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Il radiocarbonio e la datazione della fine dei servizi urbani in una città tardo romana
Vel Saties ha aggiunto un nuovo link in Storia ed archeologia
Radiocarbon dating the end of urban services in a late Roman town di Michael McCormick NB: traduzione dall'inglese automatizzata, mi spiace per le references rimando all'articolo di cui riporto qui sotto il link https://www.pnas.org/doi/10.1073/pnas.1904037116 La caduta dell’Impero Romano fu un affare molto più grande della deposizione di Romolo Augusto da parte di un generalissimo nel 476 d.C. (un bambino burattino che governava la metà occidentale impoverita dell’impero), un evento memorizzato da generazioni di liceali. Ricerche recenti hanno scoperto una storia grande e complessa che presenta ancora migrazioni barbariche e massicce conversioni religiose. Ma gli archeologi hanno anche portato alla luce le trasformazioni economiche dell’epoca, tra cui lo spostamento, l’impoverimento e il declino urbano nelle province occidentali nel 400, e la simultanea crescita economica dinamica e città in forte espansione nella metà orientale più ricca e popolosa dell’Impero Romano durante quello che gli archeologi della Terra Santa chiamano periodo bizantino. La maggior parte degli specialisti ora ritiene che il tardo Impero Romano sia stato un'impresa funzionante fino al 600. Anche le prove scritte continuano a crescere. Nuove risorse online raccolgono documenti scritti latini e greci finora inosservati, spesso anonimi, che documentano argomenti come la società degli schiavi del tardo Impero Romano (1). Robuste tipologie cronologiche delle mutevoli, onnipresenti e quasi indistruttibili ceramiche da tavola tardo romane (i) consentono agli archeologi di datare a buon mercato (e fino al secolo o meno) diversi strati dei loro scavi, e (ii) consentono nuove cronotipologie di ancora più comuni recipienti per cucinare e trasportare che espandono le prove che ogni sito fornisce sulla questione cruciale della cronologia: quando tutto questo finì? Le ceramiche di scarto forniscono un primo, grezzo strato di datazione per la rapida crescita e la cessazione dei tumuli di discarica che circondavano Elusa, una delle fiorenti città agricole bizantine del deserto del Negev, offrendo una misura proxy per la loro traiettoria economica. Ma un nuovo studio su PNAS di Bar-Oz et al. (2) cerca di individuare un punto di svolta nel declino dell'urbanistica tardo romana o bizantina attraverso la datazione radiometrica dei cumuli di rifiuti. Le città agricole del Negev furono una delle grandi storie di successo nella fiorente economia dell'Impero Romano d'Oriente. Grazie all'ingegnosa tecnologia di gestione dell'acqua e ai forti mercati urbani del prospero impero bizantino del IV e V secolo d.C., città come Elusa sperimentarono una ricchezza che probabilmente riflette la domanda di vini bianchi costosi, inebrianti e dolci prodotti nei loro caldi vigneti e vigneti nel deserto. trasportati con cammelli (Fig. 1) ai porti di Gaza e Ashkelon, da dove venivano esportati fino a Marsiglia e persino a Bordeaux. Il vino viaggiava in caratteristiche anfore la cui forma si adattava alle rastrelliere dei cammelli con cui raggiungeva il mare e ne testimoniano ancora l'origine quando affiorano negli scavi dalla Francia alla Turchia (3). Fig. 1. Il cammelliere Orbikon con il suo carico di anfore. Dal pavimento a mosaico di una chiesa a Kissufim, Israele, che si trovava a 5 km dalla strada romana che collegava le cantine del Negev a Gaza. Collezione dell'Autorità israeliana per le antichità. Foto © Museo di Israele, Gerusalemme. Otto datazioni calibrate al radiocarbonio mostrano che le principali discariche di rifiuti di Elusa cessarono di ricevere rifiuti non più tardi del 550 circa d.C. Altre testimonianze archeologiche dimostrano che la città continuò comunque ad essere abitata. Bar-Oz et al. (2) sostengono che le date di discarica documentano la fine dei servizi cittadini di lunga data, un punto di svolta verso una tendenza al ribasso. Le città del Negev fanno parte del più ampio dibattito sul crollo del potente Impero Romano d’Oriente e delle sue fiorenti città: le argomentazioni archeologiche sul declino urbano furono avanzate già nel 1954, ma tali scoperte furono pubblicate in russo (8) e ci vollero decenni per generarle. ricerca tradizionale in Occidente. Ora, una generazione di archeologi