aumentando sempre più la sua reputazione militare e la sua fama di condottiero tanto da arrivare al punto di essere convinto che la rottura con Roma fosse più un bene che un male e divenuta ormai inevitabile.

Sapeva che Germanico era morto e che Tiberio, avanti negli anni, non sarebbe stato in grado di condurre una spedizione militare in una terra tanto lontana oltretutto il governatore dell’Oriente era un ufficiale che non si era mai militarmente distinto, così quando nel 34 A.D. si rese nuovamente vacante il trono dell’Armenia, con la morte di Artaxias 3° il Re voluto da Germanico, baldanzosamente occupò il paese e pretese la dignità reale per il suo primogenito che portava il nome di Arsace.

Non contento di questo, all’insulto aggiunse l’ingiuria, inviando ambasciatori a Roma per reclamare il tesoro che Vonones, accolto in territorio romano, si era portato via dalla Partia minacciando, in caso di diniego, l’occupazione di tutti i territori che erano stati Macedoni o Persiani dal momento che egli si considerava il naturale successore sia di Ciro che di Alessandro il Grande.

A sentire Dio Cassio, il Re dei Parti diede subito inizio alle operazioni militari contro Roma occupando la Cappadocia che per molto tempo era stata provincia romana.

Non è dato sapere che cosa abbia risposto Tiberio alle richieste di Artabano o se si sia premurato di sondare le condizioni politico sociali interne alla Partia, certo è che in questo periodo della sua esistenza era contrario ad avventurarsi in una guerra ed aveva dato istruzioni a Vitellio, allora governatore della Siria, che anche dopo la presa dell’Armenia,  desiderava mantenere con la Partia relazioni amichevoli.

Il Re dei Parti era in preda ad uno stato di inquietudine dovuta al fatto che i nobili erano sul piede di guerra contro di lui ed erano nuovamente entrati in corrispondenza con la Corte Imperiale Romana  perché inviasse loro un nuovo Re: “Artabano, dissero, con la sua crudeltà aveva ucciso tutti i membri della famiglia reale che era riuscito a mettere in suo potere e non era rimasto, in tutta l’Asia, un Arsacide in età di regnare. Perché la rivolta avesse successo occorreva che a capo di questa fosse posto un Arsacide e Roma poteva aiutarli giacchè li era rimasto, ancora vivente,un figlio del vecchio Phraate 4°un figlio che portava lo stesso nome del padre; se Tiberio avesse voluto inviarlo i Parti, quando l’avessero visto sulle rive dell’Eufrate , sarebbero insorti ed il successo della rivolta era garantito; Artabano sarebbe stato cacciato senza troppe difficoltà”

Tiberio era propenso ad esaudire i loro desideri e fornì a Phraate tutto ciò che era necessario per il viaggio appoggiandolo nel suo ritorno in Asia a reclamare quello che era stato il regno di suo padre.

Phraate non fu tuttavia in grado di sostenere il compito che gli era stato assegnato, abituato agli agi di una vita comoda nella capitale, non uso alla vita del campo né in grado di comportarsi con gli armati come si conviene ad un generale, fu vittima dell’improvvisa variazione del modus vivendi; appena giunto in Asia cadde malato e di li a poco morì.

Tiberio lo sostituì allora con un nipote chiamato Tiridate, con tutta probabilità figlio di Rhotaspes o di Seraspadanes, che riversò nella conquista dell’Est tutte le energie di una mente giovane e fertile di risorse.

Su sua istigazione, Pharasmanes, Re della Iberia, una parte dell’attuale Giogia, prese campo ed invase l’Armenia e dopo aver rimosso il principe Arsace, occupò la capitale e vi insediò come Re il fratello Mitridate.

Artabano contrastò l’occupazione, propose per l’Armenia un altro suo figlio di nome  Orode e lo mandò in tutta fretta contro Pharasmanes per riprendere la provincia.

Orode non cercò lo scontrò con il suo avversario che sapeva superiore in uomini ed armamenti e che conosceva molto bene la logistica, oltretutto Pharasmanes aveva ottenuto l’aiuto dei suoi confinanti: gli Albaniani ed attraverso i passi del Caucaso aveva introdotto, passando per il loro territorio, orde di Scizi e Sarmati, popolazioni sempre pronte, quando il loro aiuto era ben remunerato, a menar le mani.

Orode non era stato in grado di procurarsi mercenari ed alleati che potessero controbilanciare gli aiuti che i tre alleati avevano offerto a Pharamanes ed inizialmente aveva ritenuto più prudente evitare lo scontro diretto anche se stuzzicato e provocato in continuazione da Pharamanes;  alla fine, tacciato di codardia, nell’impossibilità di frenare l’ardore del suo esercito, fu costretto ad accettar battaglia

Le truppe che aveva a disposizione erano essenzialmente costituite da cavalieri mentre il nemico, oltre ai cavalieri aveva un nutrito seguito di fanti, nondimeno La battaglia fu lunga e furiosa.

Parti e Sarmati si equivalevano come valore e la vittoria parve per un po’ incerta senonchè, nello scontro diretto tra i due comandanti Orode ebbe la peggio e come sempre capita all’Est quando il comandante cade sul campo, l’esercito si sbandò ed in queste circostanze la rotta fu inevitabile.

Se dobbiamo credere a ciò che Josephus  riporta, caddero in battaglia molte decine di migliaia di uomini.

L’Armenia fu abbandonata dalla Partia ed Artabano si trovò a combattere gli intrighi di palazzo con sempre minori  forze ed una reputazione cui era stato assestato un duro colpo; non per questo si dette per vinto e nella primavera del 36 A.D. raccolto dal suo impero un nuovo grande esercito marciò verso Nord con l’intenzione di vendicarsi di persona sugli Iberiani e da lì iniziare il recupero della provincia perduta.

Il tentativo fallì in più Artabano  si trovò alle spalle il generale Vitellio che alla testa delle legioni Romane, superato l’Eufrate, si dirigeva verso la Mesopotamia.

Preso tra due fuochi il monarca Parto capì che non aveva altra scelta se non abbandonare l’Armenia e portarsi verso Vitellio per difendere il suo territorio dall’invasione romana.

Il generale romano cambiò allora  tattica ed anziché affrontare in campo aperto Artabano e lasciare che fossero le armi a decidere le sorti della battaglia, puntò sull’intrigo e profuse “Denari” a piene mani per accentuare la disaffezione dei Parti dal loro Re: la tattica ebbe pieno successo.

Coloro che in passato avevano già provato disgusto per le aberranti crudeltà di Artabano, di fronte  ai rovesci militari rimediati negli ultimi tre anni, alienarono la loro affezione per il Re che si trovò così  praticamente senza esercito potendo contare solo su di un esiguo numero di guardie straniere poste a difesa della sua persona.

Unica via d’uscita era una indecorosa fuga che lo portò in Hycarnia nelle immediate vicinanze degli Scizi Danae, dai quali era venuto, che lo accolsero con amicizia  e dove visse vita ritirata nell’attesa che fossero gli stessi Parti a richiamarlo.

Non appena Vitellio seppe della fuga di Aratabano, senza por tempo in mezzo attraversò l’Eufrate e portò Tiridate nel regno cui era stato destinato.

Auspici fortunati accompagnarono il guado del fiume, l’adesione di Ornospades, satrapo della Mesopotamia e vecchio compagno di Tiberio nella guerra contro i Dalmati, fu il primo di indubbia importanza ad unirsi alla causa del pretendente, con un nutrito gruppo di cavalieri, fu poi la volta di Sinnace che a lungo era rimasto in contatto con Roma, con un contingente di soldati, quindi suo padre Abdalagases “ La colonna della festa” come dice di lui Tacito, che era anche il custode del tesoro reale assieme ad altri personaggi d’alto rango.

Vitellio vista la cordiale e calda accoglienza che i compaesani avevano tributato al pretendente, ritenne conclusa la sua missione e se ne tornò, con le sue truppe in Siria.

Tiridate proseguì da solo il suo iter attraverso la Mesopotamia e l’Assiria raccogliendo ovunque consensi e la sottomissione di molte città Greche e Partiche come Halus ed Artemita.

I Greci vedevano nella sua educazione romana una garanzia di gentilezza, cortesia e raffinatezza, tutte qualità interamente bandite da Artabano, esemplare rampollo dell’inciviltà Scizia.

         A Seleucia Tiridate fu accolto con tanto ossequio da rasentare l’adulazione; oltre ad offrirgli tributi lo onorarono sia con le vecchie che con le nuove procedure; gli onori che gli tributarono furono tali e tanti da indurlo a modificare, ipso facto la costituzione in senso democratico.

Da Seleucia si spostò a Ctesifonte ove fu costretto a soggiornare sia pure per un breve periodo nell’attesa che giungessero i più importanti governatori delle province ed alla fine fu incoronato: Re della Partia, secondo quanto stabiliva l’etichetta, da  un “Surena” ovvero il comandante in capo del momento.

Tiridate riteneva con questo che ogni ostacolo fosse stato appianato ed il suo regno sicuro; Artabano era lontano, nascosto in un qualche posto dell’Hicarnia e conduceva vita privata, tutte le province occidentali lo avevano riconosciuto e ad Oriente pareva non ci fossero segnali di ostilità.

Vedeva il suo regnare tranquillo e c’era ragione di supporre che le prime  misure che aveva preso sarebbero state ritenute corrette e che non avrebbero scontentato né la corte né gli alti ufficiali.

Pur tuttavia entro breve tempo si manifestò una certa disaffezione nei confronti del sovrano, vuoi perché molti aspiravano all’ufficio di “Gran Visir” e la nomina di uno avrebbe scontentato gli altri, sì che nessuno fu promosso a tale rango, vuoi perché molti governatori che non erano potuti giungere in tempo per l’incoronazione, per motivi diversi, temevano di essere sospettati se non di disaffezione, almeno di scarso entusiasmo, a questo si aggiunga che “l’educazione romana” del nuovo sovrano e le sue aperture verso i Greci che in un qualche modo offendevano l’orgoglio dei Parti. 

Emissari dei nobili tentarono di uccidere il nuovo re, durante il riposo notturno; ma il tentativo di regicidio non ebbe successo, tuttavia le richieste ad Artabano di tornare al potere si moltiplicarono e, nonostante una iniziale ritrosia dovuta al sospetto di leggerezza e volubilità della richiesta, alla fine il vecchio Re si persuase che la richiesta  era sincera e che al di là della devozione nei suoi confronti il malcontento verso Tiridate era: reale, pronunziato e tangibile.

Finalmente deciso, prese in mano la cospirazione ed assicuratosi il servizio di un corpo di Danae ed altri Scizi, marciò verso Occidente cercando di recuperare alla sua causa quanti più Parti fosse possibile togliendoli dalle file nemiche.

Encomiabile la sua politica, suffragata da movimenti rapidi ed imprevisti che turbarono ed agitarono Tiridate ed i suoi sostenitori non pochi dei quali erano propensi per un attacco altrettanto immediato ed improvviso alle truppe di Artabano prima che si riprendessero dalle fatiche della lunga marcia.

Più prudentemente altri consigliarono, tra questi Abdagases, il capo visir, di ritirarsi in Mesopotamia e lì attendere l’arrivo delle avanguardie Armene e le truppe Romane che Vitellio, appena saputo del ritorno di Artabano, aveva inviato a Tiridate.

Ritirarsi per meglio attaccare è una massima che vale solo in Occidente, in Oriente l’inizio di una ritirata è l’inizio della rovina; dopo il passaggio del Tigri, la marcia attraverso la Mesopotamia fu per l’esercito di Tiridate come lo sciogliersi di una montagna di ghiaccio  trascinata dalla corrente del golfo.

Gli Arabi del deserto Mesopotamico furono i primi ad eclissarsi; la vicinanza delle loro dimore esercitò su di essi una attrazione irresistibile ed il loro esempio fu presto seguito dal resto dell’armata, che tornò alle proprie case anche se molti anziché dirigersi verso le loro terre, andarono ad ingrossare le fila del nemico.

Alla fine Tiridate, con la manciata di sostenitori rimasti a lui fedeli si affrettò a raggiungere la Siria, ponendosi sotto protezione Romana.

Il tentativo di Tiberio di mettere sul trono degli Arsacidi un Re fantoccio non andò a buon fine e si ritorse contro Roma stessa a tutto vantaggio di un principe ormai settantasettenne che aveva rivendicato a lungo l’onore della Partia, contro lo strapotere occidentale, con abilità e coraggio.

Quando Artabano, dopo varie vicissitudini, ritornò sul trono del popolo Partico era un uomo oramai svuotato che non aveva più la volontà di riproporsi nelle  grandi imprese del passato; non fece ulteriori tentativi per contrastare il potere di Mitridate sull’Armenia e lasciò che Vitellio si muovesse liberamente sull’Eufrate.

Verso la fine del 36 A.D. od agli inizi del 37 A.D. si incontrò, in mezzo all’Eufrate, su di un isolotto, con il Proconsole Romano ed in quell’occasione confermò la sua rinuncia ai diritti sul Regno degli Armeni, chiese anzi che uno dei suoi figli: Dario fosse accettato a Roma, in una posizione che Roma ritenne di “Ostaggio”  e che i Romani intesero come di sottomissione ed omaggio alla potenza della “Città Eterna”.

Artabano, con queste concessioni, di cui forse neppure più  si rendeva conto, portò il prestigio del popolo Partico ad un così basso livello, mai prima raggiunto e concesse a Roma la preminenza che mai nessun sovrano prima di lui, in nessun altro periodo della storia della Partia aveva concesso.

Non siamo sorpresi del fatto che il credito di questo accordo sia stato attribuito a Caligola, nipote dell’Imperatore, succedutogli nel Marzo del 37 A.D. il cui nome compare negli atti di negoziazione, riteniamo tuttavia che nella realtà il merito vada attribuito a Tiberio.

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Dopo l’indegna sottomissione a Vitellio, Artabano 3° non restò a lungo sul trono della Partia; l’azione  aveva disgustato i sudditi a tal punto che espressero il loro malcontento in mormorii che si fecero via, via, aperte prese di posizione sino a diventare minaccia di rivolta.

Il Re venuto a conoscenza della fronda adottò severe misure di repressione verso i dissidenti che vieppiù videro ingrossarsi le loro file ed alla fine, come sempre avviene, i malumori divennero aperta cospirazione.

Artabano, incapace di bloccare il movimento lasciò la capitale e si ritirò alla corte di Izates, Re tributario dell’Adiabene, che gli offrì ospitalità promettendo di riportarlo sul trono dal quale era stato cacciato.

Josuphus ci informa che Izates e la madre Elena si erano convertiti all’ebraismo e nutrirono tanta affezione per il popolo ebraico da aver inviato forniture di cereali a Gerusalemme quando, nel 44 A.D. era minacciata dalla carestia.

Dopo che Artabano si era ritirato presso Izates i magistrati dei Parti avevano eletto al suo posto un certo Kinnamus o Cinnamus che aveva lontane relazioni con la vecchia casa regnante.

Tra il vecchio monarca ed il nuovo ne sarebbe scaturita, con ogni probabilità, una guerra se Cinnamus, sponte sua non avesse rinunziato al titolo ed anzi invitato il vecchio sovrano a rientrare in Partia.

Artabano tornò e Cinnamus, al colmo della magnanimità si tolse il diadema dalla testa per porlo egli stesso sulla fronte del vecchio monarca, salutandolo come Re

Come garanzia di questo ritorno, sia da parte di Artabano che di Izates, c’era l’amnistia totale e completa per i reati politici.

Questo gesto di mitezza, tanto inusuale presso i Parti, lo si dovette soprattutto alla volontà del giudeo Izates.

Artabano sembra sia passato a miglior vita poco dopo il suo rientro in patria e gli ultimi giorni del suo regno furono segnati dalla rivolta di Seleucia, la più importante città greca del suo vasto impero.

Le condizioni in cui versava la Partia, in quel tempo, erano di estrema instabilità dovuta alle frequenti rivolte, alle occasionali guerre civili ed alla manifesta tendenza alla disintegrazione, in queste condizioni i Greci, insofferenti da sempre al giogo dei barbari, credettero fosse giunto il momento di reclamare la propria indipendenza; Seleucia aveva preso il comando della ribellione e riuscì a proclamarsi libera.

Altri centri minori come: Apollonia, Nicephorum, Edessa, Carrhae avrebbero voluto seguirne l’esempio, magari chiamando Roma in proprio soccorso; ma man, mano che il tempo passava i Parti, per quanto indeboliti ripresero in mano la situazione; Roma si mantenne neutrale e Seleucia godette della propria indipendenza per la breve stagione di sei anni: dal 40 al 46 A.D. prima di dover soccombere  al figlio di Artabano 3° e tornare  ad essere soggetta al vecchio impero.

Alla morte di Artabano la successione vide coinvolti i due figli del monarca: Vardanes e Gotarzes.

Secondo Josepho la corona passò inizialmente al primo che era presumibilmente anche in meno giovane dei due; ma questi era lontano mentre Gotarzes era presente nella capitale e principe ambizioso qual’era, colse l’opportunità per occupare il trono della Partia.

Moneta di Gotarzes

Il regno di Gotarzes non durò che poche settimane, non appena insidiatisi infatti mandò a morte un  terzo figlio di Artabano 3° assieme alla moglie ed ai figli e nel contempo palesò evidenti predisposizioni tiranniche tanto che i sudditi, allarmati si rivolsero a Vardanes per offrirgli la corona imperiale.

Questi, uomo d’azione, non mise tempo in mezzo e dopo aver percorso, con le truppe qualcosa come 350 miglia in due giorni, sollevò Gotarzes dal trono.

Ricevette la sottomissione delle province e delle città, con la sola eccezione di Seleucia che continuava strenuamente a mantenere la propria indipendenza.

Nel frattempo Gotarzes si era rifugiato presso i Dahae, nella regione del Caspio, dove trovò supporto e protezione.

I Dahae non erano sottoposti ai Parti e poterono dare rifugio sicuro ed asilo a Gotarzes il quale rinfrancato iniziò ad intrigare con i vicini Hycarniani perché allentassero la loro alleanza con il fratello ed assieme a lui costituissero un esercito in grado di fargli recuperare il trono della Partia.

Vardanes che era intento all’assedio di Seleucia dovette ritirarsi e marciare di persona verso il lontano Est.

I due eserciti erano l’uno di fronte all’altro, schierati a battaglia senonchè, prima che il combattimento avesse inizio i comandanti dei due rispettivi esercito fecero in modo di incontrarsi per abbozzare un piano di pace Gotarzes era infatti venuto a conoscenza del fatto che i capi della nobiltà, di entrambe le fazioni si erano accordati per sbarazzarsi di tutti e due i fratelli ed eleggere al loro posto un nuovo Re.

Dopo aver informato del fatto il fratello gli propose un incontro segreto per presentargli le prove tangibili e cercare assieme di sviluppare un progetto per l’avvenire.

Gotarzes era disposto a rinunziare alla Partia purchè gli fosse stato concesso il governo dell’Hycarnia e così fu.

Vardanes tornò verso Occidente e riprese le operazioni contro la ribelle Seleucia e nel 46 A.D. a sei anni dall’insurrezione della città se ne impadronì.

Sentendosi ormai sicuro sul trono, senza più disturbi da parte del fratello, Vardanes sentì che era giunto il momento di dar vita ad una nuova importante impresa: il recupero dell’Armenia dal dominio di  Roma

Moneta di Vardanes

Nel 37 A.D. Artabano 3° aveva lasciato a Tiberio l’Armenia e questi l’aveva posta sotto il governo di Mitridate, un Iberiano che, non aveva incontrato il favore del popolo Armeno il quale, dopo infinite vicissitudini, era adesso deciso a scrollarsi di dosso il peso di questo governante e di Roma che lo sosteneva.

Per Vardanes non ci sarebbero state grosse difficoltà a cacciare Mitridate, oramai vecchio ed infiacchito e riportare l’Armenia sotto l’influenza dei Parti; ma per avere successo nell’impresa doveva avere la condivisione ed il supporto dei suoi principali feudatari, soprattutto del grande Izates che aveva visto ricompensati i servigi che aveva prestato ad Artabano 3° con un importante allargamento dei suoi domini ed era adesso Re sia di Adiabene che di Gordyene; praticamente di tutta l’alta Mesopotamia.

Vardanes gli chiese espressamente consiglio e di esprimere la sua opinione in proposito circa l’operazione ch’era in procinto di compiere.

Izates si disse contrario ed oppose netta opposizione all’intervento; era convinto della superiorità della forza militare di Roma e non voleva assolutamente entrare in contrasto con la grande potenza Occidentale, inoltre aveva motivi personali per defilarsi dal progetto di Vardanes in quanto ben cinque dei suoi figli vivevano a Roma dove erano stati mandati per ricevere una educazione politica migliore.

Il rifiuto di Izates fu considerato da Vardanes come una vera e propria ribellione ed indignato iniziò le ostilità contro il suo feudatario.

Fu probabilmente questo stato di cose che indusse Gotarzes ad uscire dal suo ritiro in Hycarnia  per reclamare nuovamente il trono della Partia; una richiesta sollecitata da molti nobili che nello scontro tra Vardanes ed Isates più che schierarsi dalla parte di quest’ultimo avevano preso le distanze da Vardanes e richiedevano ora il ritorno al potere di Gotarzes.

Vardanes, per la seconda volta fu costretto a riprendere la via dell’Est e  tra il Caspio ed Herat gli eserciti dei due contendenti si scontrarono più di una volta e sempre Vardanes ne uscì vittorioso; ma i successi ottenuti sul campo furono vanificati dall’avversione dei sudditi nei suoi confronti e sulla via del ritorno  molti di loro, a dispetto della gloria acquisita sul campo, gli cospirarono contro, lo tradirono e passarono nelle file nemiche sino a che alla fine, Gotarzes venne acclamato Re e per qualche anno regnò in pace sul paese.

Come tutti o quasi i Parti, Gotarzes aveva la comune tendenza alla crudeltà ed al sospetto cui aggiunse di suo l’indolenza e la lussuria sì che in breve tempo si alienò l’affetto dei sudditi che fra l’altro gli rimproverarono ora gli insuccessi militari conseguiti nelle poche quasi insignificanti spedizioni militari intraprese.

Il 49 A.D. vide diversi tentativi per allontanare dal regno l’incubo di un Re decisamente malvagio.

L’imperatore romano: Claudio era favorevole ad aiutare i Parti…. “Amici ed alleati” “Il ruolo di Gotarzes, egli disse, è diventato intollerabile per la nobiltà e per il popolo; ha ucciso tutti, o quasi, i parenti maschi  a lui più vicini che avrebbero potuto aspirare al trono della Partia ed il suo crudele sospetto ha colpito anche parenti lontani.

I fratelli, le loro mogli ed i figli furono oggetto delle sue cattive  intenzioni; pigro nelle abitudini, sfortunato in guerra, portato alla crudeltà, nessun uomo di valore poteva non disprezzarlo nel più profondo dell’anima.

I Parti sapevano che  Roma ed il loro Stato erano uniti da un trattato di cui non desideravano la rottura ma erano anche a conoscenza del fatto che a Roma vivevano Arsacidi , chiedevano pertanto che fosse mandato loro un Arsacide, degno di governare, da sostituire al sovrano di cui pativano la tirannide.

La loro scelta indicava Meherdate, figlio di Vanones e nipote di Phraate 4° che da lungo tempo risiedeva in Roma ed aveva acquisito una educazione “Alla romana” che lo portava ad avere un  comportamento moderato e giusto”

Questo discorso fu pronunciato in Senato, davanti all’Imperatore Claudio presente anche Meherdate: il candidato al trono della Partia.

