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IGNORED

6 ottobre dell'anno 684 a.U.c.


L. Licinio Lucullo

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5 ottobre dell'anno 684 a.U.c.

Tigrane II, sovrano d'Armenia, re dei re dell'Asia Minore, suocero di Mitridate VI re del Ponto, ammira soddisfatto la sua armata. Finalmente potrà riprendersi la meritata soddisfazione di schiacciare l'insolente invasore barbaro, venuto dall'Italia.

Per capire il suo stato d'animo, tuttavia, occorre risalire un po' nel tempo.

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Quattro anni prima Mitridate VI Eupatore, potente re del Ponto, discendete del grande Dario, erede della tradizione militare macedone, aveva deciso di umiliare, una volta per tutte, le Aquile di Roma, e di sostituirsi alla lontana città capitolina quel potenza regionale. Questa volta, a differenza delle precedenti, aveva preparato la campagna con cura, sia sotto il profilo militare che diplomatico; sarebbe riuscito a ripristinare la supremazia politica dell'Ellenismo, frantumatasi alla morte del grande Alessandro e definitivamente decaduta quando una barbara comunità dell'occidente aveva sconfitto un suo degno successore, Pirro.

Così, alla testa di un esercito forte di 160.000 fanti, 16.000 cavalieri, 100 quadrighe falcate e 400 navi da guerra, Mitridate aveva ripreso le ostilità contro Roma, scatenando quella che diverrà nota come la Terza guerra mitridatica. Si era riversato sui territori asiatici amici e soggetti di Roma, a cominciare dalla Bythinia, come una marea sui castelli di sabbia.

Mitridate amava ripetere alle sue truppe che l'esercito del Ponto non aveva mai perso una battaglia, quando era lui stesso, il re, a guidarlo in battaglia.

Roma non sembrava in grado di reagire adeguatamente. Forse aveva paura del potente re? La situazione era tanto più critica perché, in quegli stessi anni, l'Urbe si stava logorando in Hispania, nel vano tentativo di riassorbire la ribellione di Sertorio, che per l'appunto aveva concluso un'alleanza strategica con Mitrade.

E' vero, il Senato aveva subito deciso l'invio in Asia dei consoli in carica, Lucio Licinio Lucullo e Marco Aurelio Cotta, il primo per le operazioni da compiere via terra nella Provincia d'Asia e in Cilicia, il secondo per la riconquista della Bythinia e le operazioni navali.

Le forze dei Romani, tuttavia, erano assolutamente inadeguate all'impresa.

Licinio era partito dall'Italia con una sola legione; ne aveva raccolte altre quattro lungo la strada, ma due di esse erano le famigerate legioni dei Fimbriani, la cui indisciplina era nota anche ai pontici, anzi, era proverbiale. Quando infine era sbarcato sulle coste asiatiche, l'esercito di Lucullo ammontava ad appena 30.000 fanti e 1.600 cavalieri: con un rapporto di 1 a 5 nella fanteria, 1 a 10 nella cavalleria, a miglia di distanza dalla madre patria, non poteva incutere alcun timore al grande re del Ponto.

Quanto a Cotta, Mitridate non lo temeva. Appena il re glie ne diede l'occasione, il proconsole aveva accettato battaglia, ed era stata una strage: c'è chi dice che erano morti 2.000 soldati dell'Urbe, chi addirittura 6.000, e per di più la squadra navale romana era stata ridotta all'impotenza. L'esercito del Ponto, dal canto suo, aveva subito unicamente 20 perdite.

A quel punto, a Roma, il Senato aveva deliberato la spesa di 3.000 talenti per la ricostituzione della flotta da guerra, ma Lucullo - incredibile! - aveva rifiutato il finanziamento, dicendosi fiducioso della capacità bellica delle flotte messe a disposizione dagli alleati di Roma.

Un solo ostacolo sembrava frapporsi fra le ambizioni di Mitridate e una marcia trionfale che, attraverso la Grecia, lo avrebbe portato alla conquista del mondo: questo proconsole taciturno e dai modi insoliti, questo Lucullo che già aveva partecipato alla Prima guerra mitridatica, anni prima, agli ordini di Silla.