ha scoperto i prosperi paesaggi urbani dell’Impero Romano d’Oriente e i segni della loro diminuzione. Più recentemente, come Bar-Oz et al. (2) si noti che l’archeogenetica e la scienza paleoclimatica stanno svelando la portata di quelli che sembrano shock esogeni per il resiliente sistema romano, sotto forma di rapidi cambiamenti climatici e epidemie senza precedenti. Gli scienziati prima costrinsero gli storici a prestare attenzione ai resoconti dei testimoni oculari di un velo solare nella primavera del 536 d.C. che durò dai 14 ai 18 mesi (9). Nel 2015, le carote di ghiaccio polare hanno dimostrato che questo evento era vulcanico (10); nel 2016, gli scienziati del clima hanno collegato questo fenomeno e le successive eruzioni con un calo recentemente ricostruito delle temperature medie estive di circa 1-3 °C in tutta l'Eurasia dal 536 fino al 630 almeno, definendo una piccola era glaciale tardoantica (11). Nel 2018, la tefra proveniente da una carota di ghiaccio europea ha individuato quel vulcano in Islanda (12), che consentirà la ricostruzione del diverso impatto del raffreddamento emisferico. Quando e perché queste città straordinariamente conservate caddero nell'abbandono? Il dibattito è continuato dopo la loro scoperta e le ipotesi rispecchiano controversie più ampie sulla caduta dell’impero di Roma (4). Furono le invasioni persiane e arabe nel 600 (5)? Oppure le tasse, le strutture sociali e la burocrazia romane oppressive soffocarono le città di successo (6)? Potrebbe il cambiamento climatico nel ∼600 d.C. aver seccato i vigneti attentamente curati (7)? Documenti storici conservati in modo non uniforme menzionano grandi epidemie che colpirono l'Impero Romano, a cominciare dalla peste antonina (∼ dal 165 al 180 d.C.) il cui agente patogeno rimane non identificato. Queste grandi epidemie culminarono nella pandemia che porta il nome di Giustiniano, l’imperatore regnante, e che testimoni oculari descrivono come un crescendo di morte. A partire dal 541 e continuando fino al 750 d.C., una malattia terrificante si diffuse dai porti romani dell’Egitto in tutto il mondo mediterraneo. Tra i primi luoghi colpiti ci furono le città lungo il confine egiziano del Negev (13), inclusa plausibilmente Elusa. Il DNA antico (aDNA) ha posto fine al dibattito sull’identità dell’agente patogeno: dopo i primi risultati contestati, diversi laboratori hanno ora identificato con certezza l’agente patogeno come Yersinia pestis (peste bubbonica) e ricostruito il suo genoma, ponendo le basi per un dibattito più ampio fondato sull’archeologia e sulla batteriologia. filogenesi sull'entità e sulla frequenza delle ondate di morte. Per coincidenza, la prima e la seconda identificazione robusta (14, 15) del batterio nelle sepolture risalenti al 550 d.C. circa avvennero lontano da dove la malattia emerse per la prima volta, in Baviera, una regione eccezionalmente ben esplorata dove nessuno sapeva che la peste di Giustiniano aveva raggiunto. La Baviera offriva una sorta di zona “riccioli d’oro”, dove buone condizioni consentono il recupero di resti umani che portano ancora l’aDNA dell’agente patogeno che li ha uccisi. Un terzo studio di successo (16) ha riportato una quantità molto maggiore di aDNA della peste nelle aree indagate: risultati positivi da tre nuovi siti in Baviera e i primi risultati robusti dalla Francia mediterranea e dalla Spagna, dove i documenti storici affermano che la malattia colpì nel 500. Sorprendentemente, anche la Gran Bretagna anglosassone ha prodotto vittime di Y. pestis. Mappare ogni focolaio di una malattia che si ripresenta regolarmente per 200 anni sarà arduo, e dovrà estendersi ai territori levantini dell’Impero bizantino di Bar-Oz et al. (2), dove i documenti storici dicono che la peste ebbe inizio ma dove le condizioni ambientali sono anche meno favorevoli alla conservazione dell’aDNA. Alcuni hanno indicato questi shock esogeni derivanti dal clima e dalle malattie come fattori critici che indeboliscono l’impero sulla strada verso la caduta finale di Roma (17, 18), mentre altri negano la loro importanza a favore delle tradizionali cause politiche, sociali e militari (19, 20). Da qui l'importanza della datazione assoluta delle antiche discariche (2). Mentre le sconfitte militari che comportano morti di massa e distruzioni dovute al fuoco possono essere relativamente facili da osservare archeologicamente, il deterioramento economico e urbano