L’imperatore dette e responso favorevole… “ Occorre seguire l’esempio del Divino Augusto e lasciare che i Parti ricevano da Roma il monarca che hanno richiesto; questo principe, educato in città, ha sempre dimostrato moderazione e riteniamo che il suo comportamento, nella sua nuova posizione, sarà quello di un gestore di civiltà e non un capo di schiavi; clemenza e giustizia, di cui i Parti hanno sin qui avuto ben poca esperienza, saranno apprezzate dall’intero popolo.

Meherdate, nel suo viaggio verso il paese degli  avi sarà accompagnato da un Romano di Rango: Caio Cassio, prefetto della Siria che lo aiuterà a passare in Sicurezza l’Eufrate”  

Meherdate vide così svilupparsi sotto i migliori auspici il suo sogno di Re.

Nella Partia trovò un gran numero di fedeli alla sua causa, era sostenuto dal nome di Roma ed aveva il supporto tangibile di un Romano importante, ben inserito all’Est, con buon ascendente sulla popolazione locale.

Appena giunto a Zeuma, sull’Eufrate trovò molti nobili Parti che erano venuti a dargli il benvenuto ed a cui si erano uniti importanti personaggi locali, tra cui Abgaro, Re degli Osrhoeniani e suo tributario nella zona occidentale del paese il quale  presiedè al passaggio dell’Eufrate sulla sponda orientale del fiume, con tutta probabilità nelle vicinanze di Khabour  o di Ras el Aim.

Il personale consiglio di Cassio al suo protetto, fu quello di aggredire militarmente subito il suo rivale giacchè disse i barbari sono sempre impetuosi al primo attacco; ma se erano respinti o bloccati subentrava il rilassamento e perdevano l’energia necessaria a combattere.

Meherdate tuttavia, come a suo tempo Crasso, cadde sotto l’influenza di Abgaro che pare fosse un traditore, determinato sin dall’inizio a portare il giovane principe pretendente alla rovina.

Convinto da questo Re tributario traditore, Meherdate fu inizialmente indotto a perdere tempo prezioso ad Edessa, capitale di Oshroene, coinvolto in una serie infinita di feste, banchetti e ricevimenti e quando finalmente riuscì a svincolarsi ed iniziare la marcia verso il suo antagonista, invece di attraversare direttamente la Mesopotamia e puntare su Ctesifonte, prese la tortuosa e difficile via dell’Armenia che, seguendo il corso del Tigri, passava per Diarbek, Til e Jezireh.

La marcia fu ritardata dalle difficoltà incontrate su strade innevate e passi montani ardui da superare.

 Gotarzes ebbe tutto il tempo necessario per raccogliere nuove truppe e disporle nel modo che più riteneva opportuno per affrontare il nemico.

Ancora una volta la fortuna arrise al principe pretendente; quando raggiunse  Adiabene,  Izates, il potente monarca di quel regno abbracciò la sua causa e  gli mise a disposizione un nutrito contingente di truppa.

Procedendo verso Ctesifonte,  Meherdate riuscì ad impossessarsi della fortezza che occupava l’antico sito di  Ninive ed anche di Arbela prima  di trovarsi di fronte al suo avversario; ma Gotarzes non era disposto a giocarsi il regno in una battaglia campale senza essere sicuro della vittoria.

Si mise sulla difensiva, sulla sponda opposta del fiume Corma, per non essere provocato o tentato allo scontro e lì attese i rinforzi che non tardarono a giungere.

Sorse a questo punto in lui la speranza di trarre dalla sua parte od al massimo persuadere alla neutralità parte delle forze del suo antagonista ed a questo scopo inviò emissari a coloro che avevano sposato la causa di Meherdate.

Dopo breve esitazione sia Izates che il traditore Abgaro, ritirarono le loro truppe ed abbandonarono il giovane principe al suo destino.

Meherdate nel timore che altre defezioni potessero seguire decise di ritirarsi; ma Gotarzes, a questo punto, sicuro della vittoria, scese in campo e diede battaglia.

Fu bloccato al primo impeto e fortemente contrastato sino a quando il comandante dell’esercito di Meherdate, mentre si prodigava nell’inseguimento delle truppe nemiche respinte;  fu intercettato dal grosso dell’esercito di Gotarzes,  fatto prigioniero e forse ucciso, in ogni caso questo sfortunato episodio decise le sorti della battaglia.

Come sempre accade in Oriente la perdita del comandante creò panico e scoramento tra i soldati che non più inquadrati si dispersero in tutte le direzioni diventando facile preda del nemico.

Meherdate nella fuga si fidò di un certo Parrhaces; ma cadde in mano al nemico e catturato fu consegnato a Gotarzes che si dice, mosso a pietà per il giovane principe, non lo punì come di solito venivano puniti i ribelli od i pretendenti al trono; ma si limitò ad infliggergli quelle lievi mutilazioni ( taglio delle orecchie) sufficienti, secondo l’uso Orientale a privarlo della capacità di regnare.

La vittoria mise fine alle rivendicazioni e parve a Gotarzes che fosse degna d’essere immortalata.

I Parti non hanno mai avuto una particolare predilezione per l’arte e raramente indulgevano a rappresentazioni artistiche degli eventi caratterizzanti la loro storia; ma  Gotarzes, in quell’occasione prese la decisione di commemorare l’avvenimento sulla roccia a memoria dei posteri.

Sulla montagna sacra di Behistun ( in origine Baghistan ovvero il paradiso degli Dei) che era adornata con sculture che rappresentavano il Re Achemenide: Dario, figlio di Hystapses, con due attendenti nell’atto di ricevere doni dai ribelli assoggettati, ordinò che venisse eseguita una seconda scultura, invero molto più piccola, rappresentativa delle sue imprese.

Il Re appare a cavallo, con una robusta lancia nella mano destra, mentre una vittoria alata lo cinge con il diadema; davanti a lui, l’esercito galoppa nel piano allo inseguimento del nemico in fuga.

Alcune di queste figure sono ordinate a formare una processione di fanti mentre l’iscrizione sia in greco che in lingua spiega lo scopo del monumento.

L’iscrizione è oggi quasi illeggibile; ma quando fu rinvenuta per al prima volta riportava, in due diversi posti, il nome di Gotarzes ed in un posto quello di Mithrates, chiara traslitterazione di Meherdate.

Gotarzes sembra che non sia vissuto a lungo dopo questa vittoria e secondo fonti attendibili la sua dipartita sarebbe avvenuta nel 50 A.D.

A sentir Tacito il trapasso fu naturale, a seguito di malattia; ma Josepho dice invece che il Re morì di morte violenta a seguito di una cospirazione, se così fosse non c’è da farsene meraviglia data l’impopolarità che godeva tra i sudditi; ma Tacito è autorità storica che non può essere messa in discussione ed il suo: “ Morbo obiit” chiude ogni illazione sul caso.

Durante il regno di questo sovrano la disorganizzazione nello stato deve aver raggiunto livelli elevati, ne sono conferma la facilità con cui Roma ebbe modo di intervenire negli affari interni degli stati confinanti al paese e promuovere in Partia  stati di agitazione e  torbidi che spinsero gli stessi Parti all’intrigo ed alla confusione, sfociata poi nella guerra civile.

Va da sé come un simile stato di cose abbia portato all’esaurimento delle risorse dell’impero che da questo momento, sebbene non rapido, ha visto sempre più accrescersi e divenire irreversibile, quel processo di disgregazione che nel giro dei due secoli successivi, nonostante gli sforzi e la tenacia caratteristica della razza turanica, lo portò all’annientamento.

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Dal diario di viaggio: Quindicesimo giorno, I Parti al tempo di Augusto

 

 

Dopo l’indegna sottomissione a Vitellio,  Artabano 3° non restò a lungo sul trono della Partia; l’azione  aveva disgustato i sudditi a tal punto che espressero il loro malcontento in mormorii che si fecero via, via, aperte prese di posizione sino a diventare minaccia di rivolta.

Il Re venuto a conoscenza della fronda adottò severe misure di repressione verso i dissidenti che vieppiù videro ingrossarsi le loro file ed alla fine, come sempre avviene, i malumori divennero aperta cospirazione.

Artabano, incapace di bloccare il movimento lasciò la capitale e si ritirò alla corte di Izates, Re tributario dell’Adiabene, che gli offrì ospitalità promettendo di riportarlo sul trono dal quale era stato cacciato.

Josuphus ci informa che Izates e la madre Elena si erano convertiti all’ebraismo e nutrirono tanta affezione per il popolo ebraico da aver inviato forniture di cereali a Gerusalemme quando, nel 44 A.D. era minacciata dalla carestia.

Dopo che Artabano si era ritirato presso Izates i magistrati dei Parti avevano eletto al suo posto un certo Kinnamus o Cinnamus che aveva lontane relazioni con la vecchia casa regnante.

Tra il vecchio monarca ed il nuovo ne sarebbe scaturita, con ogni probabilità, una guerra se Cinnamus, sponte sua non avesse rinunziato al titolo ed anzi invitato il vecchio sovrano a rientrare in Partia.

Artabano tornò e Cinnamus, al colmo della magnanimità si tolse il diadema dalla testa per porlo egli stesso sulla fronte del vecchio monarca, salutandolo come Re.

Come garanzia di questo ritorno, sia da parte di Artabano che di Izates, c’era l’amnistia totale e completa per i reati politici.

Questo gesto di mitezza, tanto inusuale presso i Parti, lo si dovette soprattutto alla volontà del giudeo Izates.

Artabano sembra sia passato a miglior vita poco dopo il suo rientro in patria e gli ultimi giorni del suo regno furono segnati dalla rivolta di Seleucia, la più importante città greca del suo vasto impero.

Le condizioni in cui versava la Partia, in quel tempo, erano di estrema instabilità dovuta alle frequenti rivolte, alle occasionali guerre civili ed alla manifesta tendenza alla disintegrazione, in queste condizioni i Greci, insofferenti da sempre al giogo dei barbari, credettero fosse giunto il momento di reclamare la propria indipendenza; Seleucia aveva preso il comando della ribellione e riuscì a proclamarsi libera.

Altri centri minori come: Apollonia, Nicephorum, Edessa, Carrhae avrebbero voluto seguirne l’esempio, magari chiamando Roma in proprio soccorso; ma man, mano che il tempo passava i Parti, per quanto indeboliti ripresero in mano la situazione; Roma si mantenne neutrale e Seleucia godette della propria indipendenza per la breve stagione di sei anni: dal 40 al 46 A.D. prima di dover soccombere  al figlio di Artabano 3° e tornare  ad essere soggetta al vecchio impero.

Alla morte di Artabano la successione vide coinvolti i due figli del monarca: Vardanes e Gotarzes.

Secondo Josepho la corona passò inizialmente al primo che era presumibilmente anche in meno giovane dei due; ma questi era lontano mentre Gotarzes era presente nella capitale e principe ambizioso qual’era, colse l’opportunità per occupare il trono della Partia.

Moneta di Gotarzes

Il regno di Gotarzes non durò che poche settimane, non appena insidiatisi infatti mandò a morte un  terzo figlio di Artabano 3° assieme alla moglie ed ai figli e nel contempo palesò evidenti predisposizioni tiranniche tanto che i sudditi, allarmati si rivolsero a Vardanes per offrirgli la corona imperiale.

Questi, uomo d’azione, non mise tempo in mezzo e dopo aver percorso, con le truppe qualcosa come 350 miglia in due giorni, sollevò Gotarzes dal trono.

Ricevette la sottomissione delle province e delle città, con la sola eccezione di Seleucia che continuava strenuamente a mantenere la propria indipendenza.

Nel frattempo Gotarzes si era rifugiato presso i Dahae, nella regione del Caspio, dove trovò supporto e protezione.

I Dahae non essendo sottoposti ai Parti  poterono dare rifugio sicuro ed asilo a Gotarzes il quale rinfrancato iniziò ad intrigare con i vicini Hycarniani perché allentassero la loro alleanza con il fratello ed assieme a lui costituissero un esercito in grado di fargli recuperare il trono della Partia.

Vardanes che era intento all’assedio di Seleucia dovette ritirarsi e marciare di persona verso il lontano Est.

I due eserciti erano l’uno di fronte all’altro, schierati a battaglia senonchè, prima che il combattimento avesse inizio i comandanti dei due rispettivi eserciti fecero in modo di incontrarsi per abbozzare un piano di pace Gotarzes era infatti venuto a conoscenza del fatto che i capi della nobiltà, di entrambe le fazioni si erano accordati per sbarazzarsi di tutti e due i fratelli ed eleggere al loro posto un nuovo Re.

Dopo aver informato del fatto il fratello gli propose un incontro segreto per presentargli le prove tangibili e cercare assieme di sviluppare un progetto per l’avvenire.

Gotarzes era disposto a rinunziare alla Partia purchè gli fosse stato concesso il governo dell’Hycarnia e così fu.

Vardanes tornò verso Occidente e riprese le operazioni contro la ribelle Seleucia e nel 46 A.D. a sei anni dall’insurrezione della città se ne impadronì.

Sentendosi ormai sicuro sul trono, senza più disturbi da parte del fratello, sentì che era giunto il momento di dar vita ad una nuova importante impresa: il recupero dell’Armenia dal dominio di  Roma

Moneta di Vardanes

Nel 37 A.D. Artabano 3° aveva lasciato a Tiberio l’Armenia e questi l’aveva posta sotto il governo di Mitridate, un Iberiano che, non aveva incontrato il favore del popolo Armeno il quale, dopo infinite vicissitudini, era adesso deciso a scrollarsi di dosso il peso di questo governante e di Roma che lo sosteneva.

Per Vardanes non ci sarebbero state grosse difficoltà a cacciare Mitridate, oramai vecchio ed infiacchito e riportare l’Armenia sotto l’influenza dei Parti; ma per avere successo nell’impresa doveva avere la condivisione ed il supporto dei suoi principali feudatari, soprattutto del grande Izates che aveva visto ricompensati i servigi che aveva prestato ad Artabano 3° con un importante allargamento dei suoi domini ed era adesso Re sia di Adiabene che di Gordyene; praticamente di tutta l’alta Mesopotamia.

Vardanes gli chiese espressamente consiglio e di esprimere la sua opinione in proposito circa l’operazione ch’era in procinto di compiere.

Izates si disse contrario ed oppose netta opposizione all’intervento; era convinto della superiorità della forza militare di Roma e non voleva assolutamente entrare in contrasto con la grande potenza Occidentale, inoltre aveva motivi personali per defilarsi dal progetto di Vardanes in quanto ben cinque dei suoi figli vivevano a Roma dove erano stati mandati per ricevere una educazione politica migliore.

Il rifiuto di Izates fu considerato da Vardanes come una vera e propria ribellione ed indignato iniziò le ostilità contro il suo feudatario.

Fu probabilmente questo stato di cose che indusse Gotarzes ad uscire dal suo ritiro in Hycarnia  per reclamare nuovamente il trono della Partia; una richiesta sollecitata da molti nobili che nello scontro tra Vardanes ed Isates più che schierarsi dalla parte di quest’ultimo avevano preso le distanze da Vardanes e richiedevano ora il ritorno al potere di Gotarzes.

Vardanes, per la seconda volta fu costretto a riprendere la via dell’Est e  tra il Caspio ed Herat gli eserciti dei due contendenti si scontrarono più di una volta e sempre Vardanes ne uscì vittorioso; ma i successi ottenuti sul campo furono vanificati dall’avversione dei sudditi nei suoi confronti e sulla via del ritorno  molti di loro, a dispetto della gloria acquisita sul campo, gli cospirarono contro, lo tradirono e passarono nelle file nemiche sino a che alla fine, Gotarzes venne acclamato Re e per qualche anno regnò in pace sul paese.

Come tutti o quasi i Parti, Gotarzes aveva la comune tendenza alla crudeltà ed al sospetto cui aggiunse di suo l’indolenza e la lussuria sì che in breve tempo si alienò l’affetto dei sudditi che fra l’altro gli rimproverarono ora gli insuccessi militari conseguiti nelle poche quasi insignificanti spedizioni militari intraprese.

Il 49 A.D. vide diversi tentativi per allontanare dal regno l’incubo di un Re decisamente malvagio.

L’imperatore romano: Claudio era favorevole ad aiutare i Parti…. “Amici ed alleati” “Il ruolo di Gotarzes, egli disse, è diventato intollerabile per la nobiltà e per il popolo; ha ucciso tutti, o quasi, i parenti maschi  a lui più vicini che avrebbero potuto aspirare al trono della Partia ed il suo crudele sospetto ha colpito anche parenti lontani.

I fratelli, le loro mogli ed i figli furono oggetto delle sue cattive  intenzioni; pigro nelle abitudini, sfortunato in guerra, portato alla crudeltà, nessun uomo di valore poteva non disprezzarlo nel più profondo dell’anima.

I Parti sapevano che  Roma ed il loro Stato erano uniti da un trattato di cui non desideravano la rottura ma erano anche a conoscenza del fatto che a Roma vivevano Arsacidi , chiedevano pertanto che fosse mandato loro un Arsacide, degno di governare, da sostituire al sovrano di cui pativano la tirannide.

La loro scelta indicava Meherdate, figlio di Vanones e nipote di Phraate 4° che da lungo tempo risiedeva in Roma ed aveva acquisito una educazione “Alla romana” che lo portava ad avere un  comportamento moderato e giusto”

Questo discorso fu pronunciato in Senato, davanti all’Imperatore Claudio presente anche Meherdate: il candidato al trono della Partia.

L’imperatore dette e responso favorevole… “ Occorre seguire l’esempio del Divino Augusto e lasciare che i Parti ricevano da Roma il monarca che hanno richiesto; questo principe, educato in città, ha sempre dimostrato moderazione e riteniamo che il suo comportamento, nella nuova posizione, sarà quello di un gestore di civiltà e non un capo di schiavi; clemenza e giustizia, di cui i Parti hanno sin qui avuto ben poca esperienza, saranno apprezzate dall’intero popolo.

Meherdate, nel suo viaggio verso il paese degli  avi sarà accompagnato da un Romano di Rango: Caio Cassio, prefetto della Siria che lo aiuterà a passare in Sicurezza l’Eufrate”  

Meherdate vide così svilupparsi sotto i migliori auspici il suo sogno di Re.

Nella Partia trovò un gran numero di fedeli alla sua causa, era sostenuto dal nome di Roma ed aveva il supporto tangibile di un Romano importante, ben inserito all’Est, con buon ascendente sulla popolazione locale.

Appena giunto a Zeuma, sull’Eufrate trovò molti nobili Parti che erano venuti a dargli il benvenuto ed a cui si erano uniti importanti personaggi locali, tra cui Abgaro, Re degli Osrhoeniani e suo tributario nella zona occidentale del paese il quale  presiedè al passaggio dell’Eufrate sulla sponda orientale del fiume, con tutta probabilità nelle vicinanze di Khabour  o di Ras el Aim.

Il personale consiglio di Cassio al suo protetto, fu quello di aggredire militarmente subito il suo rivale giacchè disse i barbari sono sempre impetuosi al primo attacco; ma se erano respinti o bloccati subentrava il rilassamento e perdevano l’energia necessaria a combattere.

Meherdate tuttavia, come a suo tempo Crasso, cadde sotto l’influenza di Abgaro che pare fosse un traditore, determinato sin dall’inizio a portare il giovane principe pretendente alla rovina.

Convinto da questo Re tributario traditore, Meherdate fu inizialmente indotto a perdere tempo prezioso ad Edessa, capitale di Oshroene, coinvolto in una serie infinita di feste, banchetti e ricevimenti e quando finalmente riuscì a svincolarsi ed iniziare la marcia verso il suo antagonista, invece di attraversare direttamente la Mesopotamia e puntare su Ctesifonte, prese la tortuosa e difficile via dell’Armenia che, seguendo il corso del Tigri, passava per Diarbek, Til e Jezireh.

La marcia fu ritardata dalle difficoltà incontrate su strade innevate e passi montani ardui da superare.

 Gotarzes ebbe tutto il tempo necessario per raccogliere nuove truppe e disporle nel modo che più riteneva opportuno per affrontare il nemico.

Ancora una volta la fortuna arrise al principe pretendente; quando raggiunse  Adiabene,  Izates, il potente monarca di quel regno abbracciò la sua causa e  gli mise a disposizione un nutrito contingente di truppa.

Procedendo verso Ctesifonte,  Meherdate riuscì ad impossessarsi della fortezza che occupava l’antico sito di  Ninive ed anche di Arbela prima  di trovarsi di fronte al suo avversario; ma Gotarzes non era disposto a giocarsi il regno in una battaglia campale senza essere sicuro della vittoria.

Si mise sulla difensiva, sulla sponda opposta del fiume Corma, per non essere provocato o tentato allo scontro e lì attese i rinforzi che non tardarono a giungere.

Sorse a questo punto in lui la speranza di trarre dalla sua parte od al massimo persuadere alla neutralità parte delle forze del suo antagonista ed a questo scopo inviò emissari a coloro che avevano sposato la causa di Meherdate.

Dopo breve esitazione sia Izates che il traditore Abgaro, ritirarono le loro truppe ed abbandonarono il giovane principe al suo destino.

Meherdate nel timore che altre defezioni potessero seguire decise di ritirarsi; ma Gotarzes, a questo punto, sicuro della vittoria, scese in campo e diede battaglia.

Fu bloccato al primo impeto e fortemente contrastato sino a quando il comandante dell’esercito di Meherdate, mentre si prodigava nell’inseguimento delle truppe nemiche respinte;  fu intercettato dal grosso dell’esercito di Gotarzes,  fatto prigioniero e forse ucciso, in ogni caso questo sfortunato episodio decise le sorti della battaglia.

Come sempre accade in Oriente la perdita del comandante creò panico e scoramento tra i soldati che non più inquadrati si dispersero in tutte le direzioni diventando facile preda del nemico.

Meherdate nella fuga si fidò di un certo Parrhaces; ma cadde in mano al nemico e catturato fu consegnato a Gotarzes che si dice, mosso a pietà per il giovane principe, non lo punì come di solito venivano puniti i ribelli od i pretendenti al trono; ma si limitò ad infliggergli quelle lievi mutilazioni ( taglio delle orecchie) sufficienti, secondo l’uso Orientale a privarlo della capacità di regnare.

La vittoria mise fine alle rivendicazioni e parve a Gotarzes che fosse degna d’essere immortalata.

I Parti non hanno mai avuto una particolare predilezione per l’arte e raramente indulgevano a rappresentazioni artistiche degli eventi caratterizzanti la loro storia; ma  Gotarzes, in quell’occasione prese la decisione di commemorare l’avvenimento sulla roccia a memoria dei posteri.

Sulla montagna sacra di Behistun ( in origine Baghistan ovvero il paradiso degli Dei) che era adornata con sculture che rappresentavano il Re Achemenide: Dario, figlio di Hystapses, con due attendenti nell’atto di ricevere doni dai ribelli assoggettati, ordinò che venisse eseguita una seconda scultura, invero molto più piccola, rappresentativa delle sue imprese.

Il Re appare a cavallo, con una robusta lancia nella mano destra, mentre una vittoria alata lo cinge con il diadema; davanti a lui, l’esercito galoppa nel piano allo inseguimento del nemico in fuga.

Alcune di queste figure sono ordinate a formare una processione di fanti mentre l’iscrizione sia in greco che in lingua spiega lo scopo del monumento.

L’iscrizione è oggi quasi illeggibile; ma quando fu rinvenuta per al prima volta riportava, in due diversi posti, il nome di Gotarzes ed in un posto quello di Mithrates, chiara traslitterazione di Meherdate.

Gotarzes sembra che non sia vissuto a lungo dopo questa vittoria e secondo fonti attendibili la sua dipartita sarebbe avvenuta nel 50 A.D.