Discendente di una nobile famiglia plebea, Lucullo aveva già avuto modo di dimostrare doti eccezionali. Inizialmente digiuno di cose militari, quando Silla lo aveva chiamato sotto le Aquile si era premurato di studiare, viaggio durante, i volumina di arte militare, memorizzandoli grazie alla determinazione e a una mente prodigiosa. Giunto in Grecia, aveva ricevuto un incarico apparentemente impossibile: fornire l'esercito romano di una flotta della quale era del tutto privo. Così aveva viaggiato fra Creta, Libia, Fenicia, Cipro, Rodi e gli arcipelaghi greci, era sfuggito sia ai pirati che alla flotta del Ponto sguinzagliatagli contro, ed era riuscito a portare sotto gli ordini di Silla un'ingente flotta. Lungo la strada, era persino riuscito a ingerirsi nelle lotte interne di una città - Cirene -, rappacificandola.

Pupillo di Silla, era stato nominato tutore dei suoi figli. A Roma aveva sposato una delle tre sorelle della gens Claudia Pulchra.

Qui, merita aprire una parentesi. I Claudii Pulchri, patrizî, erano sei fratelli, tre maschi e tre femmine. Due dei maschi servirono agli ordini di Lucullo nella campagna contro Tigrane: Appius Claudius Pulcher e Publius Claudius Pulcher. Publio Claudio in particolare, personaggio oscuro, sobillatore di folle e politico incontrollabile, si farà adottare a fini demagogici da una famiglia plebea (per poter accedere al tribunato), mutando nell'occasione il nomen nella sua versione popolare, Clodio. Con la versione femminile di quel nomen, Clodia, vennero chiamate le sue tre sorelle; e una di loro (la critica moderna ritiene impossibile identificare quale delle tre, fors'anche quella che aveva sposato Lucullo) diverrà famosa nei secoli per essere stata cantata da Catullo, sotto lo pseudonimo di Lesbia.

Sia come sia, era evidente che Lucullo non poteva sconfiggere le forze del Ponto. Aveva infatti evitato eluso i tentativi di Mario (generale romano ribelle, inviato da Sertorio ad aiutare i suoi alleati) di prendere contatto con le sue truppe. Infine aveva raggiunto Mitridate sotto le mura di Cizico, che il nel frattempo aveva cinto d'assedio, ma non aveva potuto far altro che stare a guardare; posto il castrum in posizione dominante, facilmente difendibile, evitava di scendere a battaglia.

Invece, era successa una cosa strabiliante. Lucullo era riuscito a infiltrare truppe fresche a Cizico, che anche grazie a questo intervento non era caduta. E mentre dalla sua posizione il generale romano riusciva facilmente a intercettare le linee di approvvigionamento del nemico, l'immenso esercito pontico si era logorato per le sue stesse insostenibili dimensioni, afflitto dalla fame e dalle malattie. I soldati si erano ridotti a nutrirsi di erbe e interiora. Ogni volta che Mitridate tentava di farne allontanare una parte - via terra o via mare - Lucullo aveva intercettato e distrutto i distaccamenti. Così, una forza invincibile era stata progressivamente consumata da attacchi sui fianchi, si può letteralmente "fatta a pezzi" da un esercito che tanto inferiore per numero.

Insomma, era stato l'inizio di eventi infausti. Il fiero re del Ponto era fuggito da Cizico di notte, via mare. Lucullo, come aveva previsto ed aveva detto ai suoi legionari, lo aveva battuto senza combattere. Quel che restava del suo esercito aveva lo seguito via terra, ma era stato intercettato nella ritirata dalle truppe luculliane che, con facilità, ne avevano fatto strage.

Di sconfitta in sconfitta, Mitridate aveva dovuto abbandonare i suoi stessi possedimenti, e si era rifugiato presso il genero, il fiero e potente Tigrane.

Tigrane (che aveva appunto sposato una Cleopatra, figlia di Mitridate) era un grande signore. Non un re, ma un re dei re; ben quattro sovrani a lui vassalli gli facevano da attendenti, e lo seguivano a piedi quando lui si spostava a cavallo.

In verità, Tigrane aveva disapprovato l'avventurismo del suocero, ma non aveva potuto certamente negare ospitalità a Mitridate: altrimenti, sarebbe stato come ammettere di temere i barbari venuti dall'Occidente.

I Romani, evidentemente, non avevano capito la potenza e la grandezza di Tigrane.

Un giorno infatti si era presentato uno di loro, Appio Claudio Pulcro, cognato di Lucullo, che portava una lettera in cui si chiedeva la consegna di Mitridate. Ebbene, insulto inaudito, in quella lettera i barbari chiamavano Tigrane unicamente "re", anziché "re dei re". Ovviamente, di fronte a un simile affronto, egli aveva sdegnosamente rifiutato di consegnare il suocero.