lascia tracce materiali più sottili, soprattutto nelle principali città antiche come Costantinopoli (Istanbul) o Alessandria, dove la costruzione moderna cancella i delicati residui di antico declino. Anche in città permanentemente abbandonate come Elusa, è difficile decifrare quando, esattamente, tra i ∼500 e i 700 si verificarono i cambiamenti e di che tipo. Strettamente connessa alla questione del quando è la domanda del perché. Le date basate sulla ceramica non sono sufficientemente risolte; l'assenza di pentole approssimativamente databili potrebbe non significare l'assenza di persone (ad esempio, se le reti commerciali che forniscono le stoviglie sono cambiate). È proprio qui che la rimozione organizzata dei rifiuti dalle città tardo romane offre nuove intuizioni quando la sua cessazione può essere datata in modo affidabile e accurato mediante il radiocarbonio. Non c’è alcun segno di violenza nella morte di queste città. Le città sono morte velocemente o lentamente? Hanno condiviso un destino comune o sono morti ciascuno in modo diverso, per ragioni diverse, in tempi diversi? Il team del Weizmann Institute of Science (2) ha sviluppato un approccio promettente per datare quando iniziarono i grandi cambiamenti, applicando analisi geoarcheologiche dei sedimenti, quantificazione, dati del sistema informativo geografico, datazioni archeologiche estese (ceramiche, monete, vetro) e, soprattutto, analisi multiple al radiocarbonio datazioni ai tumuli di discarica generati da uno di questi insediamenti (2). La rimozione organizzata dei rifiuti era una caratteristica regolare della vita di queste città e, probabilmente, di molte altre simili in tutto l'impero: la necessità di un suo studio sistematico era chiara da tempo (21). La fine di tale rimozione dei rifiuti sembra un valido indicatore della cessazione dei normali servizi e pratiche urbane, rendendolo un indicatore importante sul percorso delle città romane verso l’oblio. Di per sé, il cambiamento nel comportamento urbano potrebbe avere ulteriori implicazioni. Se i rifiuti non venissero più rimossi ma scaricati all’interno della città dalle singole famiglie, ciò suggerirebbe uno spazio vuoto, forse riflettendo il calo della popolazione; inoltre, accumulare rifiuti attira i parassiti che se ne nutrono, permettendo alle loro popolazioni di crescere a più stretto contatto con gli abitanti umani. In un sito all'interno della Napoli tardo romana, tale scarico in un lotto libero è stato datato archeologicamente circa 100 anni prima rispetto ai risultati di Elusa, il che si adatta bene al precoce declino urbano dell'Impero d'Occidente (22). Tra i parassiti che ci si potrebbe aspettare in tali depositi di rifiuti intramurali (e che erano abbondanti nella discarica di Napoli) c'è il ratto nero (Rattus rattus), il presunto ospite principale di Y. pestis nel mondo tardo romano. Anche se diabolico da individuare archeologicamente, lo scavo di questi piccoli mammiferi sarà cruciale per decifrare la diffusione e l’impatto della peste. E questo ci riporta alle interessanti implicazioni di Bar-Oz et al. (2). La nuova datazione si sovrappone a quei due grandi shock esogeni che colpirono l’economia romana: il rapido cambiamento climatico a partire dal 536, e la pandemia della peste di Giustiniano che iniziò tra il 541 e il 542. La coincidenza cronologica è sorprendente, ma è solo il primo passo verso ciò che promette di stimolare nuovi dibattiti e scoperte su come il cambiamento ambientale, l’evoluzione delle malattie e della genetica umana, e fattori più tradizionali di economia, governance, migrazione e cultura, hanno interagito durante la straordinaria epoca di cambiamento, distruzione, rinnovamento e resilienza che ha visto la caduta del mondo. L’Impero Romano e le origini dell’Eurasia occidentale e del Nord Africa medievali e moderne.- 2 commenti
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Dopo 90 anni torna visibile la "credenza di Ercolano"
Vel Saties ha aggiunto un nuovo link in Rassegna Stampa