A sentir Tacito il trapasso fu naturale, a seguito di malattia; ma Josepho dice invece che il Re morì di morte violenta a seguito di una cospirazione, se così fosse non c’è da farsene meraviglia data l’impopolarità che godeva tra i sudditi; ma Tacito è autorità storica che non può essere messa in discussione ed il suo: “ Morbo obiit” chiude ogni illazione sul caso.

Durante il regno di questo sovrano la disorganizzazione nello stato deve aver raggiunto livelli elevati, ne sono conferma la facilità con cui Roma ebbe modo di intervenire negli affari interni degli stati confinanti al paese e promuovere in Partia  stati di agitazione e  torbidi che spinsero gli stessi Parti all’intrigo ed alla confusione, sfociata poi nella guerra civile.

Va da sé come un simile stato di cose abbia portato all’esaurimento delle risorse dell’impero che da questo momento, sebbene non rapido, ha visto sempre più accrescersi e divenire irreversibile, quel processo di disgregazione che nel giro dei due secoli successivi, nonostante gli sforzi e la tenacia caratteristica della razza turanica, lo portò all’annientamento.

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Dal diario di viaggio: Sedicesimo giorno,  La Partia al tempo di Nerone  (Vologases 1° e Corbulo)

 

A Gorazes era succeduto, sul trono della Partia un Arsacide chiamato Vanones, noto alla storia come: Vanones 2° che tuttavia non riuscì a regnare per più di due mesi ed è ricordato soprattutto perché padre di tre Re molto più celebri di lui: Vologases 1° Re della Partia; Tiridate Re dell’Armenia e Pacoro Re della Media.

Secondo l’anagrafe  pare che Tiridate fosse il primogenito, Pacoro il secondo e Vologases il più giovane dei tre fratelli.

Alla morte del padre i fratelli maggiori cedettero il trono al più giovane che si dice fosse figlio di Vanones e di una concubina greca;

Vologases aveva evidentemente dato segnali di maggiore capacità di governo, con ogni probabilità dovuta al sangue straniero che scorreva nelle sue vene, capacità che i primi due non si riconoscevano.

Vologases,  tra il 50 A.D. ed il 51 A.D. salì al trono ed abilmente ricompensò Pacoro, per la sua accondiscendenza conferendogli, quasi totalmente, il governo della Media.

 

 

(Tetradracma d’Argento di Vologases 1°)

 

A Tiridate riservò qualcosa di più meritevole per importanza e dignità.

L’opportunità gli venne nello stesso 51 A.D. dovuta ai venti di guerra che si erano sprigionati sul vicino territorio Armeno.

Le origini della contesa vanno ricercate nell’avventatezza di Rhadamisto, figlio primogenito di Pharasmanes, Re di Ibera, il quale era tanto assetato di potere che il  padre per la sicurezza della sua stessa corona, trovò necessario spingerlo alla conquista di un regno che non fosse il suo e gli suggerì quello di suo zio: Mitridate.

Re dell’Armenia sotto i Romani, era a quel tempo il monarca più impopolare dell’area e se Rhadamisto avesse preso residenza alla sua corte non avrebbe avuto soverchie difficoltà ad ingraziarsi il popolo Armeno e sostituirsi a lui.

L’ambizioso principe seguì il consiglio paterno, si fece accettare alla corte dello zio sino a diventarne il favorito poi fece in modo di portare Mitridate in suo potere;  raggiunto l’obbiettivo l’uccise crudelmente con  moglie e figli.

La sfida contro Roma che aveva sostenuto e messo sul trono Mitridate era stata lanciata; ma l’ufficiale Romano che governava la Siria: Ummidius Quadratus, corrotto da Rhadamisto prima dell’ eccidio, chiuse un occhio ed un altro ufficiale: Julius Pelignus, procuratore della Cappadocia, andò oltre ed  addirittura  autorizzò Rhadamisto ad assumere il titolo e le insegne regali.

La maggior parte degli Armeni non accolse di buon grado la nomina, condannò anzi il modo con cui il giovane principe si era insediato al potere.

Come conseguenza il paese si divise e Vologases, da poco asceso al trono della Partia  ritenne che la situazione in cui l’Armenia si dibatteva fosse una eccellente opportunità da sfruttare per gratificare il fratello Tiridate e nel contempo aumentare il suo potere.

Staccare l’Armenia dal dominio di Roma e riportarla sotto l’egida Partica gli sembrò il modo migliore per inaugurare il suo regno, raccolse pertanto un grande esercito alla cui testa marciò verso l’Armenia.

Inizialmente la conquista parve semplice; la guarnigione Iberiana su cui Rhadamisto faceva principalmente affidamento, lasciò il campo senza arrischiar battaglia e le truppe Armene opposero ben poca resistenza mentre le due città più importanti: Artaxata e Tigrane aprirono le porte al nemico sì che Vologases s’impadronì del paese senza colpo ferire e vi mise il fratello Tiridate sul trono; un inizio troppo facile, sfumato da un inverno molto rigido e dall’insorgere di una pestilenza che assottigliò a tal punto la guarnigione Partica da costringere Vologases a ritirarla.

Rhadamisto riprese il potere benchè male accettato dai suddidi e nonostante il costante pericolo di attentati alla sua persona, riuscì a governare per altri tre anni: dal 51 al 54 A.D. ed era ancora al potere quando Vologases, dopo aver portato a termine altre guerre, rivolse nuovamente la sua attenzione e le sue truppe alla conquista dell’Armenia.

I tre anni lasciati trascorrere, avevano una ragione d’essere e derivavano dal contrasto con Izates, Vitaxa dell’Adiabene, le cui pretese ed esclusivi privilegi, ottenuti dal precedente sovrano, apparivano: eccessivi,  ingiustificati e dannosi agli occhi di Vologases che dopo infruttuosi negoziati ricorse alle armi contro il satrapo che  aveva preso posizione nel basso Zab, al limite meridionale del suo territorio.

 

 

Vologases avanzava sulla sponda opposta e stava per attraversare il fiume per portarsi a contatto diretto con l’ avversario quando ebbe notizia che i Dahae e gli Scizi, erano debordati dai loro confini ed avevano invaso i territori della Partia nella regione del Caspio mettendo a ferro e fuoco l’intera provincia.

La rivolte interne potevano attendere, era il nemico esterno che doveva essere immediatamente bloccato e così Vologases cambiò rotta e dall’Adiabene si mise in marcia verso la frontiera dell’Icarnia ad Est del Mar Caspio e qui si scontrò e respinse la banda di predoni che avevano invaso il territorio, sapendo il monarca lontano e ritenendo di poter agire indisturbati.

Ripristinato il potere sul Caspio si rivolse  nuovamente verso l’Adiabene per riprendere le operazioni contro Izates; ma in viaggio ebbe notizia della morte del Vitaxa, a seguito di torbidi scoppiati nel paese.

I privilegi del defunto Re erano a carattere personale, ottenuti da Artabano 3° e non potevano essere trasmessi al suo successore, conseguentemente Vologases non ebbe problema alcuno con Monobazus, fratello di Izates, che lo aveva sostituito sul trono.

Alla fine del 53 A.D. venne siglato l’accordo con il nuovo Vitaxa e nel 54 A.D. Vologases potè tornare ad occuparsi dell’Armenia.

Rhadamisto, sebbene ancora nominalmente Re nella realtà non  aveva il consenso dei sudditi né la loro affezione per poter pensare di raccogliere un esercito che potesse contrastare, con qualche garanzia di successo, quello di Vologases.

La questione cruciale restava Roma…che cosa avrebbe fatto la “Città Eterna” ? Sarebbe corsa in aiuto del Re, visto che proprio lei lo aveva posto sul trono? Oppure l’avrebbe sostituito con altri, magari propinandogli la morte? 

Vologases era al corrente che da poco un nuovo sovrano era asceso alla più alta carica dell’impero; un giovane di appena diciotto anni, assolutamente privo di nozioni militari, amante della musica e delle arti e che probabilmente non aveva ben chiara la conoscenza del territorio nè l’esatta situazione politica che si era venuta a creare in Oriente; si chiedeva, il sovrano Parto, se mai il giovane rampollo non fosse interessato a contenere l’influenza Romana in territori così lontani piuttosto che correre subito alle armi per recuperare una provincia marginale oltretutto vacillante nell’alleanza con Roma.

Vologases era propenso a credere nel disinteresse di Roma per l’Armenia od almeno, valutando il rischio, riteneva di  avere un vantaggio immediato tanto grande da controbilanciare una eventuale offensiva romana.

Nel 54 A.D. rotto ogni indugio operò l’invasione dell’Armenia, cacciò Rhadamisto, occupò l’intero paese che pose sotto tutela Partica ed insediò, nella capitale Artaxata, a capo del regno, il fratello Tiridate.

L’audacia del gesto prese i Romani alla sprovvista e gettò un’ombra di panico a Roma; ma le tradizioni della politica imperiale erano, negli ufficiali e nell’esercito così chiare da fugare ogni dubbio sulla necessità di far fronte all’aggressione e le legioni di stanza in Oriente vennero immediatamente allertate e spostate vicino alle frontiere Armena.

Fu allestito un ponte per il passaggio delle truppe sull’Eufrate e venne ordinato ad Agrippa 2° Re della Calcis e ad Antioco, Re della Commagene di raccogliere truppa e prepararsi all’invasione della Partia mentre per Sophene e la Bassa Armenia vennero nominati nuovi governatori.

Il generale Corbulo, ricco d’esperienza  e riconosciuto il migliore del suo tempo, fu sollevato dal comando che aveva in Germania e gli venne affidata la sovrintendenza generale della guerra in Armenia, con Cappadocia e Galazia come sue province; Ummidus Quadratus venne confermato proconsole della Siria; ma gli fu chiesto di cooperare con Corbulo e di fare praticamente il “Comandante in seconda”

Verso fine anno a Roma sembrava di rivivere la stessa atmosfera di qualche anno prima, quando Antonio si stava preparando per il confronto con Phrate 4°

Quattro legioni si erano attestate, assieme a numerosi ausiliari, sulla frontiera con l’Armenia in attesa  di invaderne il territorio; ma l’inizio del nuovo anno vide un raffreddamento di tanto fervore militare; invece di dare l’ordine, alle loro rispettive legioni per inoltrarsi nel paese, i due  comandanti romani, sorprendentemente mostrarono grande disponibilità alla pace ed emissari di entrambe si portarono alla corte  di Vologases con offerte che implicavano l’accettazione dello “Status quo” e l’impegno del Re Parto a non prendere ulteriori iniziative di opposizione nei confronti di Roma, oltre alla consegna di un certo numero di “Parti di Rango” come ostaggi.

Molti nobili Parti non condividevano questa impostazione e si defilarono sì che la loro assenza dalla corte consigliò il Monarca di farli sorvegliare.

Scoppiarono torbidi interni, con tutta probabilità fomentati dai Romani, a capo dei quali si pose proprio il figlio di Vologases: Vardanes.

Tacito dice che questo avvenne nel 54 A.D. ed è confermato dal fatto che sono state trovate monete di quel periodo con Verdanes che aveva chiaramente assunta la Reale  Podestà.

 

(Tetradracma d’Argento di Vardanes 2°)

Ci sorprende il comportamento dei comandanti Romani che non approfittarono delle divergenze tra padre e figlio per intervenire; si ha la sensazione che i due, gelosi l’un l’altro siano stati poco inclini a dar inizio ad una guerra in cui ciascuno dei due nutriva la segreta speranza che le disgrazie dell’uno potessero giovare alla gloria dell’altro.

Vologases, non disturbato dall’esterno, dal 55 al 58 A.D. ebbe tutto il tempo per risolvere il contrasto con il figlio; non ci sono noti i dettagli dello scontro, quel che si sa è che la primavera del 58 A.D. fu per lui risolutiva, ebbe successo nel bloccare la rivolta e ristabilire la sua autorità sull’intero Regno; di Vardanes non si ha più notizia, si presume che sia caduto sul campo o comunque sia stato ucciso.

Le monete di Vardanes sono numerose, si riferiscono tutte al periodo 55 – 58 A.D. dove il pretendente è raffigurato con una faccia maschia da cui traspare fierezza e determinazione.

Vologases era ormai in grado di riprendere il discorso sull’Armenia che la rivolta capeggiata dal figlio aveva lasciato in sospeso.

La questione era ancora in attesa di essere analizzata dalla sua Corte e Roma, attraverso i suoi delegati,  premeva per una soluzione definitiva.

Vologases asseriva che per diritto ed antico possesso l’Armenia era da ritenersi provincia della Partia e chiedeva non solo che Tiridate potesse prenderne possesso indisturbato; ma che fosse chiaro che egli lo faceva in nome della Partia e non nel nome di Roma.

I Romani obbiettarono che l’Armenia era stata aggiunta all’impero Romano già ai tempi di Lucullo ed ancor prima da Pompeo Magno e che non era nel costume di Roma abbandonare ad altri i territori che aveva conquistato; Tiridate rimanesse dunque tranquillamente in Partia e che la querelle  si concludesse lì giacchè altrimenti Roma avrebbe fatto ricorso all’uso della forza.

 

 

 

 

Corbulo aveva utilizzato i tre anni d’attesa per far venire le sue legioni dalla Cappadocia e dalla Galazia, prepararli alla disciplina di guerra, alle dure marce ed ai movimenti invernali inoltre aveva ottenuto di poter far giungere dalla Germania una legione aggiuntiva ed era adesso pronto a dar inizio alla campagna bellica contro la Partia.

Tiridate gli offrì subito l’opportunità di saggiare la sua macchina bellica; aveva appena ricevuto da Vologases un contingente di truppe che destinò alla lotta contro i fautori di Roma presenti in Armenia passandoli a fil di spada.

Corbulo attraversò la frontiera e corse in loro aiuto impegnandosi in numerosi scontri in cui le truppe di Roma sempre ne uscirono vittoriose tanto che alla fine Tiridate dovette abbandonare la capitale Artaxia nel 58 A.D. e successivamente, nel 60 A.D. anche Tigrano- Certa, la seconda città più importante del paese, dove si era rifugiato lasciando così ai Romani l’intero possesso dell’Armenia.

Con il beneplacito di Nerone fu proclamato Re un certo Tigrane, nipote di Archelao il vecchio Re della Cappadocia; ma la sua abilità nel governare un territorio tanto vasto non si dimostrò all’altezza del compito assegnatogli a tutto vantaggio dei principi dei territori confinanti.

Pharasmanes d’Iberia, Polemo del Ponto, Aristobulus della Piccola Armenia ed Antioco della Commagene, ciascuno per proprio conto si accaparrarono parte del territorio con grande disappunto degli Armeni che videro il loro paese parcellizzarsi in tante piccole province.

Il successo di Corbulo fu in gran parte dovuto all’assenza di Vologases dalla scena  del contesto infatti il monarca Partico nel 58 A.D. dovette recarsi in tutta fretta alla frontiera Nord Orientale per rintuzzare una rivolta, per altro fomentata dai Romani, scoppiata nell’Hicarnia.

Tutte le sue forze vennero impegnate nel recupero della provincia tanto che non fu in grado di portare il benchè minimo aiuto al  fratello Tiridate, tuttavia nel 62 A.D.  riuscì a venire a capo della rivolta, i torbidi in Hicarnia ebbero fine ed il monarca ebbe modo di considerare più serenamente se accettare la risoluzione data da Corbulo all’Armenia ovvero accorrere in forza per modificarla.

 

 

 

 

 

Era chiaro quanto intollerabile fosse l’aggressione di Tigrane alle  ricche  province dell’Adiabene e le amare lagnanze dei sudditi che minacciavano di trasferire la loro fedeltà dalla Partia a Roma, non lasciavano scelte; il suo stesso interesse e l’onore del  popolo richiedevano di fare ricorso alle armi e Vologases annunciò la sua intenzione ad un concilio di nobili con queste parole. “ Parti quando ottenni  la sovranità del regno, con il beneplacito dei miei fratelli fu  mia intenzione sostituire il vecchio sistema di odio e di lotta con uno basato sull’affezione ed unione familiare; mio fratello Pacoro ricevette, di comune accordo, la Media e Tiridate che vedete ora presente di fronte a me ed a voi tra poco sarà ricondotto sul trono reale dell’Armenia, una dignità che si calcola pari ad un terzo del Regno.

In questo modo ho ritenuto di mettere la mia famiglia in pace e soddisfacentemente equilibrata nel potere; ma questo nostro volere è adesso contrastato dai Romani i quali hanno rotto il vincolo di fedeltà con noi; mai in passato hanno ottenuto vantaggi né ne otterranno in questa occasione.

Non nego di aver presentato il mio diritto al dominio sul paese, lasciatomi dai miei ancestori, con le buone maniere piuttosto che facendo scorrere sangue; ho cercato la via del negoziato piuttosto che quella della guerra e se avete visto, nel rinviare tanto a lungo la risoluzione della questione un segno di debolezza ne faccio pubblica ammenda e d’ora in poi mostrerò un maggior vigore, voi ad ogni buon conto mai vi siete tirati indietro, la vostra forza è intatta come la vostra gloria non è diminuita, anzi avete aggiunto al vostro valore altri e più elevati meriti come la moderazione, virtù che neppure gli uomini più arditi possono permettersi di disprezzare e che i più nobili apprezzano con speciale favore”

Terminato il discorso Vologases pose sulla fronte di Tiridate il diadema per confermare la sua volontà di riportarlo sul trono dell’Armenia ed allo stesso tempo comandò a Monases, un nobile Parto ed a Monobazus, il Re dell’Adiabene di prender campo ed invadere l’Armenia mentre egli stesso a capo dell’intera forza dell’impero portava il suo attacco alle legioni romane stanziate sull’Eufrate.

A dispetto delle intenzioni tanto bellicose Vologases, invece di invadere la Siria non andò oltre Nisibis che era al limite del suo stesso impero; Monases e Monobazus, dal canto loro seguirono il programma concordato ed invasa l’Armenia si portarono a Tigrano-Certa che era divenuta adesso la capitale del paese e le posero assedio; ma come sempre l’attacco dei Parti verso le città fortificate alla fine risultava inefficace e Tigrano – Certa era particolarmente protetta.

Si dice che le mura fossero  alte 75 piedi ed il fiume Nicephorur  vi scorreva sotto, mentre un grande fosso completava l’accerchiamento sotto le mura.

Nel paese c’era una forte guarnigione e l’esercito assediante, per quanto agguerrito e coraggioso, non la intimorì più di tanto.

Vologases, visto che non riusciva a venire a capo della guerra con le armi venne a più miti consigli ed accettò il negoziato cui  Corbulo lo aveva invitato.

L’esercito dei Parti, essenzialmente costituito da cavalieri, era ridotto all’inattività per mancanza di foraggio con cui nutrire gli animali, la Mesopotamia infatti in quel periodo aveva subito il flagello delle locuste ed i campi erano privi di vegetazione.

Vologases  acconsentì dunque ad una tregua e mandò a Roma una ambasciata con l’intento di approdare ad un accordo per lui soddisfacente.

La tregua durò sin quando l’ambasceria non fece ritorno da Roma e nel frattempo l’Armenia era stata evacuata da entrambe le forze  contendenti e si presero accortezze perché tra i soldati degli opposti schieramenti non avvenissero scaramucce.

Lo sforzo di riappacificazione non ebbe risultato giacchè Nerone lasciò i delegati senza risposte, nella realtà prima ancora dell’arrivo della delegazione  aveva annunciato con enfasi il trionfo dell’armi romane e non la situazione di stallo che nella realtà era venuta a crearsi.

Corbulo,  per non suscitare gelosie aveva richiesto a Nerone che mandasse un nuovo comandante in suo aiuto e questi inviò ad affiancarlo all’Est un uomo, a lui molto gradito, da cui si aspettava importanti ed immediati risultati.

L. Cesennio Paeto era persona energica ed ardita che aveva grande fiducia in sè ed era sprezzante della prudenza e della cautela del suo collega.

Teneva un comando separato, con forze eguali a quelle portate da Corbulo e lasciò presto intendere che voleva una guerra diversa da quella sin qui praticata dal suo collega. “Corbulo non ha dimostrato al nemico forza d’urto e vigore, non ha mai operato saccheggi o massacri; se aveva posto assedio ad una città lo aveva fatto più di nome che di fatto; se il suo atteggiamento fosse stato diverso, invece di creare Re fantocci , avrebbe portato l’Armenia sotto il controllo diretto di Roma riducendola a Provincia”… e parole tanto animose, furono seguite da fatti altrettanto concreti.

Attraversato l’Eufrate, Paeto invase l’Armenia con due legioni e sparpagliò l’esercito per tutto il paese, bruciando fortezze, devastando il territorio e raggranellando un sostanzioso bottino; ma non si impegnò mai in una sola battaglia campale né mise mai assedio ad una singola città.

All’avvicinarsi dell’inverno ritirò le truppe in Cappadocia; ma portato a compiacere l’Imperatore, nei suoi dispacci esagerò enormemente i risultati ottenuti con questa breve campagna e si espresse in termini che indicavano come la guerra fosse oramai terminata.

 

 

Per sua parte Corbulo mantenne il comportamento prudente che gli era congeniale; fece costruire un ponte di barche sull’Eufrate, di fronte agli stanziamenti delle forze nemiche, passò quindi il fiume ed andò ad occupare una posizione di forza sulla cima di un colle poco distante dal fiume e qui fece costruire, dalle sue legioni un campo fortificato dove rimase in attesa, sulla difensiva.

Non aveva molta stima di Paeto e temeva di essere coinvolto in operazioni militari, per portare aiuto al suo collega che riteneva prima o poi si sarebbe messo nei guai; la sua condotta prudente si rivelò vincente.

Paeto, considerata terminata la stagione della guerra, mandò una delle sue legioni a svernare nel Ponto mentre egli, con le altre due  si acquartierò tra il Tauro e l’Eufrate lasciando liberi, in congedo, i soldati.

Quando ricevette la notizia che, nonostante il tempo inclemente, Vologases stava marciando verso di lui alla testa di un forte esercito fu preso dal panico e la crisi rivelò tutta la sua incapacità.

Incerto se attendere il nemico o prender campo contro di lui, se concentrare in un punto le sue forze o tenerle disperse, prese ora un po’ l’una ora un po’ l’altra decisione mentre insistentemente mandava messaggi di aiuto a Corbulo.

Corbulo, per parte sua, non ritenne di dover intervenire almeno sin quando Paeto non fosse stato veramente in pericolo.

Vologases intanto procedeva nella sua marcia e senza tentare attacchi diretti cercò di intrappolare le forze del suo avversario; spazzò via la piccola guarnigione che Paeto aveva distaccato a guardia dei passi del Tauro e bloccò il resto della sua armata in una posizione dalla quale sarebbe stato praticamente impossibile liberarsi se il suo collega non gli fosse venuto in aiuto.

Corbulo a questo punto si mise in marcia, in soccorso di Paeto il quale preso dal panico, sebbene avesse a disposizione ancora abbondanti provviste per prolungare per settimane, forse anche per mesi, la difesa intavolò un negoziato con Vologases: praticamente capitolò.

I termini erano tutt’altro che favorevoli alla parte romana; avrebbe dovuto non solo abbandonare i triceramenti; ma evacuare dall’Armenia.

Le riserve e le fortificazioni dovevano essere consegnate ai Parti senza interporre resistenza e le condizioni di resa, con le quali aveva chiesto la pace, avrebbero dovuto essere convalidate da Nerone.

A questi termini perentori si aggiunsero insulti e comportamenti indegni; i Parti entrarono nelle trincee dove erano acquartierati i Romani e prima che questi le abbandonassero requisirono tutto ciò che ritenevano fosse stata preda di guerra tolta agli Armeni e si impadronirono anche delle armi, delle corazze e degli abiti dei soldati giustificando la rapina con la necessità di evitare ogni tipo di ostilità.