Poi, un giorno, era accaduto un fatto curioso: un funzionario di Tigrane gli aveva annunciato che Lucullo marciava, con il suo minuscolo esercito, contro la capitale dell'Armenia, Tigranocerta. Ovviamente era un disfattista, era impossibile che i Romani osassero tanto, e così Tigrane lo aveva fatto giustiziare.

Invece, dopo alcuni giorni, le Aquile erano effettivamente giunte nei pressi di Tigranocerta. L'omertà della popolazione aveva coperto l'avanzata: Lucullo infatti aveva vietato ai suoi soldati di depredare il territorio che veniva attraversato.

Tigrane aveva allora mandato contro Lucullo una potente forza militare, che aveva sorpreso i Romani mentre erano più esposti, ovvero mentre, stanchi di una marcia logorante, stavano costruendo il campo. Ma i Romani avevano sconfitto gli Armeni.

Così Tigrane, preso dal panico, era fuggito da Tigranocerta. Lungo la strada della fuga era stato sorpreso da un drappello romano, che aveva fatto strage della sua scorta; per fortuna lui si era salvato.

Mentre i barbari assediavano Tigranocerta tuttavia, il re dei re aveva chiamato a raccolta i suoi vassalli; ed aveva così raccolto un esercito sterminato; alcune fonti dicono addirittura che contasse 700.000 uomini, cifra inverosimile; Plutarco tramanda invece quella di 260.000 unità, di cui 225.000 combattenti, fra fanteria e cavalleria.

Incurante dei consigli del suocero, che gli scriveva di porre la massima cautela nell'affrontare i Romani, Tigrane aveva condotto quell'immenso esercito verso la sua capitale, ignomignosamente cinta d'assedio dai barbari.

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Così, finalmente, Tigrane sa che potrà lavare nel sangue le onte subite. Solo un fiume divide le sue sterminate truppe dal corpo di spedizione romano. All'orizzonte, può immaginare le mura della sua amata Tigranocerta che, finalmente, sarà libera.

Sull'altra sponda, Lucullo è ormai stretto fra due fuochi. Se volta le spalle alla città assediata, offre lo spunto per una sortita delle truppe assedianti, che facilmente avrebbero la meglio su di lui. Se invece ignora la minaccia portatagli contro da Tigrane, offre al re dei re l'opportunità di schiacciarlo come un insetto. Il suo stato maggiore, convocato a consulto, è diviso e indeciso. Alla fine, Lucullo prende una decisione che agli altri generali romani sembra folle: divide le sue già misere forze militari; 16.000 restano a strangolare Tigranocerta, mentre lui stesso ne condurrà 14.000 (10.000 fanti, 3.000 cavalieri e 1.000 armati alla leggera) contro l'immenso esercito che si avvicina.

Il re dei re non è superbo: sa scherzare, e i suoi cortigiani amano le sue battute. Mentre conduceva le truppe alla volta dei Romani, ad esempio, si è lamentato: con un esercito così, avrebbe voluto affrontare tutti i condottieri di Roma, e non il solo Lucullo. Così, quando ha visto Lucullo avvicinarsi con le sue misere truppe, ha addirittura bandito una piccola gara di humour. Ovviamente, ha vinto lui, con una battuta passata alla storia: "Se vengono come ambasciatori sono troppi, se come soldati sono pochi".

I due eserciti si accampano, separati dalle acque.

L'alba sorge sul 6 ottobre. È una data infausta per le truppe di Roma: è infatti l'anniversario della battaglia di Arausio, dove 36 anni prima l'orda di Cimbri e Teutoni aveva travolto e distrutto due eserciti legionari.

Tigrane e i suoi generali si portano in posizione dominante, curiosi di spiare le intenzioni del nemico. Lucullo delude la speranza del re dei re di arrivare a una rapida vittoria: i suoi 14.000 uomini infatti hanno lasciato l'accampamento e, seguendo le sponde del fiume, fuggono dai 260.000 uomini dell'esercito armeno. Lo scontro ancora non ci sarà.

Ma un membro della stato maggiore armeno nota un particolare anomalo: in lontananza, il sole fa luccicare le truppe dei Romani. I Romani infatti marciano con le armi e gli scudi protetti in apposite custodie; se ora luccicano, vuol dire che li hanno tolti dalle rispettive guaine, e quindi si preparano al combattimento.

