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L'autore di questa lettera fu Federico Campanella nato a Genova, 10 luglio 1804. Laureatosi in Legge nell'estate del 1829, fu amico di Giuseppe Mazzini e fu tra i fondatori, assieme ai fratelli Ruffini, del primo comitato genovese della Giovine Italia  e partecipò alla spedizione mazziniana in Savoia nel 1834. Fallito il tentativo insurrezionale, andò esule in Svizzera e poi riparò a Marsiglia presso Luigi Amedeo Melegari.

Rientrato in Italia partecipò al moto milanese delle "Cinque Giornate". Giunta, infatti, la notizia dell'insurrezione di Milano, alcuni volontari genovesi formarono la Compagnia "Mazzini" cui Campanella si aggregò e con essa partì per Milano dove giunse il 23 marzo 1848 dopo aver partecipato all'occupazione di Pavia. Il 31 dello stesso mese esortava Mazzini ad accorrere in Lombardia, dove era vivo lo spirito repubblicano. Poco dopo, per incarico di Cesare Trabucco conte di Castagnetto (o Castagneto come è riportato nella lettera), segretario di Carlo Alberto, propose a Mazzini, arrivato a Milano l'8 aprile 1848 (anche se dalla lettera sembra che fosse già a Milano prima dell'arrivo del Campanella), un accordo col re per favorire la politica fusionista sabauda in cambio di una maggiore democraticità della futura costituzione del nuovo Stato. Se il Campanella si preoccupava di assicurare alla rivoluzione nazionale l'appoggio dell'esercito piemontese, Mazzini non poteva transigere oltre un certo limite sulle sue convinzioni repubblicane.

La lettera, che qui riporto, è il riassunto che Federico Campanella fece ad un amico il mercoledì 12 aprile 1848 del suo tentativo.

 Fallita la missione, a metà di aprile il Campanella tornò a Genova, dove mantenne una posizione politica moderata, impegnandosi nell'organizzazione della guardia nazionale e nell'assistenza alle famiglie dei richiamati, ma evitando di iscriversi al Circolo italiano di ispirazione democratica avanzata.

L'anno successivo fu tra i protagonisti dell'insurrezione di Genova (come membro del governo provvisorio e capo di stato maggiore della Guardia Nazionale con il grado di colonnello) che il generale La Marmora represse nel sangue. Il nostro riuscì a scappare su di una nave da guerra americana conGoffredo Mameli e Nino Bixio alla volta di Roma, dove - come soldato semplice - fu con Garibaldi alla difesa della Repubblica Romana. Al ritorno del Papa a Roma scappò ad Atene e poi a Parigi. Qui, nel 1851, fu tra coloro che si opposero vanamente al colpo di Stato di Luigi Napoleone Bonaparte e, alla salita al trono di quest'ultimo, si rifugiò a Londra ove si rimise in contatto con Mazzini e si adoperò per organizzare il Partito d'Azione.

Nel 1859 tornò in Italia e seguì Garibaldi nella spedizione dei Mille. Dopo la proclamazione del Regno d'Italia, il 22 giugno 1862 fu eletto deputato al Parlamento dal Collegio di Corleto Perticara in Basilicata, ma nel 1863 la sua accesa fede repubblicana lo spinse a rassegnare le dimissioni da deputato perché la Camera aveva approvato la repressione in Sicilia. Tuttavia, continuò ad occuparsi di politica e fu tra i più instancabili organizzatori del partito repubblicano e del movimento massonico italiano. Nel 1868, dimessosi Garibaldi, il Grande Oriente di Palermo offrì la carica di Gran maestro a Mazzini che rifiutò, ma che nel contempo propose Campanella, il quale venne eletto il 19 luglio per un triennio. In contrasto con il Grande Oriente d'Italia allora filomonarchico e con sede a Firenze, propose di indire una costituente per riformare la Massoneria italiana. Costituente che ebbe finalmente luogo nell'aprile del 1872 a Roma e che vide la riunificazione dei vari centri massonici della penisola. Campanella fu eletto Gran maestro onorario e lasciò la direzione della massoneria palermitana al nuovo Gran maestro del Grande Oriente d'Italia Giuseppe Mazzoni. Morì a Firenze il 9 dicembre 1884.