L’esercito di Roma lasciò precipitosamente ed in maniera disordinata l’Armenia: Paeto, con il suo comportamento codardo aveva dato esempio di disdicevole fretta.

Corbulo fu raggiunto dopo tre giorni di marcia e ricevette i fuggitivi senza rimbrotti mostrando anzi segni di simpatia.

Vologases dopo il successo su Paeto mise nuovamente sul trono dell’Armenia il fratello Tiridate ed allo stesso tempo avviò una serie di contatti tra Partia e Roma che  al di là delle interminabili querelle sorte tra i due imperi, potesse portare ad un “Modus vivendi” gradito ad entrambe le parti in causa.

Roma, sotto Nerone, risentiva ancora dell’idea Augustea di non allargare ulteriormente i confini dell’impero e più che propenso ad aumentare in potere era impegnato  a mantenere alto il suo onore.

Vologases inviò una ambasceria alla corte di Nerone per spiegare che suo fratello era vero che aveva accettato il riconoscimento di Re dell’Armenia dal Re della Partia; ma che avrebbe desiderato anche il beneplacito di Nerone, sollecitava pertanto l’invito di recarsi a Roma per ricevere l’investitura  direttamente dalle mani dell’Imperatore.

A Nerone, suffragato dai suoi consiglieri il compromesso non dispiacque fece tuttavia intendere che così com’era stato formulato rendeva sin troppo manifesto il fatto che la concessione fosse il frutto della sconfitta subita dai Romani ad opera dei Parti…No Roma non poteva fare aperta confessione della disfatta, si doveva trovare un modo diverso, mascherare, coprire; fumo doveva essere messo negli occhi del popolo e dei popoli sottoposti a Roma, tutti dovevano essere più che convinti che tutte le azioni che Roma faceva in politica estera era tali perché questo voleva Roma, a suo tornaconto e vantaggio.

La delegazione inviata da Vologases venne rimandata con questo fumoso messaggio.

Paeto fu richiamato in patria e Corbulo, rimasto comandante unico, fu investito di nuovi e più illimitati poteri; il numero dei suoi organici venne aumentato e migliorata anche la qualità dell’esercito che poteva adesso  avvalersi dei tiratori scelti provenienti dall’Egitto e dall’Illiria.

Nel 63 A.D. gli fu “consigliato” di operare una offensiva in territorio Armeno e Corbulo oltrepassò il confine e penetrò nel cuore del paese passando per la strada a suo tempo seguita da Lucullo.

Tiridate gli andò incontro, non in armi; ma per negoziare.

L’incontro avvenne nel vecchio campo militare di Paeto ed il generale Romano assieme al monarca Armeno presero visione dei termini che Roma aveva suggerito agli inviati da Vanones e che Tiridate accettò in toto.

Era convenuto che Roma avrebbe ritirato il suo sostegno a Tigrane ed avrebbe riconosciuto Tiridate come nuovo Re dell’Armenia; quest’ultimo avrebbe però dovuto fare atto di omaggio a Roma per il regno ricevuto e riconoscersi feudatario della “Città Eterna”

Segno tangibile dell’accettazione da parte di Tiridate fu l’atto che vide, in presenza di Corbulo e del suo seguito, la dismissione delle insegne reali e la loro deposizione ai piedi della statua di Nerone con la dichiarazione di riassumerle solo esclusivamente dalle mani dell’Imperatore.

Fu allora invitato ad andare a Roma, non appena le circostanze lo avessero permesso, intanto  lasciava nelle mani di Corbulo, come ostaggio, una delle sue figlie.

Per sua parte Corbulo assicurò Tiridate che a Roma sarebbe stato ricevuto con tutti gli onori ed il rispetto che si conviene ad un Re, sia nel soggiorno romano che durante tutto il viaggio per e dall’Italia; gli era concesso di farsi accompagnare dalla sua guardia armata ed avere libero accesso in tutte le autorità provinciali che incontrava sulla sua strada.

Con soddisfazione di entrambe le parti venne siglato il compromesso di pace, nei termini appena esposti ed i due si lasciarono nell’attesa che diventassero esecutivi.

Trascorsero circa due anni e finalmente nella primavera del 66 A.D. sistemate le cose in Armenia, Tiridate, accompagnato dalla consorte e da un certo numero di Principi e Nobili Parti, ivi inclusi i figli di Vologases: Pacoro e Monobazus, con la scorta di tremila cavalieri Parti, nelle scintillanti bardature dei loro cavalli e nelle luccicanti auree armature, intraprese il viaggio verso l’Italia.

La lunga cavalcata passò come una magnifica processione trionfale attraverso due terzi dell’Impero Romano ed ovunque si fermasse fu ricevuta con calore ed intrattenuta con entusiastica ospitalità.

Le città delle province che si trovavano sul percorso scelto vennero gioiosamente decorate con festoni per accogliere gli insoliti visitatori e l’acclamazione delle moltitudini, accorse al passaggio della carovana, dimostrava con quale entusiasmo veniva accettato il passaggio del Re Armeno.

L’intero viaggio, se si fa eccezione per il passaggio dell’Ellesponto, fu fatto in carrozza e la cavalcata procedette attraverso la Tracia e l’Illirico sino al culmine del Mare Adriatico,  quindi ridiscese la penisola sino a Roma.

Si dice che le spese di viaggio pagate dall’erario siano ammontate ad 800.000 sesterzi  al giorno e giacchè l’intero viaggio durò circa nove mesi ci si può fare una idea del costo complessivo dell’operazione.

 

 

L’udienza al Prinicipe Parto venne concessa, da Nerone a Napoli ov’egli risiedeva e si svolse senza particolari difficoltà; un ostacolo, dovuto all’etichetta,  si presentò invece quando il Re Parto ebbe accesso alla sala delle udienze: aveva al fianco la sua spada; gli fu chiesto di lasciarla fuori dal luogo dell’incontro giacchè a nessuno era permesso di presentarsi armato di fronte all’Imperatore.

 

 

 

(Denaro d’Argento di Nerone)

Tiridate rifiutò; non era stato previsto negli accordi con Corbulo ch’egli dovesse separarsi dalla sua arma e così per salvare l’onorabilità del Principe e la sicurezza dell’Imperatore l’arma incriminata fu bloccata nel suo fodero con una mezza dozzina di fermagli.

Terminata l’operazione “Spada” Tiridate fu introdotto al cospetto di Nerone cui fece l’inchino piegando il ginocchio a terra, incrociando le mani e nel contempo salutando l’Imperatore come: “Signore”

L’investitura venne poi rimandata ad una successiva  udienza che fu fatta precedere da uno spettacolo offerto al popolo romano di quelli che solo la Roma Imperiale era capace di allestire, nella sua magnificenza.

La notte precedente l’incoronazione tutte le strade della città vennero illuminate a giorno e decorate con ghirlande di fiori; poco prima dell’alba  i patrizi, vestiti con lunghe tuniche bianche entrarono nella piazza portando in mano rami di alloro e come loro costume ne occuparono il centro; vennero poi i Pretoriani raccolti nelle loro superbe armature, con splendide armi e scintillanti vessilli e si disposero dall’estremità della piazza sino alla tribuna d’onore per mantenerne libero l’accesso.

I tetti delle case prospicienti erano gremiti di spettatori.

Finalmente alle prime luci del giorno Nerone, accompagnato dal Senato e dalla Guardia del corpo, fece il suo ingresso.

Vestiva l’abito del “trionfo” e passando tra le fila dei pretoriani, salì su di una piattaforma posta vicino alla tribuna e sedette sulla classica “Sedia Curule”

A questo punto venne introdotto Tiridate e le acclamazioni del popolo che si erano levate all’apparire dell’Imperatore, come per incanto, cessarono.

Il Principe Parto, con poche parole appena udibili si disse a disposizione dell’Imperatore Romano che rispose altezzosamente; ma procedette all’investitura.

Salutato Tiridate come Re dell’Armenia lo invitò a sedersi su di un seggio, appositamente allestito, ai suoi piedi; gli dette il “bacio” che i Re danno solo ai sovrani e gli pose sulla fronte il “Diadema” simbolo della sovranità sull’Oriente.

Seguì un magnifico intrattenimento con giochi di ogni tipo e genere cui lo stesso Imperatore prese parte attiva e questo, più che piacere, stupì il principe asiatico che oltretutto non dovette apprezzare l’atto finale dell’intera rappresentazione che  gli costò una compartecipazione, per la sua nomina, dell’equivalente  di un milione di sterline inglesi, ne più ne meno.

Tiridate tornò in Asia via mare, attraversando l’Adriatico e passando per la Grecia, soddisfatto della sua trasferta romana; aveva ottenuto, al costo di una formale sottomissione ed un po’ di umiliazione personale, un risultato che neppure un Re avrebbe potuto disprezzare e soprattutto la convalida al trono di un considerevole regno.

Vologases, promotore di tutta l’operazione non poteva che ritenersi soddisfatto; aveva posto il fratello stabilmente sul trono dell’Armenia e se aveva concesso ai Romani, vanità, onori e gloria si era tuttavia assicurato un sostanziale vantaggio; come aveva ben osservato Dean Merivale “ Mentre Tiridate rendeva omaggio a Nerone per il regno ricevuto, nella realtà si era posto sotto la protezione di Vologases”

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Dal diario di viaggio: Diciassettesimo giorno,  Vologases 1° e Vespasiano  (Pacoro 2° e Decebalo di Dacia)

        

         George, tutto sommato i Giulio Claudii stabilirono con la Partia un rapporto di pace se non proprio di serenità e mi pare di capire che anche con i ” Flavii” non insorsero oggettivi attriti.

Te lo confermo Caesar; fu con gli imperatori successivi che ripresero le mire espansionistiche della “Città eterma” ; ma di questo parleremo domani.

La ristabilita pace tra Roma e la Partia non v’è dubbio che debba essere considerata una fortunata circostanza per gli abitanti di entrambe i paesi anche se fu la Partia a trovarsi in  posizione di svantaggio almeno propagandistico,  infatti sino a che il conflitto con Roma era in essere gli scrittori Greci e Romani si occupavano dell’Oriente e ne descrivevano usi, costumi e credenze tracciando il decorso delle ostilità con puntuale precisione.

Dopo la firma del trattato di pace venne a mancare pressochè totalmente l’interesse per questo lontano paese e le informazioni che ci giungono, quasi sempre intelleggibili,  ricorrono qua e là sparse nelle pagine degli autori classici.

Anche le serie della moneta Partica diventano confuse, confondibili e la storia  per oltre mezzo secolo è lacunosa, fumosa; meno articolata la successione dei regnanti che non è più certa, come incerta è l’attribuzione della moneta a questo od a quel monarca.

Secondo gli studiosi di questo periodo pare che Vologases abbia continuato a regnare sino al 77 A.D., se così è fu contemporaneo di ben sei Imperatori Romani: Claudio, Nerone, Galba, Oto, Vitellio e Vespasiano con il quale regnò, in contemporanea per circa otto anni.

(Denaro in Argento di Vespasiano)

Le relazioni tra Vespasiano e Vologases furono per lo più improntate all’amicizia tanto che quando Vespasiano pose la sua candidatura all’Impero ( 70 A.D.) Vologases si offrì di mandargli a supporto 40.000 arcieri a cavallo nel caso avesse incontrato difficoltà per salire al trono, tuttavia i successi dei suoi generali in Italia spinsero il futuro imperatore a declinare l’offerta anche per non suscitare polemiche con l’impiego di “Truppa Barbara” come la chiamavano i Romani, contro i cittadini di Roma.

Quando l’imperatore, un anno dopo, fece visita alla città di Zeuma sull’Eufrate il Re dei Parti andò a congratularsi con lui per il successo ottenuto contro i Giudei e gli chiese di accettare dalle sua mani una corona d’oro.

Flavio, la cui amabilità era proverbiale acconsentì e per dimostrare il suo apprezzamento invitò a banchetto gli inviati di Vologases  e li intrattenne sontuosamente.

Poco dopo tuttavia tanto idilliaco reciproco comportamento fu oscurato dalla macchinazione di Cesennio Paeto, il  generale sconfitto nell’ultima campagna Armena ed ora promosso all’ufficio di Proconsole della Siria.

La rottura dei buoni rapporti tra i due imperatori divenne tangibile quando Caesennio Paeto, non è dato sapere su quale fondamento, inviò a Vespasiano (72A.D.) un rapporto estremamente allarmistico in cui si diceva al corrente di un complotto, concertato tra Vologases ed Antioco che era a quel tempo Re della Commagene  per togliere questo paese dall’influenza Siriana e porlo sotto l’egida Parta.

 

 

(Bronzo di Antioco 4° della Commagene)

 

L’esecuzione del piano, secondo Paeto  sembrava già in essere con la consegna della capitale  Samostata  al monarca Parto e questo significava per Vologases un facile accesso alle province romane di: Cappadocia, Cilicia e Siria che da quel sito avrebbero potuto essere tutte facilmente invase dall’esercito dei Parti.

Senza che fosse autorizzato da Roma, Paeto si fece immediatamente carico di bloccare ogni attività nella zona e questo portò non poco scompiglio in Oriente; d’altra parte l’Imperatore che non aveva ragione alcuna di dubitare della buona fede di Paeto e della correttezza delle informazioni ricevute; gli rispose in ritardo dandogli così tempo e modo di agire come meglio ritenesse opportuno.

 

 

Il proconsole che già aveva predisposto tutti i  preparativi per l’invasione della Commagene, appena avuta la risposta da Roma, dette inizio all’azione di conquista portandosi all’interno del paese, verso Samostata; non incontrò resistenza e fu facile conquistare la città.

Qualcosa di più che un sospetto ci dice che la storia riportata a Vespasiano sia stata una invenzione di Paeto, smanioso di gloria e di menar le mani, tuttavia la sua improvvisa invasione della Commagene non ebbe gli effetti che il proconsole sperava  anche e soprattutto per la moderazione che mostrarono i due sovrani. Vologases ed Antioco.

Quest’ultimo rifiutò decisamente di assumere la parte del ribelle che Paeto gli aveva cucito addosso anche se suo figlio aveva preso le armi contro Paeto ed era entrato in Cilicia occupando Tarso.

Vologases non dette seguito all’azione intrapresa dal figlio di Antioco, ritirò l’esercito e semplicemente si limitò a controllare la situazione.

Quando anche le milizie di suo padre si erano ritirate dalla Cilicia fu giocoforza abbandonare l’impresa e riparare in Partia da dove scrisse una lunga lettera di scuse a Vespasiano che perdonò il giovane principe e lo invitò a Roma con suo padre.

Non molto tempo dopo lo scampato pericolo di una guerra con Roma, Vologases fu attaccato, su un altro fronte, dal selvaggio popolo degli Alani, tribù Scizia o più probabilmente Finnica che abitava le regioni orientali del Caspio.

Alleati degli Icarniani in più di una occasione avevano dato segni di irrequietezza, fino a che nel 75 A.D. si riversarono improvvisamente sulla Media, cacciarono Pacoro, fratello di Vologases che cercò rifugio nelle zone montane mentre gli Alani mettevano a ferro e fuoco l’intero paese.

Dalla Media passarono all’Armenia che era sotto l’altro fratello: Tiridate; lo sconfissero in una battaglia campale e poco mancò che non riuscissero a prenderlo prigioniero.

Vologases  mandò allora una ambasceria a Vespasiano ricordandogli l’offerta che gli aveva a suo tempo fatta, di inviare 40.000 arcieri a cavallo chiedendogli l’invio di un corpo di spedizione romano al comando di Tito o Domiziano.

Quest’ultimo principe, geloso della fama militare del fratello Tito sperava di essere scelto per la missione e nel frattempo aveva arruolato un grosso esercito nella speranza che la scelta cadesse su di lui.

 

 

 

Vespasiano era oramai in età avanzata e non desiderava impegnarsi in una nuova avventura, rispose decisamente che non c’era ragione alcuna di mettere il naso di affari che non lo riguardavano, se in passato avesse accettato l’offerta di Vologases era diverso e si sarebbe tenuto moralmente impegnato a contraccambiare l’aiuto; ma avendo declinato l’offerta ,si riteneva quindi libero di  rifiutare la richiesta  e mandò  a Vologases una risposta negativa.

Il Re Parto non solo fu dispiaciuto; ma irritato dal rifiuto, sfogò il suo malumore in una successiva corrispondenza diplomatica facendo pesare il suo rango regale:

Arsace, Re dei Re, manda i saluti a Flavio Vespasiano” e Vespasiano, con uno spiccato senso dell’umor, tanto raro in personaggi di così alto rango, rispose con lo stesso stile al suo corrispondente: “ Flavio Vespasiano manda i saluti ad Arsace, Re dei Re” ovviamente nelle relazioni tra i due paesi era sceso il gelo.

La Partia dovendo fare affidamento sulle sole sue forze lasciò nelle mani degli Alani non poco “bottino” né fu in grado di replicare ai loro reiterati attacchi, riuscì tuttavia a mantenere intatto il possesso dei territori occidentali e persino a recuperare la Media e l’Armenia; solo l’Hicarnia finì sotto il dominio dei pretendenti che si dicevano anch’essi discendenti degli Arsacidi e che anch’essi presero il titolo di sovrani Partici.

Vologases  morì nel 78 A.D. e gli successe, con ogni probabilità il figlio: Pacoro 2° che  sulla monetazione emessa in occasione dell’ ascensione al trono appare  molto giovane; il suo regno durò trent’anni: dal 78 A.D. al 108 A.D.

Fu contemporaneo di ben cinque Imperatori Romani: Vespasiano, Tito, Domiziano, Nerva e Traiano; ma sembra che non abbia tenuto corrispondenza con nessuno di loro

(Pacoro 2° Tetradracma d’Argento)

Il gelo che era sceso nei rapporti tra suo padre  e Roma gradatamente sfociò il aperta ostilità e quando il bellicoso Traiano salì al trono fu presto chiaro che lo scontro era diventato oramai inevitabile.

(Argenteo denaro di Traiano)

Roma pretese nuovamente il predominio sull’Armenia e la Partia, sapendo che presto sarebbe stata  attaccata, si guardò attorno, tra i nemici di Roma, per cercare alleati; si stabilirono così nuove relazioni tra Pacoro 2° e Decebalo, Re della Dacia che già dal tempo di Domiziano ( 81 – 90 A.D.) era in guerra con Roma.

Pacoro tuttavia non ebbe il coraggio di portare al suo alleato un aiuto tangibile in occasione della contesa che si sviluppò sul Danubio né creare un alleggerimento della  pressione bellica effettuando sull’Eufrate una diversione in favore dell’alleato.

Decebalo  cadde nel 104 A.D. e la Dacia divenne di fatto provincia romana,  fu chiaro allora che essendosi  Pacoro 2°schierato dalla parte dei nemici di Roma, ben presto sarebbe stato oggetto di un attacco da parte dei romani; ma Traiano era uomo troppo saggio e prudente per anticipare i tempi.

L’invasione dell’Oriente necessitava di accurata preparazione e l’invasione ch’egli premeditava era di grande importanza e dimensione, pertanto nell’immediato si astenne da misure offensive e preparò il terreno per la spedizione fomentando torbidi in Armenia e dove possibile, rinforzando gli effettivi presenti sul territorio  mentre preparava nuovamente i soldati alla ferrea disciplina militare di guerra.

Pacoro 2° fu lasciato in pace sino al termine del suo lungo periodo di regno e la tempesta che era stata preparata con tanta cura non si scatenò che contro il suo successore.

In questo periodo  sulle monete della Partia compare anche un pretendente Arsace: Artabano 4°

(Argentea dracma di Artabano 4°)

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...Coraggio...dopo questa ne mancano ancora tre, poi abbiamo finito e potete mandarmi a spigolare per lo spazio occupato ed il tempo che vi ho fatto perdere a leggermi...grazie comunque per la pazienza sin qui dimostrata

Buona giornata tutti da nonno Cesare

 

Dal diario di viaggio: Diciottesimo giorno, Traiano alla conquista dell’Oriente

 

Buon giorno Caesar, come ti avevo accennato ieri è stato con gli ”Imperatori Eletti ”Traiano in particolare, che a Roma si riscoprì il prurito della conquista, l’allargamento dell’Impero…la volontà di dominio sul “Mondo”

Mi pare di ricordare George che non andò a finir bene, o sbaglio?

Ricordi bene…finì come sempre, quando i Romani tentarono l’avventura sull’Asia e d’altro canto anche gli Asiatici infransero sempre il loro impeto quando si avventurarono in Occidente…abbiamo avuto già modo di verificarlo

A Pacoro 2° successe il fratello Chosroes che i magistrati dei Parti preferirono ai figli del vecchio sovrano: Exedares e Parthamasiris perché ritenuto più idoneo ad affrontare le difficoltà del momento; erano ben note l’animosità e l’esperienza militare di Traiano sembrava pertanto necessario, in previsione di una spedizione romana in Oriente, mettere il governo dello stato nelle mani di un uomo maturo e di comprovata capacità .

 

 

(Dracma d’Argento di Cosroes 1°)

I figli di Pacoro, accompagnavano alla loro giovinezza l’impetuosità dell’età e non sembravano in grado di poter competere con un antagonista come Traiano; Chosroes, con la sua maturità, per quanto poco esperto in cose militari, dava maggiori garanzie e mostrava di possedere l’abilità che spesso, in casi come questi, condiziona le scelte.

Il casus belli, come già detto, era costituito dalla contesa sovranità sopra l’Armenia; alla morte di Tiridate, nel 100 A.D. Pacoro 2° aveva posto sul trono dell’Armenia il figlio Exedares e questo agli occhi di Traiano parve  come una sfida, una prepotenza non giustificata dalla precedenti buone relazioni tra i due paesi.

Nell’ultima occasione in cui il trono si era reso vacante è ben vero che il monarca della Partia aveva nominato al trono un principe a lui gradito; ma è altrettanto vero che era stata Roma, per mano di Nerone, a convalidarne l’investitura, in questo caso Pacoro 2° che sapeva Roma impegnata contro la Dacia e quindi non in grado di assumersi l’onere di un secondo fronte di guerra, ritenne che il diritto alla investitura fosse illusorio e marginale e che Roma non gli avrebbe dato valore più di tanto, riteneva che Traiano non ponesse obiezioni né minacce; ma che semplicemente fosse acquiescente alla nuova investitura.

Quando la guerra con la Dacia ebbe fine ed il paese ridotto a Provincia Romana ( 114 A.D.) l’Imperatore i cui appetiti di conquista non si erano esauriti con i successi danubiani, ritenne fosse venuto il tempo di occuparsi finalmente della questione orientale per dare nuovamente sicurezza a Roma, dopo le rivolte che per circa un secolo e mezzo si erano succedute in questo scacchiere.

Si sarebbe potuto affrontare la questione come avevano fatto in precedenza gli imperatori Augusto, Tiberio e Vespasiano che avevano considerato il problema come una sorta di cronica fatalità che richiedeva, a fronte delle continue rivolte,  sforzi continui per ripristinare la pace e mettere ogni volta una specie di “pezza”

In alternativa era necessario “prendere il toro per le corna” ed operare in maniera decisa e radicale, come aveva fatto a suo tempo Alessandro Magno, sino a mettere fine, una volta per tutte, all’intollerabile stato di cose ed alle difficoltà che i “Barbari” costantemente creavano.

Nulla doveva essere lasciato al caso, era necessario guardare con gli occhi del passato e prendere atto che c’era sempre stato un “Oriente” e necessariamente un “Oriente” avrebbe sempre dovuto esserci, in antagonismo con l’Occidente ed in perpetuo un continuo scontro tra i due mondi.