Mentre queste considerazioni vengono esposte a Tigrane, in lontananza effettivamente l'esercito romano cambia direzione. Non stata fuggendo, stava cercando un guado; e non appena lo trova, si dirige risolutamente contro gli Armeni. Senbbene il rapporto di forze sia di un legionario contro 20 nemici.

Tigrane non perde tempo e schiera le sue sterminate truppe a battaglia. I suoi luogotenenti, addirittura, sono i re dei popoli soggetti e amici.

L'ala destra, in particolare, viene affidata al re dei Medi; e lì Tigrane schiera la sua risorsa migliore, 17.000 cavalieri catafratti. Splendenti nelle loro armature, terribili nella fusione di metallo e muscoli, i catafratti attendono in posizione dominante di riversarsi sul nemico, colpendolo sul fianco, scompaginandolo, schiacciandolo. La carica dei catafratti, per truppe appiedate, è irresistibile.

Sul fronte, Tigrane, schiera invece 20.000 temibili arcieri. Le loro armi hanno una lunghissima gittata, e potranno falcidiare le truppe romane molto prima che giungano a contatto.

Lucullo, però, sa della potenza degli archi armeni. Così gridando come un forsennato, alla testa delle sue truppe, le incita ad riversarsi contro il nemico con un'andatura quanto più sostenuta possibile. I legionari letteralmente corrono contro gli Armeni, e prima che gli arcieri possano scoccare i loro dardi sono ormai vicini: le traiettorie a parabola che avrebbero reso micidiali le frecce, facendole letteralmente piovere sulla testa del nemico, sono ormai inservibili.

A questo punto, sull'ala destra dell'esercito armeno succede un imprevisto. Nella confusione dell'attacco nessuno sa di preciso cosa sia accaduto; c'è chi dice che la ridotta cavalleria romana abbia aggirato i catafratti, colpendoli sul fianco; chi invece che i catafratti, gettatisi contro una schiera nemica, siano stati attirati in una trappola, orchestrata e diretta da Lucullo in persona. Comunque sia, i catafratti, prima che possano dispiegare la loro potenza d'urto, vengono colpiti nei punti in cui sono vulnerabili: i garretti degli animali, che sono privi di armatura, e le lunghe lance che, destinate a essere usate nella carica, possono essere facilmente spezzate dal nemico nel combattimento ravvicinato.

Presi dal panico, i catafratti vengono spinti dai Romani ad abbandonare la loro posizione dominante, e si riversano in pianura; non contro il nemico però, bensì contro le stesse schiere di Tigrane.

L'esercito armeno, incapace di gestire l'imprevisto, sbanda e subito si sfalda. I reparti si dissolvono uno dopo l'altro e i soldati fuggono.

Sul campo di battaglia, gli Orientali lasciano ingenti quantità di oro; in quell'immensa schiera erano infatti tanti i nobili, e nessuno di loro aveva rinunciato a sfoggiare i monili simbolo di ricchezza e potenza. Ma Lucullo impartisce un ordine perentorio: nessun legionario può fermarsi a razziare le ricchezze che truva, tutti devono inseguire e sterminare i nemici.

È una strage. Gli ARmeni vengono inseguiti e uccisi per 20 chilometri, sino a notte fonda. Tigrane si salva con un espediente ancora più ignomignoso della sua fuga da Tigranocerta: posa la sua corona sulla testa di un figlio e fugge. Il figlio a sua volta la posa sulla testa di uno schiavo, e fugge anch'egli.

Alla fine del trentaseiesimo anniversario di Arausio, sono i soldati Romani a scherzare. Hanno ucciso 100.000 soldati nemici, mentre hanno perso unicamente 5 commilitoni: si dicono così a vicenda che non è onorevole, per veterani come loro, attardarsi a uccidere orde di schiavi.

Tigrane viene raccolto e salvato da Mitridate, che gli sta portando truppe fresche in un ormai tardivo ausilio. Egli infatti non s'è attardato a raggiungere il genero, ben sapendo che Lucullo combatte lente battaglie di logoramento. Non sapeva, invece, che il generale romano era altrettanto capace di portare a compimento fulminee puntate offensive, in condizioni di impensabile inferiorità numerica.

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Oggi, dopo 2.000 anni in cui il Cristianesimo prima, l'Umanesimo poi ci hanno insegnato che ogni perdita umana è una tragedia, ripugna alla nostra coscienza la memoria di un campo di battaglia su cui sono scomparse, come neve al sole, decine di migliaia di vite. Ciò nonostante, nel contesto storico dei ciclici confronti bellici fra l'Oriente asiatico e l'Occidente europeo, la battaglia di Tigranocerta segna un passo importante, uno dei tanti attraverso i quali il secondo è riuscito a sopravvivere alla soverchiante prevalenza militare del primo.