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Qui sotto, per comodità di lettura, riporto il testo della lettera:

 

HÔTEL du MARINO

RUE DU MARINO

1137

MILAN

 

Caris.mo Amico

Milano 12 aprile 1848

 

Ho tardato sinora a ringraziarvi della gentile vostra lettera che mi avete inviata per il Sig.r Conte di Castagneto, alfine di potervene far noto il risultato. S.E. mi accolse colla massima gentilezza e si offrì pronto a parlare al Ministro della guerra nel caso ch'io avessi voluto prendere servizio nella R. armata. Mi fece però osservare che un fucile di più, un fucile di meno sarebbe di poco vantaggio alla causa nazionale, e ch'io avrei potuto servirla con altri mezzi quantunque il mio scopo fosse quello di guerreggiare la guerra dell'indipendenza, pure credetti conveniente di aderire alla volontà di S.E. dichiarandomi pronto a servire il mio paese in qualsivoglia modo. S.E. mi diede per missione di ritornare a Milano, alfine di poter riunire, per quanto era in me, gli uomini d'ogni partito e principalmente Mazzini, detto lo Stendardo dell'unità italiana. La missione, data in termini così generali, era troppo conforme ai principii da me professati perché non venisse prontamente abbracciata. Feci però conoscere a S.E. per mezzo di Mazzini che due erano le forme sotto le quali potea essere riunita l'Italia: la monarchica o la repubblicana, e quantunque io pensassi che C. Alberto coll'esercito piemontese fosse il mezzo il più pronto onde ottenere l'unità, pure non avrei potuto decentemente fare della propaganda monarchica in opposizione alla repubblica: che ad ogni modo avrei consultato gli uomini coi quali sono in rapporto politico da tanti anni ed avrei agito in conseguenza. Giunto in Milano mi recai immediatamente da Mazzini e gli spiegai l'oggetto della mia missione. Mazzini mi dichiarò francamente che avrebbe sacrificato volentieri le sue convinzioni repubblicane alla questione dell'unità che per lui era la più importante di tutte; che però nella sua maniera di vedere, l'unità si sarebbe più facilmente conseguita colla repubblica che colla monarchia, a meno che C. Alberto, rompendo in visiera cogl'altri sovrani d'Italia e colla diplomazia estera, dichiarasse in un proclama all'Italia che i tempi sono maturi, che ci si pone ad intraprender moti unitarii della nazione, che pone la sua spada al servizio di questa causa, che invita tutte le popolazioni d'Italia a svincolarsi dalle loro divisioni a costituirsi in nazioni. In tal caso accetterebbe la monarchia di C. Alberto e si farebbe soldato sotto di lui. Del resto, quanto a lui, non intende lottare o esortare gli altri a lottare contro qualunque fatto risultante dal voto lombardo, anche discorde dalla sua credenza. Intende soltanto difendere la causa dell'unità in primo luogo, a dichiarare anche teoricamente, occorrendo, le sue convinzioni repubblicane, ma senza polemica, senza appello rivoluzionario, senza congiura, delle quali è passato il tempo.

Queste cose io le ho comunicate al Sig.r Conte di Castagneto, e vedendo intanto di non poter essere di alcuna utilità in Lombardia, e non potendo d'altronde rimanere più a lungo fuori di casa, come vi scrissi, io penso di ritornarmene in Genova domenica o lunedì. Vi rinovo i miei sinceri ringraziamenti e vi saluto caramente

 

                                                                                                                      vostro aff. amico

                                                                                                                 Federico Campanella


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