Il tentativo di appianare le distanze attraverso accordi diplomatici cercando un “Modus vivendi” per evitare scontri e frizioni tra le parti, era risultato poco più che un palliativo;  il punto di vista di Traiano era diverso, si doveva schiacciare, polverizzare l’Est, sbarazzarsi del costante antagonismo e che questo fosse possibile lo aveva dimostrato a suo tempo proprio Alessandro Magno il quale, dopo aver interamente conquistato l’Oriente, per un secolo e mezzo non si erano più presentate monarchie “Barbariche” in grado di opporsi all’Occidente.

L’ambizione di Traiano accesa dall’emulazione delle gesta del grande macedone  crebbe in lui, di giorno, in giorno, sempre di più e senza far trapelare niente del proprio pensiero, neppure ai suoi intimi, al contrario di Crasso che se n’era fatto un vanto ed aveva sbandierato ai quattro venti la sua ambizione,  entrò nella determinazione di operare  per soggiogare finalmente l’Oriente e con esso la Partia, al volere di Roma.

Inizialmente coprì le sue vere intenzioni con presunta moderazione dichiarando che era suo intendimento rivendicare l’onore di Roma in Armenia; entrambe gli ultimi Re dei Parti: Pacoro 2° e Chosroes, secondo Traiano, avevano insultato Roma operando in Armenia come se questa terra fosse stata solo di loro esclusivo appannaggio mentre al contrario riteneva che l’autorità dell’Impero fosse preminente.

 

 

Invano Chosroes  fece osservare all’Imperatore che l’azione compiuta ricadeva nel “Modus vivendi” accettato da Nerone e che nulla vietava, se lo riteneva più opportuno, a che lui: Traiano ponesse il diadema sulla fronte del nipote Parthamasiris, un figlio di Pacoro 2°, fratello di Exedares.

Traiano replicò in modo ambiguo dicendo che avrebbe valutato il da farsi quando fosse giunto in Siria e nel frattempo rinnovò gli sforzi per aumentare il numero delle  truppe e prepararle nel modo più adeguato possibile alla campagna che aveva in animo di portare contro l’Oriente.

L’autunno del 114 A.D. lo vide in Antiochia,  nonostante il terribile terremoto che nell’inverno  aveva quasi completamente distrutto la capitale della Siria e nella primavera del 115 A.D. si mise in marcia verso la frontiera con l’Armenia.

Man, mano ch’egli procedeva, i satrapi ed i piccoli principi della regione facevano sottomissione e sollecitavano il suo favore con doni di vario genere che Traiano piacevolmente riceveva e graziosamente ringraziava.

Prese la via per Zeuma, l’avamposto romano sull’Eufrate e da qui proseguì  verso Samosata ed Elegia.

Alla frontiera della grande Armenia attese l’arrivo di Phartamasiris che dopo aver inutilmente tentato di negoziare con lui, da pari a pari ed essere stato invece trattato con sdegno, si era fatto coraggio e si presentava ora come supplice al campo romano per chiedere di essere incoronato da Traiano.

Sperava che si ripetesse qui quello che era avvenuto a Roma nel 66 A.D. quando Tiridate aveva ricevuto il diadema da Nerone; ma Traiano si comportò in modo diverso.

Il giovane principe entrò nel campo, alla testa di una piccola scorta,  si tolse il diadema dalla fronte e lo pose ai piedi di Traiano quindi stette in religioso silenzio aspettando che la muta sottomissione fosse accettata e che l’emblema della sovranità gli ritornasse per mano dell’Imperatore; ma Traiano non fece alcun movimento ed a questo punto, l’esercito ovviamente istruito ad arte  gridò, con quanto fiato avesse in gola, salutando Traiano come nuovo Re dell’Armenia e congratulandosi per la conquista avvenuta senza spargimento di sangue.

Phartamasiris si rese allora conto di essere caduto in trappola ed avrebbe voluto fuggire ma le truppe romane  avevano, nel frattempo precluso ogni via di fuga; chiese allora una udienza privata all’imperatore e questo gli fu concesso.

Nel breve incontro avvenuto nella tenda dell’Imperatore, tutte le richieste di Phartamasiris vennero rifiutate, gli fu detto che avrebbe dovuto rassegnarsi alla perdita della corona e comparire una seconda volta davanti al tribunale dell’Imperatore, se lo desiderava,  per ascoltare  di persona i motivi della perdita della sovranità e le decisioni che Traiano riteneva di dover prendere nel merito.

Phartamasiris, giustamente indignato parlò a sua volta con più temerarietà, sottolineò il fatto che non era stato sconfitto o fatto prigioniero dai romani; ma che si era presentato di fronte all’Imperatore, di sua spontanea volontà, nella completa certezza che non avrebbe ricevuto ingiuria alcuna; ma che anzi sarebbe stato riconosciuto ed avrebbe da lui ricevuto la sovranità sull’Armenia come Nerone aveva a suo tempo fatto con Tiridate e chiese di essere lasciato libero assieme alla sua scorta.

Traiano rispose seccamente che non intendeva concedere a nessuno la sovranità  sull’Armenia; il paese apparteneva a Roma ed avrebbe avuto un governatore romano; Phartamasiris  poteva andare, se gli piaceva, con i suoi accompagnatori Parti, ma tutti gli Armeni che lo avevano accompagnato dovevano restare, giacchè erano soggetti a Roma.

Dopo questo burrascoso incontro Phartamasiris salì a cavallo; ma Traiano che non aveva intenzione alcuna di lasciarlo fuggire, nel timore che si ponesse a capo di una rivendicazione Armena, ordinò alle sue truppe di fermarlo e trattenerlo in arresto e se avesse opposto resistenza ucciderlo, cosa che avvenne regolarmente e come dice la storia, in modo brutale.

Atti di brutalità sono sempre avvenuti nei vari contesti storici, in ogni tempo, quello di Traiano, astuto, repentino, improvviso e non atteso ebbe come conseguenza la totale sottomissione dell’Armenia senza che fosse operata resistenza alcuna.

Non andò certo meglio per gli abitanti del paese per i quali essere governati da un proprio Vitaxa o da proconsole romano alla fin fine era la stessa cosa.

Traiano riunì le due Armenie: la grande e la piccola, sotto un governatore romano e le inserì nell’Impero con il rango di Provincia.

A questo punto l’attenzione dell’Imperatore si rivolse ai paesi confinanti; vennero stabilite relazioni amichevoli con Anchelao, Re di Heniochi e Macheloni e gli furono restituiti i doni che in precedenza aveva inviato a Traiano.

Agli Albaniani venne dato un nuovo Re e vennero concluse alleanze con: Iberi, Sauromati, Colchi e persino con tribù distanti che abitavano il Bosforo Cimmerio.

L’assoggettamento di questi popoli ricordarono ai romani i gloriosi tempi di Pompeo Magno a sottolineare  a tutti la totale influenza di Roma sull’intera regione compresa tra il Caucaso, il Caspio e l’Arexes:

L’Imperatore ancora non riteneva di aver concluso la sua missione  dal momento che l’obbiettivo principe, non era l’Armenia;  bensì la Partia alla cui conquista  la spedizione era stata nella realtà allestita pertanto, lasciate nel Nord Est e nell’Armenia guarnigioni romane, operò una contromanovra verso Sud Ovest, settore dove la Partia sembrava essere più sguarnita e vulnerabile.

Fece tappa ad Edessa, la capitale della provincia di Osrhoene che ancora era amministrata da un vassallo Parto che portava il nome, comune in quella zona, di Abgaro ed un po’ con le buone, un po’ con le cattive indusse questo principe alla sottomissione dopodichè  avviò negoziati con: Sporace, philiarca di Anthemusia; Manno, un capo Arabo e Manisares, un satrapo Parto che era entrato in contrasto con lo stesso Chosroe.

Dopo aver portato dalla sua questi capi popolo diede inizio ad un grande attacco, su due fronti.

Parte dell’esercito marciò verso Sud, sulla via a suo tempo seguita da Crasso  nota come Anthemusia, quella cioè che si trova tra l’Eufrate e Khabour mentre l’altro troncone dell’esercito procedette verso Est contro Batnae, Nisibis e Gordyene o paese dei Kurds.

Durante la marcia non incontrò alcuna seria resistenza anche per il fatto che Chosroe  aveva ritirato ulteriormente l’esercito sul Tigri e lasciato la difesa delle province ai suoi vassalli,  per la maggior parte singolarmente troppo deboli per opporsi validamente  all’esercito romano.

Alla fine dell’anno, l’intero tratto posto a Sud compreso tra Singara  e l’attuale Sinjiar, era stato totalmente occupato dalle milizie romane.

La Mesopotamia superiore, era diventata oramai romana, nel vero senso della parola  e l’Imperatore, seguendo il criterio che aveva adottato sin dall’inizio della sua campagna, la inglobò nell’Impero come Provincia.

Roma seguiva con orgoglioso entusiasmo questa successione di eventi favorevoli, vennero coniate monete sul cui rovescio compariva la personificazione del paese conquistato prostrato ai piedi del conquistatore e dal Senato ricevette i titoli  di “Armeniaco” e “Partico” regolarmente riportate sulla sua monetazione.

Con l’avvicinarsi dell’inverno l’Imperatore lasciò l’esercito e si ritirò ad Edessa od Antiochia lasciando che fossero i suoi generali a mantenere il possesso delle regioni conquistate dando loro istruzioni dettagliate su ciò che avrebbero dovuto fare per prepararsi, durante l’inverno, alla campagna dell’anno successivo.

Giacchè Traiano non voleva passare attraverso il deserto che separa Sinjiar da Babilonia, diventava di primaria importanza l’attraversamento del Tigri.

I banchi del Tigri erano privi di vegetazione e di alberi idonei alla costruzione dei ponti di barche necessari per traghettare la truppa sull’altra sponda, dette pertanto ordine che durante l’inverno venisse preparata una flotta a Nisibis, il quartie generale dell’esercito, dove il legname era abbondante e le navi potevano essere costruite a pezzi da trasportare successivamente per essere poi assemblate ove si fosse ritenuto necessario.

A primavera i tronconi di nave vennero spostati con i carri sui banchi occidentali del Tigri, con ogni probabilità nel punto dove il fiume lascia le montagne per inoltrarsi nella parte pianeggiante del paese: un poco oltre Jezireh.

Traiano ed il suo esercito accompagnarono la carovana senza incontrare resistenza alcuna sino al raggiungimento del fiume; ma quando iniziarono i lavori di assemblaggio delle navi, gli abitanti della riva orientale, accorsi in gran numero,  non soldati; ma bravi e forti montanari, contrastarono il passaggio delle truppe.

Si rese necessario lanciare, in punti diversi, un certo numero di imbarcazioni piene di  armati pesanti ed l’impiego di arcieri che avanzando in mezzo al fiume scagliavano le loro micidiali saette contro i diversi gruppi di nemici che da terra minacciavano l’attraversamento.

Lentamente e con difficoltà Traiano riuscì a completare il ponte di barche ed a far passare l’esercito sull’altra sponda, dopo aver disperso il nemico.

Superate queste iniziali avversità l’Imperatore conquistò rapidamente l’intero e ricco territorio dell’Adiabene,  tra il fiume e le colline, occupando in successione: Ninive; Arbela e Gaugamela senza trovare ulteriori resistenze.

Chosroes  rimase a rispettosa distanza nell’attesa che il nemico si allontanasse sempre di più dalle sue basi operative e consumasse le sue stesse risorse.

Mebarsaper, il vitaxa dell’Adiabene aveva sperato di riuscire a difendere la linea del Tigri; ma quando la vide forzata, disperato si ritirò dalla lotta.

Uno dopo l’altro  i fortini e le fortificazioni del distretto caddero in mano romana; il sito strategico di Adenystae venne addirittura preso dall’interno infatti il piccolo nucleo di prigionieri romani che custodiva, quando scorse i commilitoni avvicinarsi alla  città, insorse ed uccise il comandante della guarnigione aprendo le porte ai loro compagni.

In poche settimane tutto l’Adiabene, il cuore dell’antica Assiria, venne conquistato ed una terza provincia aggiunta all’Impero.

A questo punto ci si sarebbe aspettato che l’esercito romano puntasse decisamente su Ctesifonte; la via era aperta e se Traiano, come Napoleone nel 1812, avesse conquistato la capitale dell’Impero Parto avrebbe concluso la guerra; ma per ragioni che ci rimangono, ancora dopo tanti anni, oscure l’Imperatore decise altrimenti.

Passato nuovamente il Tigri e rientrato in Mesopotamia, prese Hatra uno dei villaggi più fortificati della regione e attraversando l’Eufrate volle visitare ad Hit le fosse di bitume, già all’epoca famose e da qui mosse verso Babilonia; visto che il nemico ancora non si faceva vivo, Babilonia fu circondata e presa senza colpo ferire.

Caduta Babilonia anche Seleucia si sottomise sì che rimaneva oramai solo l’affondo a Ctesifonte perché fosse completato il possesso dell’intero paese tra il Tigri e l’Eufrate.

A questo punto per Traiano si rendeva ancora necessario l’utilizzo della flotta che aveva fatto costruire e che era stata conservata con cura.

Pensava  di  doversi trovare di fronte ad una fiera e vigorosa resistenza; ma  non trovò opposizione; Ctesifonte gli aprì le porte.

Chosroes l’aveva abbandonata, già da qualche tempo per ritirarsi con la famiglia ed il tesoro di corte ancor più nell’interno del suo impero, seminando tra sé ed i suoi inseguitori ostacoli naturali e guerriglia.

La tattica seguita era quella usuale ad un esercito, consapevolmente più debole, quando si trova di fronte ad un nemico più forte e ricordava il metodo con cui nel sesto secolo A.Ch. Idanthyrsus difese con successo la Scytia dall’invasione di Dario Hystapses o quella più recente operata dai Russi nei confronti di Napoleone.

Traiano deve tuttavia essere in un qualche modo scusato per non aver insistito nella caccia al nemico; le province occidentali si erano totalmente sottomesse all’Impero, Ctesifonte era sua come sue erano Babilonia e Susa, l’antica capitale degli Achemenidi, la guerra poteva considerarsi terminata perché dunque correre dietro ad un nemico che si era volatilizzato e ritirato nelle barbare regioni del lontano Est?  Meglio godersi la gioia del trionfo imbarcandosi per un viaggio di piacere  sul Tigri sino a portare la prora della sua nave nelle acque del Golfo Persico.

La vita e le opere di Alessandro Magno erano vivide nella sua immaginazione, stampate a caratteri cubitali nella sua mente; ma conscio della sua età non più fresca, rispetto a quella del Macedone, pensava che non avrebbe mai potuto sperare di raggiungere i limiti di Alessandro Magno; s’informò tuttavia sull’India e forse pensò in cuor suo di organizzare una spedizione da quelle parti quando avesse avuto più tempo e sistemato definitivamente la questione della Partia e dato alla Mesopotamia una organizzazione più soddisfacente.

Sembra  avesse ritenuto che le conquise sin qui fatte fossero al sicuro da fiammate nazionalistiche di ritorno, d'altronde nessuna agitazione era sorta o se ne evidenziavano i presupposti, niente dunque poteva turbare il suo autocompiacimento.

Le ultime settimane dell’estate del 116 A.d. passarono in una follia paradisiaca di sogno ed era ancora oziosamente a navigare nelle acque dei mari del Sud quando lo raggiunse l’improvvisa notizia che era scoppiata una grande rivolta.

Seleucia,  Hatra,  Nisibis ed Edessa avevano preso le armi e rigettato dalle loro città le guarnigioni romane in qualche caso riuscendo anche a massacrarle.

L’intera linea di ritirata era costellata di nemici e correva il rischio di essere tagliato fuori e perire nelle lontane regioni che aveva invaso, l’occasione richiedeva la massima attenzione, il maggior sangue freddo possibile e la più grande energia.

Fortunatamente per i Romani Traiano possedeva tutte queste qualità; tornò immediatamente al Nord e dette ordine ai suoi generali di prendere misure drastiche contro i ribelli, ovunque essi fossero e metter il massimo impegno perché l’insurrezione rimanesse circoscritta e non si propagasse ad altre città.

La punizione di Seleucia venne affidata ad Erucio Caro e Giulio Alessandro che presa d’assalto la città la dettero poi alle fiamme.

Lucio Quieto riuscì a recuperare Nisibis e trattò la città vinta allo stesso modo; prese anche Edessa ed anche questa città subì la stessa sorte delle altre.

Non tutto per i romani filò però liscio; Massimo, uno dei più fidati ufficiali di Traiano, durante uno scontro con il nemico venne sconfitto ed ucciso; una armata romana, con il suo legato fu fatta a pezzi  e Traiano stesso, al ritorno da Ctesifonte, venuto a conoscenza di quello che stava succedendo, risvegliatosi bruscamente dal suo idilliaco sogno di facile conquista si rese conto che era necessario un cambio di politica.

La Partia non poteva essere trattata alla stessa stregua dell’Armenia e della Mesopotamia; con il suo popolo Traiano avrebbe dovuto essere più conciliante ed assecondarlo maggiormente; le si doveva dare un Re del luogo e lasciarle una certa indipendenza.

 

 

(Dracma d’Argento di Parthamaspates)

 

Accortamente scelse un certo Parthamaspates, di origini Arsacide che nel recente conflitto si era tenuto vicino alla causa di Roma e chiamando i maggiorenti Parti della capitale ed i loro confinanti ad un concilio tenuto in uno spiazzo, vicino a Ctesifonte, presentò loro la persona ch’egli favoriva e richiese per lui la loro leale affezione parlando a lungo e dopo aver  magnificato il giudizio e lo splendore del suo favorito gli pose sulla fronte il diadema.

 

Compiuto quest’ultimo atto politico dette inizio al suo disimpegno dall’area.

Prendendo la via diretta, attraverso la Mesopotamia, marciò su Hatra, uno dei paesi che gli si era rivoltato contro e che ancora non era stato riconquistato.

Il paese era piccolo; ma raccolto e ben fortificato, si trovava nel deserto tra il Tigri e l’Efrate, più vicino a quest’ultimo e  protetto nell’ assedio dalla scarsità d’acqua e dall’improduttività del terreno circostante;  grandi eserciti non avrebbero potuto protrarre,  per lungo tempo, l’assedio.

Traiano riuscì ad abbattere parte della cinta muraria e si preparava ad entrare nella città dalla breccia; ma le sue truppe si trovarono di fronte ad una decisa resistenza e lo stesso Imperatore, avvicinatosi troppo al muro di cinta per poco non rischiò di essere colpito, il cavaliere che gli stava a fianco cadde fulminato da una freccia.

Con l’avvicinandosi dell’autunno il tempo si era messo al peggio con piogge insistenti e violente grandinate tanto che l’assedio non avrebbe potuto durare più oltre.

Ogni giorno che passava la furia degli elementi aumentava i pericoli della guerra e mosche ed uccelli contendevano ai soldati il già scarso cibo disponibile oltre alle poche gocce d’acqua utili; in queste condizioni l’Imperatore dette ordine di riprendere il viaggio di ritorno in patria.

Dalla Mesopotamia passò alla Siria e si acquartierò ad Antiochia, qui si rese conto degli effetti della fatica e degli sforzi cui era stato sottoposto il suo corpo: cadde malato; ma lasciò che il suo esercito tornasse a Roma.

Morì a Selinus, in Cilicia nell’Agosto del 117 A.D.

Non appena Traiano si fu ritirato Chosroes  tornò dalla Media, dove si era rifugiato e si insediò nuovamente a Ctesifonte  cacciando senza difficoltà Parthamaspares  e ristabilì il suo ruolo sulle regioni che Traiano aveva conquistato; ma che ancora non aveva ridotto a provincia.

L’Armenia, la Mesopotamia superiore, l’Assiria e l’Adiabene erano ancora occupate dai Romani che molto probabilmente erano in grado di difendersi da eventuali attacchi dei Parti giacchè l’Imperatore Adriano, che era succeduto a Traiano riteneva strategicamente importante mantenere, al momento, il possesso di questi luoghi.

 

 

 

(Denaro d’Argento di Adriano)

 

Adriano, come prefetto della Siria, era stato testimone delle campagne di Traiano, aveva una profonda conoscenza dei luoghi e delle condizioni generali dell’Est ed era intimamente convinto che il tentativo di Traiano di invadere l’Oriente fosse stato un errore e che la giusta politica che Roma avrebbe dovuto perseguire era invece quella impostata da Augusto e cioè che i possedimenti dell’Impero non avrebbero dovuto andare oltre i loro naturali e tradizionali limiti.

Adriano decise quindi di ritirare le legioni romane sino alla linea dell’Eufrate e di abbandonare le nuove province conquistate. Armenia, Mesopotamia ed Adiabene da cui tanto vanto era venuto al suo predecessore.

Lasciamo ai posteri  ed agli storici moderni il giudizio sulla validità o meno della sua azione.

Secondo Dean Merivale “ Non c’era posto, oltre l’Eufrate, in cui le istituzioni romane avessero messo radici mentre le spese per mantenere questi presidi erano enormi”

La colonizzazione greca susseguente ad Alessandro Magno era riuscita a convertire l’originale massa asiatica su di una posizione semi europea e prepararla a ricevere le idee ed i principi del governo romano; questo sino alla linea dell’Eufrate, oltre, l’infusione greca era stata troppo debole per produrre lo stesso effetto; lo “Orientalismo” puro prevaleva sulle istituzioni Occidentali che se introdotte si trovavano in un ambiente alieno da cui potevano solo essere rigettate o perire.

A parte questo, l’intero Impero Romano era diventato oramai così vasto, dilatato ed ingombrante che la coesione veniva a soffrirne e non era più possibile da gestire con efficacia.

I capi delle province Orientali dell’Eufrate erano stati esonerati dal governo ed in pratica esentati dall’effettuare controlli di supervisione, per farlo avrebbero dovuto avere a disposizioni capitali enormi ed al loro comando così tanti uomini armati che li avrebbero portati alla tentazione di staccarsi dal governo centrale per cercare una sicura posizione indipendente.

Le guarnigioni, disperse in un territorio tanto vasto avevano costituito un severo drenaggio delle risorse militari dell’Impero, oltretutto la lontananza aveva operava un effetto demoralizzante sui soldati, come dimostrato dalle legioni acquartierate in Siria.

Sia in ogni caso chiaro che il corso dato da Adriano, di contrarre i limiti orientali dell’Impero, fu una scelta prudente che gli conferì meriti, non solo di moderazione; ma anche di intuito politico e sagacia.

L’abbandono dei territori conquistati portò un ritorno alle condizioni anteriori al tempo di Augusto:  Roma e Partia tornarono nei loro precedenti confini, l’Armenia alle sue condizioni di regno nominalmente indipendente; ma troppo debole per reggersi da solo e necessariamente bisognoso del supporto esterno, di volta in volta, operato da Roma o dalla Partia.

Il primo Re dell’Armenia, dopo che questa cessò d’essere provincia romana, fu Parthamaspates cui Adriano sembra abbia imposto sul trono probabilmente con il beneplacito di Chosroes  il quale se pure non ben disposto nei confronti del nuovo sovrano,  dovette riconoscere che questo principe  aveva riportato alla Partia la più importante delle sue province.

Chosroes si dice abbia continuato a mantenere rapporti amichevoli con Adriano, per il resto della sua esistenza e solo nel 122 A.D. pare  sia nata una incomprensione, di cui non ci è nota l’esatta causa; ma che costrinse l’Imperatore ad un viaggio in Oriente per rassicurarsi personalmente che non vi fossero pericoli di sorta.

 I due Re si trovarono alla frontiera ed ebbero un incontro chiarificatore dal quale entrambe uscirono soddisfatti.

Il Principe Parto confermò a Roma la sua volontà di pace ed i rapporti tra i due imperi continuarono, non solo per il resto del regno di Chosroes; ma anche molto tempo dopo la morte di Adriano, in un clima di fedeltà e di amicizia.