L'impresa militare di Lucullo finì in modo inglorioso. Le truppe, sobillate anche da Publio Claudio Pulcro (il futuro Clodio), si ammutinarono, mentre a Roma lo si accusava di portare avanti la guerra per la sola ricerca di gloria personale. Mitridate si risollevò, arruolò nuove truppe, mentre le legioni di Lucullo rifiutavano di combattere. Alla fine egli fu privato del comando; lo rilevò Pompeo Magno, che potè così vantarsi di aver portato a conclusione vittoriosa, oltre alla guerra contro Sertorio e alla campagna contro i pirati, anche la Terza guerra mitridatica.

In realtà, elementi oggettivi fanno ritenere che Lucullo fosse un politico e un militare accorto, travolto tuttavia dalla degenerazione sociale della fine della Repubblica. Impedì ai suoi soldati di operare saccheggi indiscriminati, e per questo i populares ebbero facile gioco nel sobillargli contro le truppe, composte in larga parte da inaffidabili veterani (i famigerati Fimbriani) che altri generali di Roma avevano rifiutato di comandare. Inoltre, egli si dimostrò in più occasioni un amministratore equo dei territorio provinciali, e così gli affaristi romani che si arricchivano sulle manovre dei publicanes scatenarono contro di lui una campagna denigratoria e giudiziaria.

Se Lucullo non fosse riuscito a condurre vittoriosamente 30.000 uomini contro 225.000, forse la storia dell'Occidente sarebbe diversa. Pompeo, è giudizio unanime degli storici, si limitò a cogliere frutti portati a maturazione dal suo predecessore.

Ottenne il trionfo dopo tre anni dal suo ritorno a Roma, uno dei pochi generali cui l'ambitissimo onore sia stato concesso sebbene non avesse portato a termine la campagna militare affidatagli. Si ritirò poi a vita privata nella sua villa al Pincio (recentemente identificata, durante gli scavi voluti dal sindaco Veltroni) e, sebbene l'emergere del Triumvirato fosse l'occasione giusta per riproporsi sulla scena politica come campione degli optimates, non volle più immischiarsi nella vita politica, ormai degenerata. Seppur si sia spento in mezzo alle ricchezze e ai vizî (è lui l'autore di questi pasti tanto favolosi da aver lasciato in eredità, nella nostra lingua, l'aggettivo "luculliano"), in questo suo ritiro mi sembra un po' l'ultimo epigone di Cincinnato.

Insomma, Lucullo sembra l'ultimo rappresentante di quella nobiltà che, ai tempi di Scipione l'Africano, aveva fatto grande Roma: una casta di uomini che, sebbene emergessero di fatto solo per nobiltà di sangue, dimostravano tuttavia tutti di possedere quasi innate capacità militari e amministrative che, almeno per l'epoca, erano strabilianti.

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E ora, la numismatica.

Mitridate e Tigrane hanno tramandato, grazie alle monete, i propri ritratti.

Di Lucullo invece non si conoscono raffigurazioni: quella che uso per identificarmi in questo forum è una statua conservata in un museo estero che gli è stata attribuita, ma la critica più moderna dubita di questa identificazione.

Lucullo inoltre non ha firmato monete. Eppure, durante la Prima guerra mitridatica ne emise, per finanziare la campagna di Silla: si tratta dei famosi luculliani, di cui si è parlato qui:

http://www.lamoneta...._hl__luculliani

Ne ha parlato anche Ahala:

http://www.flickr.co...ect/6907839830/

Qui è pubblicata anche la foto di un secondo tetradracma emesso da suo fratello, più raro e secondo me più affascinante, recante al R/ due trofei analoghi a quelli presenti nella serie RRC 359:

http://www.luciuscor...a.fr/denier.htm

E ora, ai più esperti. Che ci dite degli altri protagonisti di questa vicenda? Cotta, Appio Claudio Pulcro, Clodio?

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  • 1 anno dopo...
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Qualche immagine.

Tigrane II, il re dei re ...

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... Mitridate ...

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Busto attribuito a Lucullo (ma l'atribuzione è incerta)

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Moneta che si suppone possa essere stata coniata da Lucullo, alle dipendenze di Silla (Boehringer AMUGS 5, 9, 10; Kraay-Hirmer 366; Dewing 1653; Thompson 1293a)

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