Nel 130 A.D. Adriano restituì a Chosroe la figlia che era stata data come ostaggio a Traiano  quattordici anni prima e che era rimasta in cattività a Roma e gli promise anche la restituzione del “trono d’Oro” catturato sempre in quel periodo ed a cui i Parti riconoscevano un valore particolare.

Negli ultimi anni del suo regno Chosroes  ebbe a contendere con un pretendente al trono il cui nome, tanto comune a quel tempo era: Vologases.

L’impero dei Parti, con il passar del tempo aveva mostrato una spiccata tendenza alla disgregazione e c’è ragione di credere che, durante il periodo generalmente assegnato al regnare di Chosroe ( 108 – 130 A.D.) anche altri sovrani abbiano regnato, in contemporanea ed in siti diversi della Partia.

Le monete di Vologases 3° circolarono parallelamente  e per molti anni assieme a quelle di Chosroe .

Allo stesso periodo appartengono anche una moneta di Mitridate ed un'altra attribuita ad un cetro Artabano.

 

(Dracma d’argento di Vologases 3°)

Gli scrittori classici non fanno riferimento a questi Re rivali e la documentazione locale è così scarsa che non è possibile astrarre una consecutio- regni; possiamo solo dire che la Partia era oramai entrata in un periodo di decadenza tale che, anche se non fossero intervenuti eventi esterni, il suo imperio non avrebbe potuto durare ancora a lungo: forse meno di un secolo.

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Dal diario di viaggio: Diciannovesimo giorno: il sacrilegio di Cassio

 

George, dopo Traiano riprese la guerra contro i Parti?

No Caesar, Adriano ed Antonino Pio che succedettero a Traiano sul trono di Roma  furono imperatori più orientati alla pace; ma dopo che l’irrequieto Vologases 4° si era nuovamente impadronito dell’Armenia per Aurelio, il nuovo imperatore fu giocoforza riprendere il contrasto armato…non comandò direttamente la spedizione, inviò Vero che fortunatamente, circondato da buoni ufficiali, portò  al successo la spedizione; ma il migliore forse dei suoi generali uomo d’arme per tradizione e vocazione, ingolosito dai tesori accumulati nel tempio non resistètte alla tentazione del sacrilegio…che sia stata questa la causa della pestilenza che decimò l’esercito o no sta di fatto che il male si sparse anche nella capitale ed in gran parte del territorio romano.

 

Il Vologases che abbiamo visto contendere a Chosroe la corona, alla morte di quest’ultimo fu alla fine riconosciuto Re, era un principe oramai attempato non più disponibile ad azioni che non fossero strettamente necessarie al mantenimento dello “status quo” e ben felice di intrattenere con Roma i termini amichevoli che erano stati stabiliti dal suo predecessore .

Ancora non erano passati tre anni da quando era stato chiamato al trono della Partia che in alcune zone del regno sorsero inattese fiammate di ostilità.

Pharasmanes che aveva la sovranità sull’Iberia, sotto protezione romana, nel 133 A.D. aveva invitato una orda di barbari del Nord, originaria delle regioni oltre il Caucaso, a spostarsi verso l’Armenia, la Cappadocia e la Media Atropatene che ancora dipendeva dalla Partia ed a mettere a ferro e fuoco i centri di quelle fertili regioni.

Vologases 3° fece presente a Roma la situazione e richiese aiuti per venirne a capo; ma Adriano, ritenendo che i torbidi scoppiati in località tanto lontane non avessero importanza se non relativa per l’Impero e ritenendo la Cappadocia protetta a sufficienza dal suo governatore: Arrian  lasciò che Vologases se la cavasse da solo come meglio poteva.

Il vecchio monarca fece allora ricorso ad un espediente poco politico e disgraziato, convinse le orde degli Alani che avevano invaso la sua provincia a lasciare il paese e portare le loro armi verso territori più lucrosi.

Una politica di questo genere, saltuariamente adottata  anche da Roma, non  poteva portare altro che ad orrori e rovina.

Una volta entrati in un paese i “barbari” è certo che continuarono a vessarlo sino allo sfinimento ed alla degradazione del popolo ospite.

 Adriano, sempre orientato alla pace, si astenne dal prendere iniziative nella guerra contro gli Alani; ma quello che sorprende è il fatto che invece di infliggere una punizione a Pharasmanes per la sua inusitata azione nell’aver  chiamato i barbari in Asia ed averli lasciati liberi di scorazzare per l’intero paese, dopo un po’ lo lodò, lo ricoprì di onori e gli concesse benefici.

Chiamato a Roma per rispondere della sua condotta, dette ad Adriano spiegazioni tanto esaurienti che il suo crimine non solo venne perdonato; ma gli fu anche concesso un allargamento dei suoi domini e vari  favori di altro tipo come sacrificare sul Campidoglio, porre la sua statua equestre nel tempio di Bellona e presenziare ad una manifestazione in cui il monarca Iberiano, suo figlio ed il capo della nobiltà, poterono esibire la loro abilità e prodezza.

Vologases non fu certo contento nel constatare che le sue lagnanze alla fine si erano risolte in un nulla di fatto, anzi in onori per Pharasmanes, sembra tuttavia che le abbia accettate senza replicare, quando Adriano passò a miglior vita (138 A.D.) e gli successe il figlio adottivo: Tito Aurelio, meglio noto come Antonino Pio, mandò a Roma una ambasciata per congratularsi con il nuovo imperatore e lo omaggiò con una corona d’Oro.

 

(Denaro d’Argento di Antonino Pio)

 

Le monete che ricordano l’evento furono battute nel primo anno di imperio e portano sul rovescio una figura femminile che tiene nella mano sinistra arco e faretra mentre con la destra porge una corona; nel circolo compare l’iscrizione: PARTHIA.

Vologases pensava così di essersi ingraziato il nuovo sovrano e si permise di rivolgergli una poco cortese richiesta.

Adriano, in un momento forse di debolezza aveva promesso che il trono d’Oro, catturato da Traiano nella sua spedizione in Oriente, sarebbe stato restituito; ma aveva lasciato passare molto tempo prima di dare esecuzione alla  promessa ed alla fine era morto senza che il trono fosse stato restituito.

 

 Vologases sperava che il successore avrebbe mantenuto la promessa del precedente sovrano ed aveva appositamente mandato una ambasceria perché Antonino restituisse a lui il ricco ed importante cimelio; ma L’imperatore  non era assolutamente dell’avviso di onorare le promesse del suo predecessore ed i messaggeri furono invitati a riferire al loro sovrano che al momento ogni speranza di ricevere l’emblema della sovranità Arsacide  andava accantonata.

Il resto del regno di Vologases trascorse in tranquillità non segnato da incidenti di sorta.

Nei confronti dell’Armenia i Parti non avanzarono pretese e Roma per sua parte, alla morte di Parthamaspates  accettò di buon grado, senza protestare, l’elezione del nuovo Re; anche per la questione del trono d’Oro non venne fatto alcun ulteriore tentativo per riaverlo.

Il raffreddamento tra le due potenze che era seguito al rifiuto di Antonino Pio alla richiesta di Vologases era il pretesto per Roma di tenere a debita distanza il potente rivale e prevenire così occasioni di scontro mentre per i Parti l’azione pacifista di Antonino preservava il paese da torbidi interni e lasciava il successore di Chosroes  felicemente sul trono, senza pretendenti e per il lungo periodo di 19 anni    ( dal 130 al 149 A.D.)

Il vecchio sovrano lasciò la sua corona ad un altro Re che portava il suo stesso nome: Vologases 4° con ogni probabilità suo figlio, anche se non ne abbiamo prove certe.

Vologases 4° ascese la trono verso la fine del 148 A.D. o nei primi mesi del 149 A.D. assunse lo stesso titolo del suo predecessore; ma aggiunse alle monete la scritta, in semitico, “Vologases Re” oppure “Vologases Arsace, Re dei Re”

 

         (Dracma d’Argento di Vologases 4°)

 

Queste monete datano dal 148/9 A.D. al 190/1 A.D. a dimostrazione del fatto che tenne lo scettro per ben 42 anni.

 

Fu contemporaneo di Antonino Pio e sebbene non condividesse l’idea dell’esclusione della Partia  sull’influenza Armena e si dichiarasse pronto ad entrare in conflitto aperto con Roma per questo, si persuase alla pace per le lettere che l’Imperatore pacifista romano gli aveva inviato in cui lo rassicurava sul fatto che sino a che fosse rimasto sul trono di Roma non sarebbe sceso in guerra contro i Parti lasciando al suo successore l’eventualità di una rottura nei rapporti di pace.

Alla morte di Antonino, Valogases 4° ruppe gli indugi e marciò decisamente contro l’Armenia, depose Soaemio, creatura e vassallo di Roma, lo espulse dal paese e mise sul trono un suo fedele di nome: Tigrane rampollo della vecchia casa reale il cui nome richiamava i tempi della maggior gloria Armena.

I governatori romani delle province limitrofe  rimasero sorpresi dalla rapidità dell’azione  allarmati dal fatto che l’Armenia era stata di fatto staccata dall’impero.

Il prefetto della Cappadocia: Severiano, impetuoso uomo d’azione, di origine gallica, si portò immediatamente sul posto, alla testa di una singola legione, in parte sospinto dal suo temperamento ed in parte convinto dalla profezia di uno pseudo indovino di quelle parti che gli aveva predetto una suonante vittoria.

Il risultato non fu purtroppo per lui quello agognato; appena passato l’Eufrate ed ancor prima di entrare in Armenia si trovò di fronte a forze preponderanti al comando di un generale Partico di nome Chosroes e non trovò altra soluzione se non quella di rifugiarsi nella città di Elegeia in cui venne immediatamente bloccato ed assediato.

La strenua resistenza che oppose fu vana, non aveva truppe qualitativamente valide né motivate, in grado di rompere il cordone dell’assedio, fu così che in breve tempo i Romani  caddero tutti sotto le micidiali frecce dei parti; solo pochi riuscirono a salvarsi; Severiano perì con loro e parve ai Parti di aver ottenuto un successo come quello avuto da  Surena nei confronti di Crasso o di Arminio contro Varo.

La loro supremazia sull’Armenia venne riconfermata e le province romane si trovarono ancora una volta in balia degli attacchi Partici i cui squadroni, attraversato l’Eufrate marciarono verso la Siria e qui ottennero un secondo successo militare contro L. Attido Corneliano, proconsole di quel paese che raccolte assieme le forze a sua disposizione,  dette battaglia in campo aperto; ma fu battuto.

Dopo la vittoria  la situazione in Oriente era in tutto e per tutto simile a quella che e era venuta a crearsi dopo la sconfitta di Crasso o quando Labieno e Pacoro, nel 40 A.Ch. avevano portato rovina e distruzione nelle regioni comprese tra L’Eufrate e l’Oronte.

Dalla Siria, i Parti passarono alla Palestina e l’intero Oriente romano parve allora aperto all’invasione; le notizie che giungevano a Roma  misero il Senato in costernazione.

Aurelio non poteva allontanarsi dall’Italia ed in vece sua inviò Vero a rappresentarlo in Oriente con tutte le forze militari disponibili per fronteggiare l’avanzata  Partica.

Vero non rimase entusiasta della scelta, visto che se ne stava tranquillo a girovagare per la Puglia, tuttavia da qui prese la via della Siria dove non trovò di meglio che concludere  subito una pace con i Parti.

Si trasferì successivamente nella lussuriosa Antiochia dandosi ai piaceri più sfrenati e lasciando ai suoi luogotenenti le cure della guerra.

Fortunatamente per Roma non tutti i luogotenenti di Vero erano come lui, tra questi generali alcuno di vecchio stampo c’era, in particolare: Statio Prisco, Avidio Cassio e Martius Verus.

Cassio, prim’ancora dell’arrivo di Vero e del suo esercito aveva dato vita ad una resistenza tangibile; con incredibile sforzo era riuscito a portare l’ordine e la disciplina di guerra nelle sue legioni ed era adesso in condizione, dopo aver bloccato l’avanzata di Vologases 4° di  passare alla contr’offensiva;  nel 163 A.D. si scontrò con i Parti, li sconfisse e li costrinse a ripassare l’Eufrate.

Nello stesso tempo Statius Priscus e Martius Verus avevano dato inizio al recupero dell’Armenia; Statius era avanzato senza problemi sino ai confini ed oltrepassatili era giunto alle porte della capitale Artaxata; aveva conquistato la città, l’aveva messa a ferro e fuoco e dopo averla completamente rasa al suolo la ricostruì inserendovi una forte guarnigione romana.

Informò il Senato  Romano e l’Imperatore che l’Armenia era ora in grado di ricevere degnamente l’espulso principe Soaemius e Soaemius tornò, sebbene contrastato da parte della popolazione contraria a Roma.

Gli irriducibili vennero successivamente sconfitti da Martius Verus ed il principe voluto da Roma, venne universalmente riconosciuto come legittimo sovrano ed il paese ritrovò finalmente uno stato di tranquillità.

I successi che Vologases aveva inizialmente raccolto a questo punto erano andati completamente perduti; nel breve volgere di due anni Roma era riuscita a ricomporre il dissidio dimostrando di essere pienamente  in grado di mantenere la posizione acquisita  nei territori dell’Asia Orientale che aveva ottenuto con le conquiste di Traiano.

I generali cui era ricaduta pressochè totalmente la condotta della guerra, data l’incapacità e la pigrizia di Vero, non rimasero certo soddisfatti dal riconoscimento loro offerto: “ciò che avevano fatto era motivo patriottico, piuttosto che impegno personale”

 

 In  casi come questi la “distinzione militare” sul campo veniva considerata da tutti come foriera di altri più elevati onori ed il generale in capo: Vero,  in virtù della sua posizione, entrò in corsa, data la vittoria ottenuta dalle sue truppe, per la carica imperiale.

 

 

(Denaro d’Argento di Lucio Vero)

 

Se sotto Napoleone ogni soldato aveva la consapevolezza che la sua carriera: il bastone di maresciallo, era contenuta nello zaino, ancor più i generali operanti in Medio Oriente erano convinti che ogni vittoria militare conseguita li avrebbe avvicinati al trono.

Tra tutti gli ufficiali coinvolti nella guerra contri i Parti, il più capace ed ambizioso era Avidio Cassio, rampollo della famiglia del “Grande Liberatore” che aveva conteso il supremo potere dello Stato ad Augusto ed Antonio.

Aveva Cassio una inclinazione ereditaria, quasi cromosomica che lo spingeva al fronte e lì non si lasciò sfuggire nessuna delle occasioni che la dea Fortuna gli mise sulla strada.

La posizione che aveva in Siria gli offrì una splendida opportunità e dopo i primi successi contro Vologases 4° Aurelio lo nominò come una sorta di “Generalissimo”, dandogli così quella maggiore libertà d’Azione che gli consentì di portare guerra sul territorio  nemico dove cercò di eguagliare, se non superare, le gesta ed i risultati di Traiano, ottenuti mezzo secolo prima.

Non possediamo resoconti dettagliati di questa campagna; ma dalle poche frammentarie notizie in nostro possesso possiamo farci un’idea  del suo svolgimento e del carattere che ebbe.

Attraversato l’Eufrate a Zeugma, la più importante stazione romana sul fiume, procedette verso Nicephorium, vicino alla confluenza del Belik con l’Eufrate e da qui prese la via, lungo il corso del fiume, verso Sura ( Con ogni probabilità: Sippara) e Babilonia.

 

A Sura venne combattuta una battaglia campale che vide la vittoria dei Romani e fu dopo questo evento che Cassio ottenne il grande successo che lo ricoprì di gloria.

La grande città di Seleucia, all’epoca contava ca. 400.000 abitanti,  venne posta sotto assedio, conquistata e data alle fiamme per punire il tradimento dei suoi abitanti; Ctesifonte, residenza estiva dei Re Parti, sulla riva opposta del fiume, venne occupata ed il palazzo reale messo a sacco e distrutto sino alle fondamenta.

I vari templi e cappelle furono spogliati dei loro preziosi arredi e la caccia alla ricchezza coinvolse ogni più recondito sito e fruttò un immenso bottino.

I Parti ebbero la peggio in ogni scontro in cui s’impegnarono sì che dopo un po’ cessarono ogni resistenza.

Tutto il territorio a suo tempo conquistato da Traiano e restituito poi da Adriano tornò in possesso di Roma, inoltre Cassio organizzò una spedizione che inoltrandosi nel tratto montagnoso dello Zagros occupò buona parte del territorio considerato come appartenente ai confini della Media e mai dai Romani conquistato prima.

Aurelio consentì al suo fortunato generale l’onore di aggiungere ai titoli di       “ Armeniaco” e  “Partico” che già aveva, anche quello di “Medicus”

Diversamente da quanto era avvenuto con Traiano, i Parti non ne rivendicarono il possesso ed i territori, per quanto non riuniti in provincia  andarono ad ingrandire il già vasto territorio orientale dell’impero, anzi quando dopo cinque anni di insuccessi finalmente Vologases si decise a chiedere la pace, si trovò costretto a cedere definitivamente  l’intera  Mesopotamia Orientale.

Tutta la regione tra l’Eufrate e Khabur  passò così sotto il dominio di Roma,  definitivamente tolta alla Partia.

Le monete delle città greche comprese nel territorio, emesse in quel periodo, riportano sul dritto la testa dell’Imperatore romano e sul rovescio simboli e leggende locali, ogni traccia dell’influenza partica era come per incanto scomparsa.

Cassio nonostante gli onori che  Roma gli aveva tributato per i successi ottenuti nella guerra contro Vologases, non riuscì a sfuggire all’anemesi che puntualmente colpisce gli iperfortunati.

Durante la lunga permanenza nelle paludi della bassa Mesopotamia  l’esercito di Cassio venne colpito dai germi di una strana e terribile malattia che si protrasse a lungo interessando la quasi totalità  dell’esercito in ritirata.

La superstizione dei militi ritenne che il male fosse di origine divina quando Cassio aveva tratto fuori, da una cella sotterranea del tempio di Apollo Commeano a Seleucia, un forziere pieno d’oro e secondo le scritture dei Caldei il Dio vendicava adesso ampiamente le sconfitte ed i molti dolori inflitti ai Parti.

Ogni paese toccato dall’armata in ritirata ne era contagiato e da questi centri si propagava al paese vicino in tutte le direzioni; da Nord a Sud , da Est ad Ovest.

A Roma il conto della pestilenza si attestò sulle decine di migliaia e non solo ne fu largamente colpito il popolino della Suburra, vittima abituale delle pestilenze; ma anche uomini d’alto rango.

Secondo Orosio in Italia interi paesi e città furono così devastati e decimati nella popolazione  che le coltivazioni erano lasciate andare in rovina ed i campi tornarono ad inselvatichirsi.

Chi ne soffrì di più fu l’esercito che alla fine si dice sia stato quasi totalmente annientato.

Nelle province, più della metà della popolazione era morta e la pestilenza, superate le Alpi, si sparse dal Reno all’Oceano Atlantico.

Il resto del tempo di Vologases 4° non ebbe risonanza storica, il sovrano continuò a regnare sulla Partia sino al 190 – 191 A.D. senza tuttavia dare ulteriore impulso ad operazioni militari.

Una sola volta sembra si sia astenuto dalla totale inazione e fu nel 174 – 175 A.D. in quel tempo Aurelio era immobilizzato con il suo esercito sul Danubio e l’ambizioso Avidio Cassio aveva spinto il Re dei Parti ad aperta ribellione, il prospetto di una guerra civile sembrò offrire a Vologases 4° una qualche speranza di riscatto; ma  l’opportunità tramontò prima che il Parto fosse stato in grado di dar vita ad un serio movimento di rivolta.

Cassio si spense molto presto e l’Oriente tornò alle sue normali condizioni di vita; Vologases 4° ridimensionò le sue intenzioni belliche e quando nel 176 A.D. Aurelio visitò la Siria, gli mandò ambasciatori per rinnovargli l’amicizia.

 

 

(Denaro d’Argento di Marco Aurelio)

 

Quattro anni dopo il regno del filosofico imperatore romano ebbe fine ed il potere imperiale passò nelle mani del  fiacco ed indegno figlio: Lucio Aurelio Commodo.

A Vologases 4° si offrì allora nuovamente l’opportunità di riprendere le ostilità; ma se ne astenne e rimase passivo nei limiti del proprio territorio.

Commodo, durante il suo regno ( 180 . 192 A.D.)  volle inizialmente mantenere inalterato il rapporto con i Parti.

Vologases 4° era oramai anziano, regnava da 32 anni quando Commodo salì al potere imperiale e non aveva più interesse ad impegnarsi in azioni di guerra; Roma d’altro canto Roma, si mostrava intenzionata a mantenere intatte le conquiste conseguite in Mesopotamia e quando Vologases 4° passò a miglior vita ( 190 – 191 A.D.) di fatto le cose continuarono come erano state stabilite sino dai tempi di Aurelio, nel 165 A.D.

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Buona serata al forum ed a te amico Dabbene...non farmi diventare rosso...di grandi c'è solo Lui, ad ogni buon conto caparbiamente abbiamo portato a conclusione quanto mi ero proposto; i due ultimi capitoli sono già pronti e li posterò quanto prima, adesso sto cercando di rifinire il tutto perchè sia più fruibile, con gl'indici, le genalogie ed i quadri riassuntivi delle monete; anche le foto dei luoghi che ho trovato su internet ed ovviamente le foto dei personaggi coinvolti nella storia ed immortalati sulle monete, sono già al loro posto; che dire ancora spero prima di Pasqua di aver pronto il dischetto che ti invierò sopratutto perchè tu possa favorirmi i suggerimenti che ritieni più oppotuni e di cui farò tesoro. Un salutone ed a presto risentirci da nonno cesare

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Buon giorno al Forum e grazie a te Rocco per il sostegno morale, siamo oramai al penultimo post, in settimana vedrò di concludere l'escursus storioco per poi dedicarmi alle "rifiniture" che rendono lo scritto più fruibile...buona giornata a tutti da nonno cesare

 

 

Dal diario di viaggio: Ventesimo giorno: Severo come Traiano;

        ancora una volta di fronte ad Hatra

 

        Caro Caesar  diventa qui tangibile il decadimento della potenza romana…sono oramai i generali distanziati nelle varie parti dell’Impero che prendendo il sopravvento sulle istituzioni: vengono proclamati dall’esercito o si proclamano: Imperatori

I rapporti con la Partia George ?

Ebbero un ultimo sussulto con Settimio Severo che cercò di arginare l’irruenza dei Parti poi…poi vedremo, per ora fermiamoci qui

A Vologases 4° subentrò un Principe, probabilmente il figlio, che portava il suo stesso nome: Vologases 5°

 

 

(Dracma d’Argento di Vologases 5°)

 

Sulle monete è rappresentato di fronte e sul rovescio compare la data che va dal 191 al 208 A.D. fu pertanto contemporaneo di ben cinque imperatori romani: Commodo, Pertinace, Didio Giuliano, Prescennio Nigro, Settimio Severo  e fu proprio con quest’ultimo imperatore che Vologases 5° dovette cimentarsi sul piano militare.

Poco dopo l’ascesa al trono del principe Parto gli ufficiali della corte di Commodo, stanchi per gli eccessi e la crudeltà dell’imperatore, cospirarono contro l’indegno figlio di Aurelio e lo uccisero mentre prendeva il bagno.

 

 

(Denaro d’Argento di Commodo)

 

A questa seguì un'altra uccisione, questa volta toccò a Pertinace e per motivi opposti: la virtù ed il comportamento troppo rigoroso.

 

 

(Denaro d’Argento di Pertinace)

 

Dopo questo secondo eccidio i Pretoriani misero all’asta il titolo di Imperatore Romano; Didio Giuliano, ricco sentore se l’aggiudicò  pagando oltre tre milioni delle nostre attuali Lire Sterline.

 

 

(Denaro d’Argento di Didio Giuliano)

 

L’indegno comportamento del senato esaurì la pazienza delle legioni e scoppiarono rivolte  in tre diversi luoghi: Britannia, Pannonia e Siria dove i soldati offrirono la porpora ai loro rispettivi comandanti: Clodio Albino, Settimio Severo e Prescennio Nigro.

Nigro, come prefetto della Siria e quindi come seconda carica dell’Impero fu portato a credere che la sua elezione non potesse essere messa in discussione ed invece di raccogliere milizie e cercare alleati, in previsione di eventuali contestazioni, declinò l’offerta di aiuto che gli veniva da diversi feudatari legati ai Parti e se ne rimase tranquillo in Siria in attesa dalla ratifica da parte del Senato.

Non molto tempo dopo lo raggiunse la sgradita notizia che il Senato aveva nominato alla carica imperiale Settimio Severo e che questi stava adesso marciando verso la Siria determinato a disputarsi con lui la corona imperiale.

 

 

(Denaro d’Argento di Prescennio Nigro)

 

La doccia fredda fece cambiare politica a Nigro che si vide costretto ad implorare dai vari satrapi della Partia quegli aiuti che poco prima gli erano stati offerti e che aveva rifiutato.

Verso la fine del 193 A.D. inviò un dispaccio alla corte dei  principi d’oltre Eufrate ed in particolare ai Re dell’Armenia, della Partia e di Hatra invitandoli a mandargli in aiuto, il più presto possibile, contingenti di truppa con cui respingere Settimio Severo.

 

Il monarca Armeno: Vologases,  fece rispondere che non era sua intenzione prendere posizione con l’una né con l’altra parte, semplicemente si sarebbe tenuto fuori dal conflitto ed avrebbe solo cercato di difendere il suo regno da ogni eventuale attacco, da qualsiasi parte gli fosse giunto.

Nella replica il Re dei Parti: Vologases 5° fu più diplomatico, disse che al momento non avrebbe potuto inviare truppe giacche il suo  esercito si era appena congedato; ma che avrebbe dato ordine ai suoi Satrapi di raccogliere, nel più breve tempo possibile un esercito da inviargli.

Barsemio, il Re di Hatra, andò oltre i limiti della sua sovranità ed inviò a Nigro un contingente di arcieri che raggiunse il campo romano e prese parte alla guerra.

Vologases 5° sanzionò la decisione del suo feudatario  che non aveva considerato la volontà contraria del  monarca.

Vologases 5°  era ancora indeciso sulla posizione da prendere per  schierarsi da una o dall’altra parte nell’imminente conflitto e prendeva tempo aspettando di vedere a quale dei due contendenti la fortuna avrebbe arriso.

Il conflitto non durò a lungo; Nigro passò dall’Asia in Europa e prese campo a Bisanzio; ma  battuto a Cyzico, fu costretto a ritirarsi in Asia Minore  e dalle parti di Isso, ingaggiò una battaglia campale con il suo avversario: il suo esercito fu completamente sbaragliato ed egli stesso catturato e passato per le armi.

Fu a questo punto che gli Orientali ripresero le ostilità contro i Romani; i paesi della Mesopotamia, scesi in rivolta,  massacrarono la maggior parte dei distaccamenti romani che erano nei loro paesi e posero l’assedio a Nisibis:  il quartier generale del Distretto Romano.

Le tribù consanguinee, al di là dell’Eufrate, più in particolare il popolo di Adiabene  avevano, a loro volta, dato loro man forte ai paesi della Mesopotamia  e preso parte alla rivolta.

Il primo obbiettivo di Severo, dopo la disfatta e la morte di Nigro fu quello di rompere l’assedio di Nisibis e castigare quelli che  avevano aiutato od in un qualche modo favorito la rivolta.

 

 

(Denaro d’Argento di Settimio Severo)

 

Marciò dunque decisamente su Nisibis e sconfisse le forze congiunte di Osrhoeni ed Adiabeni, ripristinò la guarnigione distrettuale e pacificò l’intera area; passò poi a sottomettere nuovamente la Mesopotamia.

Gli abitanti cercarono di rabbonire lo sdegno dell’Imperatore asserendo che la loro rivolta era esclusivamente mirata a contrastare il suo rivale Nigro da cui desideravano separarsi per avvicinarsi a lui, professavano buona fede nei suoi confronti e la volontà di restituire i soldati romani che erano stati fatti prigionieri nonché il bottino che ancora era nelle loro mani, ma si guardarono bene di parlare della  restituzione delle fortezze occupate ed ancor meno di ripristinare la situazione tributaria con Roma, chiesero invece che tutte le truppe romane che erano ancora presenti sul territorio fossero allontanate per rispettare la loro indipendenza.

Severo non era certo disposto ad accettare questi termini anche perché i Re suoi avversari di Osroene, Adiabene ed Hatra non avevano a disposizione grandi milizie e riteneva di poterli sconfiggere senza difficoltà ed anche se il Re dei Parti fosse corso in loro soccorso riteneva di essere in grado di fronteggiarlo nel confronto bellico.

Le spedizioni di Traiano e di Avidio avevano ridimensionato l’alone di terrore che circondava il nome delle milizie Partiche e l’Oriente rappresentava ora, per i giovani romani di una qualche ambizione, un banco di prova dal quale si poteva raccogliere gloria senza correre soverchi pericoli, di conseguenza l’Imperatore respinse le argomentazioni Mesopotamiche e costituì un esercito in grado di riportare il paese sotto la completa soggezione di Roma.

 

Dalla posizione centrale di Nisibis ov’egli risiedeva,  spinse l’esercito in tre diverse direzioni, sotto la guida dei suoi tre migliori comandanti. Laternus, Candidus e Laetus con l’ordine di mettere a ferro e fuoco l’intera regione e ristabilire ovunque l’autorità Imperiale.

Il suo volere fu eseguito alla lettera, la resistenza fu schiacciata ovunque ella fosse, ripristinate le vecchie amministrazioni e Nisibis,  ridotta a dignità di “Colonia Romana” divenne la capitale del paese.

Non contento di questo ordinò alle sue truppe di oltrepassare il Tigri per inoltrarsi nell’Adiabene che nonostante la fiera resistenza degli abitanti, venne occupato.

A questa sarebbero sicuramente potute seguire altre aggressioni e conquiste se nell’Ovest: Albino non avesse assunto un atteggiamento di rivolta che costrinse Severo ad abbandonare l’Oriente  per tornare in Occidente dove dalle Gallie il comandante delle legioni di quel distretto minacciava di marciare su Roma.

 

 

(Denaro d’Argento di Clodio Albino)

 

Settimio Severo lasciò Nisibis per tornar a Roma nel 196 A.D. e non si era allontanato da molto tempo dal paese che le fiammate di guerra tornarono a divampare più forti di prima.

Vologases 5° uscì dalla propria inazione portando le sue truppe nell’Adiabene dove scompaginò la guarnigione romana, oltrepassò quindi il Tigri, si portò in Mesopotamia  e cacciò i Romani dall’intero paese.

Anche le città si sottomisero spontaneamente ad eccezione di Nisibis che si salvò dalla conquista grazie alle capacità ed al coraggio di Laeto.

A sentir Spartiano, i Parti non contenti di aver riconquistato la Mesopotamia oltrepassarono l’Eufrate e dilagarono nelle fertili pianure della Siria del Nord come ai tempi di Pacoro e Labieno.

Severo era troppo impegnato nel contrasto con Albino per occuparsi dell’Oriente e la prefettura siriana per quasi un intero anno rimase aperta alle incursioni Partiche.

Un monarca intraprendente ed audace nell’arco di quell’anno avrebbe potuto fare molto più di quanto non riuscì a fare Vologases 5° che sprecò l’opportunità che gli si era offerta ed alla fine, dopo la vittoria riportata a Lione su Albino, Severo  tornò  nuovamente ad occuparsi dell’Oriente.

Nella primavera del 197 A.D. organizzò una seconda spedizione all’Est con l’intento di recuperare il territorio perduto e giustificare i  titoli che nel frattempo aveva assunto di “Arabicus” e “Adiabetico” e forse aspirava, come Traiano, a qualcosa di più, a ridurre cioè l’intero popolo Parto sotto il giogo di Roma.

Condizione “sine qua non” per chi volesse assalire la Partia era quello di assicurarsi preventivamente l’amicizia almeno dell’Armenia e dell’Osrhoene.

L’Armenia già aveva dichiarato la sua neutralità quando era sorto il contenzioso tra Severo e Nigro; ma successivamente all’arrivo di Severo in Oriente si era dimostrata contrariata ed aveva visto con ostilità il programma romano.

Da parte sua la prima intenzione di Severo fu quella di dirottare l’esercito sull’Armenia per invaderla e ridurla in soggezione; inizialmente le fortune della guerra furono dalla sua parte.

Vologases, il Re armeno,  fece allora proposte di pace inviando doni ed ostaggi all’imperatore ed assumendo atteggiamento supplice e servile tanto che Severo non solo concluse con lui un trattato di pace; ma gli garantì anche una certa estensione nei  domini.

Nell’Osrhoene, il Re arabo che come al solito si chiamava Abgaro fece la più  completa ed inqualificabile sottomissione.

Cavalcò alla volta del campo romano alla testa di un gran numero di arcieri, i cui servigi offrì all’Imperatore, accompagnato da molti suoi figli e chiese a Severo di trattenerli come ostaggi.

Tutto procedeva per il meglio ed a Severo non rimaneva altro se non decidere la via da seguire per portarsi verso il monarca Parto che nel frattempo si era attestato a Ctesifonte pronto a riceverli.

Severo decise per la via dell’Eufrate; ma allo stesso tempo cercò di mascherare le sue intenzioni mandando un forte contingente di soldati ad attraversare il Tigri per saccheggiare l’Adiabene e dare l’impressione che volesse iniziare l’attacco da questo settore, in contemporanea, seguendo l’esempio di Traiano armò una flotta fatta costruire nella Mesopotamia superiore, dove il legno era abbondante, ed iniziò la marcia sulla riva sinistra dell’Eufrate mentre le sue navi, cariche dei bagagli discendevano il fiume.

Presto raggiunse i sobborghi di Seleucia e Ctesifonte, senza incorrere in particolari difficoltà e presi i Parti di sorpresa ,conquistò Babilonia e Seleucia che erano pressochè prive di difensori prima di  schierarsi davanti alla capitale.

La flotta era in grado di passare da un fiume all’altro utilizzando i canali che solcano la pianura alluvionale dandogli così il completo controllo del Tigri e la possibilità di attaccare la città da tutte le parti.

Si dice che Vologases 5° abbia combattuto una sola battaglia per difendere la sua capitale; ma che sconfitto si sia poi ritirato dentro le mura della città.

La difesa non fu forte a sufficienza da impedire, dopo un breve assedio, la capitolazione, tuttavia nel trambusto generale il Re, attorniato da pochi cavalieri riuscì a fuggire alla cattura.

Per la terza volta in 82 anni Ctesifonte era caduta in mano straniera, la prima volta aveva aperto spontaneamente le porte ai Romani ed era stata trattata con mitezza, la seconda volta aveva sofferto non  poco, adesso doveva subire condizioni di estrema durezza per opera di un Imperatore il cui carattere  ben si accordava con il suo nome: Severo.

La città venne data al massacro ed al saccheggio, ai soldati fu permesso di saccheggiare sia le abitazioni private che quelle pubbliche, il tesoro reale venne depredato ed i ricchi  ornamenti in metallo prezioso, oro ed Argento, rimossi e portati via.

Gli uomini adulti vennero massacrati e le donne ed i bambini, a centinaia di migliaia, vennero strappate alle loro case e ridotti in schiavitù.

La spedizione di Severo in terra d’Oriente aveva avuto la sua consacrazione in questo barbaro modo.

 

Si fermò dove Traiano si era fermato nel 116 A.D. padrone dell’intera regione tra il deserto Arabico e le montagne dello Zagros, padrone della Mesopotamia, di Assiria, Babilonia e dell’intero tratto limitato dai due grandi fiumi, dal comprensorio Armeno sino alle sponde del Golfo Persico;  che uso avrebbe fatto delle conquiste ?

Come Traiano avrebbe cercato di tenerle o di ritirarsi come aveva fatto Adriano?

Cercò di prendere una decisione immediata; considerato il fatto che tenere i distretti più  non era possibile e che la parte più ad Est dell’impero Partico era oltre la sua portata,  non inseguì Vologases nella fuga verso le remote regioni in cui aveva trovato rifugio, né tantomeno pensò ad organizzare in Provincia la conquista del Sud; ritenne invece più opportuno evacuarle.

A dispetto della preparazione accurata che aveva fatto per invadere il territorio dei Parti e la cura che aveva posto per gli approvvigionamenti si trovò, al tempo della presa di Ctesifonte, nella necessità di dover ricorrere a rifornimenti.

Aveva esaurito le immense scorte di grano che normalmente gli derivavano dalla  Bassa Mesopotamia giacchè gli abitanti del luogo avevano distrutto o nascosto i raccolti e le sue truppe furono costrette,  per alcuni giorni a mangiare radici che procurarono loro pericolose dissenterie.

Dovette  ritirarsi prima che la fame prendesse il sopravvento anche perché durante la marcia di avvicinamento aveva saccheggiato la regione in tutte le sue risorse di cereali e di foraggio e adesso non aveva più nulla da depredare per cui fu costretto, sia pure con rischio, a battere strade nuove.

Quella del Tigri era la sola che gli si presentasse aperta e lungo questa avanzò, supportato ancora dalla  flotta che percorreva il fiume in controcorrente, anche se  con qualche difficoltà.

Non sembra che abbia incontrato opposizione di rilievo; ma quando si trovò al cospetto di Hatra, la capitale del piccolo stato, soggetto alla Partia, si ricordò dell’offesa personale che gli aveva arrecato dando supporto attivo alla causa del suo rivale: Nigro.

La truppa aveva appena ricevuto sufficienti vettovagliamenti da una zona del paese che non era stata in precedenza sottoposta a  saccheggio e distruzione ed era adesso pronta  per nuove imprese.

 

Severo, punto nell’ onore, volle castigare una città che, senza provocazione, riteneva comunque  nemica.

Si ricordava anche che Traiano aveva attaccato Hatra e ne era stato respinto, sperava di riuscire lui a catturare la città ed avere successo là dove gli sforzi del suo grande predecessore erano falliti.

Quali siano stati i motivi pare certo che quando si trovò all’altezza di Hatra deviò il corso della sua marcia verso Ovest accampandosi sotto le mura della città che riteneva lo avesse offeso ed iniziò l’assedio.

 

 

(Veduta aerea delle rovine di Hatra)

 

Aveva con sé molte di macchine belliche, probabilmente quelle impiegate con successo contro Ctesifonte e le posizionò attorno alle mura della città; ma gli abitanti non si lasciarono intimidire, le mura erano forti, i difensori bravi e pieni di risorse.

Trovarono il modo di rendere inservibili le macchine d’assedio e respinsero, con gravi perdite, gli attaccanti.

Dopo questo insuccesso nell’esercito iniziò a serpeggiare un senso di stanchezza e alla minaccia di ammutinamento Severo rispose mandando a morte alcuni dei suoi ufficiali tra cui quel Laeto che era considerato il migliore di tutto l’esercito; il fatto aumentò l’esasperazione e per calmare gli animi l’Imperatore fece correr voce che l’esecuzione di questi ufficiali era avvenuta a sua insaputa.

 

 Anche così i dissidi  non si placarono e per riportare un po’ di calma tra le file fu necessario allentare l’assedio e portare il campo a distanza dalla città; non aveva tuttavia ancora abbandonato l’idea di conquistare Hatra: indietreggiare per meglio controllare, era il principio che guidava la sua azione, nella speranza di rinnovare l’attacco poche settimane dopo aver riordinato l’esercito.

Nella tranquillità e nella sicurezza del luogo dove si era ritirato fece costruire nuove macchine belliche ed in numero maggiore, raccolse tutte le risorse che fu in grado di reperire e fece tutto quello che era possibile fare per ripetere l’attacco, confidando questa volta nel successo.

Non era solo questione dell’offesa al suo onore; ma anche la volontà di piegare finalmente la resistenza di una città che, pure essendo considerata di secondaria importanza, era sempre riuscita a mantenere intatta la sua indipendenza.

Eccitava anche la sua cupidigia la notizia che tra le sue mura fossero conservati ricchi tesori ed in particolare quelli che la pietà popolare aveva accumulato, da tante generazioni, nel tempio del Dio Sole.

Quando ritenne di essere pronto mise in movimento l’esercito per rinnovare l’assedio con maggiore efficacia e con  migliore disposizione delle macchine da guerra; ma gli abitanti gli si opposero con la determinazione di sempre.

Avevano una potente cavalleria che attaccava in continuazione i fianchi dell’esercito nemico e limitava ogni giorno di più i suoi spostamenti spesso infliggendogli gravi perdite; erano arcieri eccellenti e caricavano agevolmente e con impeto maggiore dei Romani; possedevano anch’essi macchine belliche di pregevole fattura ed avevano a disposizione un particolare tipo di “Fuoco” che procurava danni ingenti e faceva paura; si credeva che le fiamme fossero inestinguibili ove scagliate verso le macchine da guerra o verso gli stessi fanti dando ai difensori  ulteriore vantaggio psicologico.

L’Imperatore, dall’alto di una piattaforma presenziava ai combattimenti  e la sua presenza dava coraggio ai soldati che cercavano di dare il meglio di sé.

Alla fine venne annunciato che era stata aperta una breccia su uno dei muri esterni della città tanto che nei soldati si rinnovò il desiderio di combattere per saccheggiare e far bottino; ma ora Severo fermò l’esercito e contrariamente alla consuetudine romana, non dette il placet, dopo la conquista, al saccheggio indiscriminato, come era solito che avvenisse, da parte delle milizie vittoriose.

 

 

Forse pensava che con il saccheggio avrebbe potuto perdere i grandi tesori di cui tanto si favoleggiava.

Attese un giorno, prima di dare l’ordine di attacco, per vedere disse se gli Hatreni avrebbero ancora opposto una inutile resistenza o se più saggiamente fossero entrati nell’ordine di idee di consegnare all’Imperatore la città.

Il tempo concesso fu fatale alle mire di Severo; durante la notte gli Hatreni rinforzarono le mura là dove avevano dato segni di cedimento, ripristinarono gli spalti e ripresero baldanzosi la difesa della loro città.

Severo, visto che non avevano intenzione alcuna di cedere dette ordine ai soldati di attaccare; ma i legionari non si mossero sospettando, con ogni probabilità il vero motivo che aveva indotto all’attesa il loro Imperatore… non erano disposti a mettere a repentaglio la vita per un risultato che avrebbero potuto conseguire due giorni prima senza incorrere in rischi maggiori ed oltretutto senza riceverne l’adeguato compenso in “bottino”

Severo non si perse d’animo e comandò agli ausiliari asiatici di forzare l’ingresso della città con il risultato di mandarli al massacro; alla fine dovette desistere.

L’estate era al culmine ed il caldo intenso e le malattie avevano abbassato il morale delle truppe che soffrivano particolarmente per la mancanza d’acqua, per la malaria e per la piaga degli insetti; l’esercito era fortemente demoralizzato e non in grado di rispettare gli ordini dati; Severo stesso, racconta uno dei suoi ufficiali, non aveva più di seicento soldati occidentali su cui poter fare affidamento.

Il secondo assedio di Hatra durò venti giorni e si risolse con una ignominosa ritirata che rappresentò per Severo, una macchia indelebile sulla sua reputazione militare.

Se Vologases 5° fosse stato un principe energico, audace ed attivo e lo spirito dei Parti si fosse mantenuto quello di un tempo, Severo non  avrebbe potuto evitare il disastro più completo ed i risultati della sua azione sarebbero stati ben diversi.

 

 

La prolungata resistenza di Hatra, le sofferenze patite dall’esercito romano e le loro aumentate difficoltà, rispetto alle previsioni, associate alle ingiurie di una torrida estate su uomini non acclimatati, avrebbero indotto in forte tentazione un principe, od anche un generale audace e capace, ad inseguire il nemico in ritirata, attaccandolo ai fianchi o nelle retrovie, bloccandogli i rifornimenti ed infierendo in mille modi pur di rendere estremamente duro il rientro in patria.

Un Surena della tempra e calibro del generale che si oppose a Crasso avrebbe, con ogni probabilità potuto annientare l’armata imperiale ed a distanza di due o tre secoli si sarebbe potuto ripetere il disastro di Carrae; ma Vologases 5° era un discendente degenerato dei primi grandi Arsacidi e rimase inerme ed apatico quando invece le circostanze avrebbero richiesto una azione ben più vigorosa.

La spedizione di Severo fu così: “gloriosa” per  Roma  mentre fu disastrosa per la Partia che aveva dimostrato, per un terzo di secolo, l’estrema vulnerabilità del potere Asiatico.

Roma si accaparrò quei tesori che erano sfuggiti alla cupidigia di Crasso e venne istituita una seconda e più valida Provincia Romana.

Severo, non contento di restituire alla piena autorità di Roma la Mesopotamia, oltrepassò il Tigri ed impose l’autorità romana alla ricca e fertile regione compresa tra il Tigri e le montagne dello Zagros tanto che il titolo di “Adiabaticus” non rappresentò solo un risvolto  accademico.

Adiabene, od il tratto  tra le due rive dello Zab, costituisce la parte più produttiva dell’antica Assiria; sotto Severo divenne nelle dipendenze di Roma e continuò ad essere Romana sino alla completa disfatta dell’impero dei Parti.

Per il resto del tempo in cui la Partia mantenne la sua indipendenza i vessilli di Roma sventolarono sino a poche miglia di distanza dalla sua capitale.

Vologases 5° regnò per undici anni ( 197 – 208 A.D.) dopo la disfatta che Severo gli aveva imposto e dopo di lui il declino dell’unione nazionale e dello spirito militare dei Parti fu oltremodo tangibile e progressivo.

Nessun pretendente emerse dopo la sua scomparsa, nessuno mostrava più interesse a porsi a capo di un popolo oramai sulla via della decadenza anche se Roma, paga di ciò che aveva ottenuto, si astenne dal portare ulteriori attacchi al paese.

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Dal diario di viaggio: Ventunesimo giorno: L’ultima guerra con Roma

                   (La disfatta di Macrino)

 

Buon Caesar, a Roma le mani continuavano a prudere e c’era chi riteneva di essere l’erede del “Gande Macedone” e come lui potersi sbarazzare dell’Asia, come il vento impetuoso allontana le nubi…non fu proprio così e quest’ultimo scontro tra Roma ed i Parti lo si può considerare come la fine di un’epoca.

La Roma dei Cesari era oramai sulla via della decadenza, in mano ad eserciti che a fatica riuscivano, quando ci riuscivano, a tenere i brandelli di un impero in disfacimento…in cinquant’anni si contano più di cinquanta imperatori, meno di uno all’anno, in un anno cinque addirittura; ma anche il regno dei Parti era giunto al capolinea; qualcuno aveva riesumato i resti dell’antico impero Achemenide e lo riproponeva adesso con forza.

Non più Roma; ma la “Nuova Roma”è  ciò che rimaneva dell’antica potenza dei Cesari, raccolta sotto la bandiera di Costantinopoli…di Bisanzio… da una parte ed il nuovo impero persiano, risorto come la fenice sull’altare del fuoco di Zoroastro: l’Impero Sasanide

 

La morte di Vologases 5° fu seguita dalla disputa per il trono tra i due figli: Vologases 6° ed Artabano 5°

Non sappiamo chi fu il primo a regnare; ma sembra certo che  all’inizio sia stato Vologases  6° che venne riconosciuto Re nel 212 A.D. e che regnò dalla capitale dell’Ovest: Ctesifonte.

 

 

(Dracma d’Argento di Vologases 6°)

 

Dopo un po’ sembra che il regno sia passato ad Artabano 5° e  dal 216 A.D. gli scrittori classici non fanno più menzione di  Vologases 6°

Fu Artabano 5° che negoziò con Caracalla il quale era in conflitto con Macrino e fu sempre Artabano 5° che dovette lasciare a sua volta il trono al fondatore della nuova monarchia Persiana: Artaxerses.

Anche la storia della Persia ignora del tutto Vologases 6° quando parla della contestazione dell’impero da parte di Ardeshir ed Ardevan.

La monetazione della Partia riporta inizialmente Vologases 6° ed Artabano 5° accoppiati esercitanti entrambe la sovranità sul paese.

Con ogni probabilità fu nel 216 A.D. che venne contestualmente fatta una suddivisione del regno per cui Artabano 5° regnò sulle province Occidentali mentre quelle dell’Est furono cedute a Vologases 6°

 

 

(Dracma d’Argento di Artabano 5°)

Con la morte di Severo ebbe fine anche il periodo di tranquillità da lui inaugurato in Oriente nell’ormai lontano 198 A.D. il figlio e successore: Caracalla era un principe debole e vano che nutriva una straordinaria ambizione.

Sedette poco sul trono sempre impegnato com’era nell’emulazione di Alessandro Magno che cercò di imitare in tutti modi possibili ed immaginabili.

Adottò il costume macedone e trasformò il modo di combattere classico della  “Legione Romana” in quello della “Falange” e volle che i comandanti di questa portassero gli stessi nomi che erano stati dei migliori generali di Alessandro Magno.

Ordinò che le statue a lui dedicate avessero una duplice faccia, da una parte le fattezze di Alessandro, dall’altra le sue.

Come Alessandro voleva conquistare l’Oriente e dall’inizio del secondo anno di regno dette l’avvio ad una predeterminata aggressione.

Convocò presso di sè Abgaro, il Re tributario dell’Osrhoene, ed una volta avutolo di fronte lo fece arrestare, dichiarò confiscato il suo territorio e ridusse il Nord Ovest della Mesopotamia a Provincia Romana.

Provò a ripetere l’operazione con l’Armenia e sebbene il Re dell’Armenia fosse anch’egli caduto nella trappola, il popolo vigile frustrò le intenzioni di Caracalla.

Non appena ebbero notizia che il loro Re era stato arrestato ed imprigionato presero le armi e misero il paese in condizioni di difesa, pronti a resistere all’aggressione.

 

 

(Denaro d’Argento di Caracalla)

 

Carcalla preso alla sprovvista esitò e quando, tre anni dopo ( 215 A.D.) mandò Teocrito, uno dei suoi favoriti, per soggiogarli furono gli Armeni che inflissero a Teocrito una sonora sconfitta.

Fu questo fatto che fece cambiare strategia a Caracalla il quale  invece di una guerra di conquista si propose di attuare nell’Est uno schema di pacificazione permanente  per dare luogo ad un regno universale: felice e sicuro.

Trasferì la residenza da Nicomedia ad Antiochia, lussuriosa capitale delle province romane e da lì inviò al monarca dei Parti una ambasceria con doni e magnificenza inusuale; ma soprattutto con una nuova ed originale proposta.

L’imperatore Romano, disse l’ambasciatore, non desidera sposare una donna qualsiasi e diventare genero di un qualsiasi nobile romano, non avrebbe potuto accettare per moglie altro che una donna nelle cui vene scorresse sangue reale: una principessa ed è per questo che chiedeva ad Artabano la mano della figlia.

 

Roma e la Partia dividevano tra loro l’intera sovranità sul mondo, uniti da questo matrimonio, eliminato ogni confine che sin qui li separava, avrebbero potuto costituire un potere che sarebbe diventato irresistibile; sarebbe stato più facile, per loro assoggettare le razze barbare fluttuanti ai confini del loro impero e porli in soggezione attraverso un sistema di amministrazione e di governo più flessibile.

La fanteria romana era la migliore del mondo,  imbattibile nel corpo a corpo dove non temeva rivali; i Parti avevano una cavalleria ed un corpo di arcieri che per  numero e qualità erano impareggiabili; se questi vantaggi anziché rimanere disuniti si fossero fusi assieme il successo in guerra sarebbe stato assicurato e non avrebbero dovuto esserci difficoltà nell’istituire e mantenere integra una: Monarchia universale.

Sotto queste parole si celava l’inganno.

Le spezie e le stoffe raffinate; ma anche i metalli ed i prodotti dell’artigianato romano non avrebbero dovuto essere più importati di contrabbando,  in piccole quantità da mercanti con pochi scrupoli; ma essendo i due paesi diventati oramai un’unica nazione le merci più disparate avrebbero potuto essere tranquillamente scambiate in tutte le città dello Stato così unificato.

Al Re dei Parti ed al suo seguito l’offerta apparve strana e per lo più, poco gradita; l’intero progetto parve loro mostruoso tanto da far dubitare allo stesso Artabano della sincerità dell’Imperatore ed al momento, non ritenne opportuno dargli seguito anche se in lui l’offerta aveva creato uno stato di inquietudine e  perplessità.

Rigettarla  significava offendere il comandante di 32 legioni in armi e provocare una guerra che avrebbe potuto avere conseguenze disastrose; accettarla voleva dire abbandonare la tradizione del popolo Partico e gettarsi in una avventura di cui non si poteva prevedere il risultato.

Artabano prese tempo e senza dare una risposta positiva espresse alcune considerazioni  al riguardo che potessero in un qualche modo avvallare la sua ritrosia nell’accettare immediatamente l’offerta.

Come potevano, disse, i due sposi essere felici parlando lingue diverse, vestendo abiti diversi ed avendo culture e modi di fare diversi; sarebbero alla fine diventati estranei l’uno all’altra;  a Roma non mancavano certamente patrizi le cui figlie sarebbero potute diventare degne consorti dell’Imperatore senza necessità di andare a  cercare una fanciulla di “casa reale” presso il Re dei Parti… no non era conveniente per entrambe che una famiglia mescolasse il suo sangue con una famiglia straniera.

Appena ricevuta la risposta Caracalla, secondo lo storico: Dio Cassio, dichiarò immediatamente guerra ad Artabano ed invase con l’esercito il territorio dei Parti; tuttavia Erodiano sembra essere, in questo caso, più affidabile e dà una diversa versione dei fatti.

Secondo lui Caracalla, invece di entrare in diretto contrasto con il Re dei Parti per il rifiuto della proposta, fece seguire alla prima una seconda ambasceria; inviò a Ctesifonte  ricchi doni e rassicurò Artabano sulla serietà della richiesta avanzata nella ferma convinzione della sua validità.

Ad Artabano era ora alle “strette” o ritenersi soddisfatto dell’assicurazione fornita dall’Imperatore oppure portargli offesa con un nuovo rifiuto.

Scrisse a Caracalla considerandolo già il futuro genero e lo invitò a recarsi presto dalla futura sposa e continua lo storico, quando il fatto venne a conoscenza del popolo i Parti allettati dall’idea di una pace se non eterna almeno duratura, si dimostrarono ben felici di accogliere l’Imperatore Romano e gli riservarono  un caloroso “benvenuto”

Caracalla attraversò allora il fiume che lo divideva dalla Partia, senza trovare impedimento alcuno e s’inoltrò con l’esercito nel paese come fosse nella sua terra.

Tutti, durante il  passaggio lo gratificarono con sacrifici, impreziosirono gli altari con ghirlande di fiori freschi e gli offrirono tutte le varietà di droghe e di incenso che conoscevano per soddisfare appieno il suo piacere.

Era quasi giunto al termine del suo viaggio, vicinissimo oramai alla corte dei Parti quando Artabano invece di attendere il suo arrivo gli andò incontro, in un grande spazio appena fuori dalla città.

Contemporaneamente una gran moltitudine di barbari, vestiti con abiti variopinti e ricamati d’oro, portarono corone di fiori recisi e fecero festa danzando al suono dei flauti, dei pifferi e dei tamburi; erano felici e si lasciarono andare ad abbondanti libagioni.

Quando tutti si furono riuniti, i soldati Parti scesero dai loro cavalli  che lasciarono tranquillamente pascolare nel grande spazio erboso; alle selle rimasero appesi archi e faretre mentre i soldati prendevano parte alla festa dandosi essi stessi all’estasi dell’alcool .

Grande era la partecipazione dei barbari  i quali non avevano predisposto alcun presidio giacchè non pensavano di trovarsi di fronte ad un  pericolo e tutti volevano vedere l’Imperatore: il futuro sposo.

Fu a quel punto che Caracalla dette ai suoi uomini il segnale d’inizio al massacro.

I Parti rimasero stupiti; colpiti e meravigliati si dettero a precipitosa fuga, Artabano venne immediatamente soccorso dalla sua Guardia, si trovò un cavallo con cui farlo fuggire assieme a pochi seguaci.

La maggior parte degli altri venne fatta a pezzi dal momento che impediti dagli abiti di gala che raggiungevano le caviglie, non poterono raggiungere i cavalli che erano stati lasciati liberi di pascolare nella piana, né le armi ch’erano rimaste appese alle cavalcature; molti altri ne erano privi giacchè non avevano ritenuto opportuno portarle ad una festa di matrimonio.

Caracalla dopo aver fatto la mattanza, presi un gran numero di prigionieri e raccolto un ricco bottino, si ritirò senza incontrare resistenza lasciando che i soldati, nel lasciare il paese, dessero alle fiamme città e villaggi portando via, come bottino, tutto ciò che era loro desiderio carpire.

Il percorso che l’esercito romano aveva fatto, per recarsi in Partia aveva interessato Babilonia, snodandosi con ogni probabilità lungo il corso dell’Eufrate; il ritorno invece interessò l’Adiabene e la Mesopotamia.

Nell’Adiabene in particolare, Caracalla trovò modo di  portare ulteriore oltraggio ed offesa ai Parti violando la sacralità delle tombe reali, vicino ad Arbela: “La città dei Morti” sito scelto dagli Arsacidi per dare sepoltura ai loro Re.

Il Duce romano fece scoperchiare le sepolture, estrarre i corpi e gettare al vento i miseri resti.

Nessun insulto poteva essere maggiore per i Parti; ma anche a chi Parto non era l’atto apparve ed appare più quello di un pazzo, piuttosto che quello di un despota.

Secondo Aristotile le famiglie che hanno dato origine a brillanti talenti, dopo un po’ di tempo sconfinano…nella pazzia e come si vede anche gli Antonini non fecero eccezione.

 

 

Non c’è razionalità alcuna che possa in un qualche modo giustificare l’azione commessa da Caracalla ed il Fato, il mutevole Fato, gli riservò severa punizione; ma nel frattempo il Romano proseguiva felicemente nel suo incedere, senza timori né molestie.

Scrisse al senato, in tono enfatico; ma senza fornire dettagli, che aveva assoggettato interamente l’Oriente e che non c’era Re nell’Est che non fosse soggetto alla sua autorità.

Il Senato evitò risposte polemiche e replicò smorzando i toni enfatici, gli garantì tuttavia al ritorno gli onori che venivano tributati ad un vero conquistatore.

Caracalla rimase in Mesopotamia, dove passò la stagione fredda, dilettandosi nella caccia e nelle corse con i carri.

In Mesopotamia era ancora presente il leone, come al tempo degli Assiri ed il giovane Antonino ancorchè  misero soldato pare fosse invece buon cacciatore.

Era convinto,  dopo la lezione data ai Parti, di non correre pericolo alcuno si godeva pertanto  le erbose pianure della Mesopotamia che a primavera ricordano da vicino il “Paradiso Terrestre”

Ad Aprile ogni comandante che si rispetti era solito iniziare l’addestramento e l’esercitazione delle truppe e metteva a fuoco i piani per la nuova campagna operativa dell’anno in corso; ma  non  Caracalla continuava impassibile a dedicarsi ai suoi divertimenti trascurando i doveri che un buon generale dovrebbe avere.

Affidava il futuro  al responso di auguri, maghi ed oracoli  per sapere che cosa il Fato gli avrebbe riservato ed ovviamente il futuro era roseo e favorevole alla conquista.

Si stava giustappunto recando a consultare l’oracolo al tempio della ”Dea Luna” quando una delle sue guardie: Julius Martialis lo uccise, correva l’anno del Signore 217 al dì 8 di Aprile.

Faceva costui parte di una cospirazione , sembra istigata dal prefetto pretorio: Macrino che in effetti venne immediatamente acclamato dalle truppe come: Imperatore.

(Denaro d’Argento di Macrino)

La sua nomina coincise con l’avanzata di Artabano che dopo la batosta subita  aveva utilizzato il periodo invernale per nuovamente ricompattare  l’esercito incrementandolo con forze fresche e portandolo nelle migliori condizioni possibili di attività bellica; ora stava marciando contro i Romani che si attardavano in Mesopotamia ansioso di cimentarsi in una battaglia campale e vendicare così il massacro di Ctesifonte e l’onta di Arbela

Macrino non era uomo d’arme, non  possedeva le qualità e l’intuito del soldato; ma era più portato verso la conduzione degli affari, dell’amministrazione e della giustizia civile per questo non avvertì immediatamente la minaccia portata dal monarca dei Parti al quale aveva inviato ambasciatori con l’offerta di restituire tutti i prigionieri fatti da Caracalla nell’ultima campagna, come segno di pace.

Artabano puntava molto più in alto; l’Imperatore Romano, mandò a dire a Macrino nella sua replica, deve non solo restituire i prigionieri peraltro catturati in tempo di pace e per questo ingiustamente trattenuti in cattività; ma operare anche la riedificazione dei paesi e dei castelli che Caracalla aveva distrutto; avrebbe inoltre dovuto fare ammenda per il sacrilegio compiuto sulle tombe dei Re Arsacidi ed ancora: cedere la Mesopotamia ai Parti e ritirarsi oltre la linea dell’Eufrate.

Era moralmente impossibile che l’Imperatore Romano potesse accettare queste condizioni senza aver prima tentato la sorte delle armi e Macrino si trovò obbligato,contro il suo volere, a dar battaglia.

Aveva a disposizione una grande armata che se non poteva assicurare la  vittoria era tuttavia in grado di difendersi con onore, poteva usufruire del prestigio che comportava il nome di Roma vuoi come: millantato credito che per incutere timore reverenziale all’avversario.

Artabano, per sua parte, aveva fatto tutto il possibile per allestire una grande armata; aveva raccolto soldati da tutti i possedimenti e dato forte impulso alla cavalleria ed agli arcieri, aveva inoltre istituito un nuovo “Corpo” di truppe scelte, montate su cammello, completamente  protette da armatura ed attrezzate con picche o lance di inusuale robustezza e lunghezza.

I Romani accanto agli ordinari legionari che costituivano la forza maggiore dell’esercito, potevano contare su un gran numero di guerrieri “armati alla leggera” e di un corpo di cavalieri Mauritani.

La battaglia infuriò per tre giorni di seguito e si sviluppò nei dintorni di Nisibis, nella Mesopotamia Superiore.

Ebbe inizio all’alba del primo giorno con una rapida avanzata delle forze partiche: i soldati dopo aver salutato il sorgere del sole, come loro costume, si lanciarono con impeto nella lotta emettendo forti grida e protetti da una pioggia di frecce,  portarono una carica dopo l’altra.

I Romani li contrastarono con le truppe armate alla leggera e serrando le file dei legionari i quali pure patendo gravi sofferenze per le frecce scagliate dagli arcieri a cavallo resistettero alle lance dei corpi speciali, montati su cammello cercando in ogni modo il corpo a corpo dove erano avvantaggiati; ma la carenza di cavalleria alla fine li costrinse a ritirarsi.

Man mano che cedevano terreno lo cospargevano di palle armate con punte (Caltropi) ed altri marchingegni capaci di portare danno agli zoccoli degli animali; questo accorgimento ebbe successo al punto che ben presto gli attaccanti si trovarono in difficoltà .

Giunse così la sera ed entrambe le armate si ritirarono nei rispettivi accampamenti senza aver ottenuto un risultato definitivo.

Il giorno seguente si tornò a combattere dall’alba al tramonto ed anche questo fu uno scontro “alla pari” di cui non conosciamo lo svolgimento anche perché Dio non ne fa menzione .

Al terzo giorno riprese lo scontro; ma questa volta i Parti cambiarono strategia ed anziché portare l’attacco di fronte tentarono l’accerchiamento dell’intero esercito Romano.

Le loro truppe erano più numerose, rispetto alle romane e potevano spostarsi celermente a destra ed a sinistra, nel tentativo di circondare completamente le truppe nemiche.

Macrino,  per arginare i Parti fu costretto a disporsi su più linee con il risultato di indebolire  il fronte al punto tale che cedette; la confusione allora si sparse negli uomini aumentata dal comportamento codardo dell’imperatore che fu il primo ad abbandonare il terreno dello scontro e naturalmente i soldati ne seguirono l’esempio; ma oramai circondati subirono pesanti perdite.

Furono gli stessi Romani che riconobbero la sconfitta  subita e nel negoziato che seguì Macrino dovette accettare termini di pace che sebbene meno gravosi di quelli inizialmente richiesti da Artabano furono tuttavia molto pesanti.

Sulla cessione della Mesopotamia i Parti non insistettero più di tanto; ma oltre al ritorno dei prigionieri fatti da Caracalla l’Imperatore fu costretto  a  pagare, per la compensazione dei danni inflitti al popolo dei Parti, una somma di circa 1,5 Ml della nostra attuale divisa.

Dopo circa tre secoli di ostilità  Roma, con una ignominiosa proposta di pace usciva dal confronto con gli asiatici.

Macrino con i resti del suo esercito si ritirò oltre frontiera nell’estate dell’Anno Domini 217; ma Roma ancora fu chiamata alle armi anche in quei territori  dove era ormai terminata la sovranità dei Parti

 

Caro Caesar siam giunti alla fine del tuo… del nostro viaggio… nell’epopea dei Parti…debbo tornare da dove mi hai chiamato, il tempo concesso è scaduto, ma mi auguro di rivederti presto tra di noi…siamo un bel cenacolo sai!  A parte coloro che si sono occupati della monetazione classica  Greca e Romana come Hill; Mionnet, Anson; ma anche Momsen; Babelon, Cohen…mamma mia quanti siamo! Non posso elencarteli tutti rischierei di fare quelle che voi chiamate: “Pagine Gialle” da noi i telefoni non ci sono, non avrebbero senso; comunque tra gli orientalisti oltre me potrai trovare il grande  Vinent Barclai, Garden; Whitehead….dimenticavo, Hopkins e Terrien de Lacouperie sono desiderosi di scambiare con te qualche parola sulla monetazione cinese.  è piuttosto raro trovare occidentali che si occupino dell’estremo Oriente.

 

 

 

Bene Caesar ora debbo proprio lasciarti… nelle mani di Ardaschir naturalmente che non fa più parte dei Parti, consentimi il gioco di parole; vero è che ha sposato la figlia di Artabano 5° ma ha rivendicato la continuità con l’ impero Achemenide e la Persia; nelle sue monete compare l’antico culto dell’altare del fuoco di Zoroastro e nell’anno 226 dell’Era Cristiana ha fondato una nuova dinastia: Aristocratica, accentratrice ed estremamente gerarchizzata: La dinastia Sassanide

 

 

(Dracma d’Argento di Ardashir 1° fondatore della dinastia “Sasanide)

         Grazie George per avermi permesso di riproporre a questa  generazione il tuo studio; non è cambiato molto sai da quando hai scritto la storia dei Parti ,nel lontano 1893 , qualche nuova ombra è andata a colmare le conoscenze dei periodi “Bui” nella storia di questo popolo; ma la configurazione generale è quella che tu hai ipotizzato e che, dopo minuziose ricerche ed aver tentato altre vie, alla fine ho ritenuto la più probante e mi sono permesso di ripresentarla; del resto quest’anno ricorre il  bicentenario della  tua nascita;  consenti dunque anche a me, oltre ai tuoi concittadini dell’Oxfordshire,  di  festeggiarlo  riproponendoti, a dispetto del tempo che sempre cerca d’imporre un  velo d’oblio; grazie ancora mitico George Rawlinson ed a presto: see you soon

Arrivederci Caesar… ciao.

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Ce n’è voluta; ma alla fine, bene o male in fondo alla storia ci siamo arrivati.

Con quest’ultimo post nonno Cesare ha terminato l’esposizione del “Viaggio tra i Parti”.

La scelta di postarlo in “Piazzetta” è stata dettata dal desiderio di interessare la platea più vasta possibile, soprattutto di giovani, al fattore storico che sottende alla numismatica ed alla raccolta delle monete.

Ero conscio della “Volatilità” cui sono generalmente soggetti gli scritti presentati in piazzetta ed anche del fatto che argomenti di “Maggiore particolarità” è giusto che vengano trattati in appositi “Circuiti” meno generici e più focalizzati; ma la piazzetta è il luogo di ritrovo comune dei “Lamonetiani” non possiamo, non dobbiamo rischiare che si riduca a “Chiacchere da Bar”… anzi mi aspetto, mi auguro che altri ci raccontino qui, con gli occhi e le parole semplici di chi vuol bene a questi nostri dischetti di metallo, altre storie…per esempio Mario (è una chiamata di correo; ma non mandarmi per questo a quel paese) quando  racconterai alla “Piazzetta” che cosa avvenne in quel millennio che va dal 476 A.D. al 1492 A.D. ?

Tutti gli argomenti, importanti o meno che siano considerati, debbono a mio avviso passare prima dal luogo ove tutti o quasi i Lamonetiani s’icontrano salvo poi essere ulteriormente discussi con maggiore particolarità  nei siti appropriati.

Il fatto di aver interessato la “Generalità” degli utenti di “La Moneta” ma vedo che anche chi segue gli approfondimenti non disdegna una “Occhiatina” alla piazzetta, mi ha oltretutto consentito di saggiare l’interesse che potrebbe avere una eventuale pubblicazione dello scritto; non era nelle intenzioni dato anche il fatto contingente per cui tutte le risorse disponibili sono votate  per tenere a galla “La Barcaccia” … non si spiega altrimenti il livello di esosa  tassazione che ci viene imposto;  ma “an’ vedi mai” come direbbe l’amico Odjib…in ogni caso sono considerazioni al di là da venire.

Bene! Giunti alla fine del racconto e raggiunti gli obbiettivi che nonno Cesare si era prefissi sembra giusto invitare i “Moderatori” o chi per essi, a traslare questa storia, magari aspettando ancora una settimana per permettere a quei pochi che erano abituati alla piazzetta di poterla ancora visionare, là dov’è la  sede più naturale: tra le “Altre Monete Antiche” sempre che Roth 37 che ne è il curatore, lo consenta…Un caro Saluto Roth che estendo ovviamente a chi ci ha sin qui seguito ed a tutto il Forum da Nonno Cesare

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Complimenti intanto, li meriti veramente, perché non parlare con @@incuso e far fare un piccolo quaderno ad hoc col modello on demand su Amazon, tu non spendi nulla e loro vendono solo quando hanno richieste con nessun rischio particolare ma col pregio di vederlo compiutamente in cartaceo...pensaci e magari parlane con Massimo...per ne vale la pena....

Un caro saluto,

Mario

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  • ADMIN
Staff

Certamente. E' del tutto possibile pubblicarlo come articolo dei quaderni o come monografia a se stante. Il tutto dipende dalla lunghezza. Guardan do la discussione direi la prima. 

 

Io però non vedo le immagini....

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