Dopo quasi novant’anni, la credenza lignea proveniente dall’appartamento V,18 sul Decumano Massimo di Ercolano torna finalmente visibile al pubblico. Il reperto, uno dei più straordinari esempi di arredo domestico dell’antichità, è stato trasferito dall’area archeologica all’Antiquarium del Parco Archeologico di Ercolano, dove trova posto nel nuovo spazio espositivo dedicato ai legni antichi. Si conclude così un lungo percorso di tutela, studio e restauro che ha restituito vita e leggibilità a un oggetto unico nel panorama archeologico mondiale. La credenza, rinvenuta nel 1937 accanto alla Casa del Bicentenario, è un armadietto in legno carbonizzato straordinariamente conservato, ritrovato insieme al suo contenuto originale: coppe, bicchieri, brocche e pentole, testimonianza preziosa della quotidianità domestica ercolanese. Il rinvenimento, documentato con cura nei Diari di scavo, offrì già all’epoca un’istantanea eccezionale della vita privata di una famiglia del I secolo d.C., sopravvissuta nei dettagli al dramma dell’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. Dopo la scoperta, il soprintendente Amedeo Maiuri, ideatore del progetto di “città-museo”, volle che il mobile restasse in esposizione nel suo contesto originario. Collocato al piano terra della bottega sottostante l’appartamento e protetto da una teca di vetro, divenne uno dei simboli del suo ambizioso programma di restituzione della vita quotidiana attraverso la musealizzazione in situ. Quell’allestimento, tuttavia, durò poco. Per motivi di tutela e conservazione, la credenza venne successivamente rimossa e sigillata in una cassa lignea, dove rimase per decenni, lontano dallo sguardo dei visitatori e degli studiosi. Solo nel 2022, con la riapertura della cassa, è iniziata una nuova fase della sua storia. L’operazione ha dato avvio a un articolato progetto di studio e restauro, realizzato grazie alla collaborazione tra il Parco Archeologico di Ercolano e il Drents Museum di Assen, istituzione olandese da anni impegnata nella valorizzazione dei materiali organici antichi. Il lavoro di restauro, concluso nel 2023, ha permesso di consolidare la struttura del mobile e di renderlo idoneo al trasporto e alla nuova esposizione, restituendogli stabilità e leggibilità senza alterarne la natura di reperto fragile e irripetibile. Il trasferimento della credenza dall’area archeologica all’Antiquarium è stato un momento complesso e delicato. A causa della fragilità del legno carbonizzato, l’operazione ha richiesto la partecipazione coordinata di restauratori, archeologi, tecnici e operatori specializzati. Per un’intera giornata le squadre hanno lavorato con estrema cautela, garantendo la sicurezza del reperto in ogni fase del movimento. Il trasporto, realizzato con supporti appositamente progettati e sistemi di ammortizzazione, ha rappresentato una sfida logistica e scientifica di grande rilievo. Oggi la credenza è collocata al piano ammezzato dell’Antiquarium, nel cuore del nuovo spazio espositivo che accoglie i legni antichi provenienti da Ercolano. L’allestimento è stato concepito per restituire al visitatore l’atmosfera originale dell’esposizione voluta da Maiuri negli anni Trenta, con un’attenzione particolare alla disposizione dei reperti e alla loro relazione con il contesto abitativo di provenienza. Grazie alla documentazione fotografica e scritta degli scavi del 1937, è stato possibile ricomporre fedelmente l’aspetto originario del mobile, riposizionando sulle sue superfici le stoviglie e gli oggetti domestici rinvenuti al suo interno. Il risultato è un’immagine viva e autentica della vita domestica di duemila anni fa, restituita nella sua dimensione più intima. Accanto alla credenza sono esposti una culla, simbolo della dimensione familiare, e il larario rinvenuto nello stesso vano dell’appartamento V,18, restaurato nel 2021 grazie alla XIX edizione di Restituzioni, il programma di tutela e valorizzazione del patrimonio artistico e archeologico promosso da Banca Intesa Sanpaolo. Il Parco Archeologico di Ercolano ha previsto anche un programma di visite serali per permettere al pubblico di ammirare il reperto in una cornice suggestiva. Nell’ambito dell’iniziativa Una Notte al Museo, ogni martedì e giovedì, dalle 20:30 alle 23:30 (ultimo ingresso alle 22:30), sarà possibile accedere con biglietto ridotto al Padiglione della Barca, alla mostra dei legni e a quella degli ori. Durante queste serate speciali i visitatori potranno incontrare archeologi, restauratori e architetti del Parco, che racconteranno le fasi del restauro, gli interventi conservativi e i dettagli dell’allestimento, offrendo uno sguardo diretto sul lavoro quotidiano di tutela e ricerca che anima il sito. Fonte: https://www.finestresullarte.info/archeologia/restaurata-credenza-di-ercolano-dopo-90-anni-di-silenzio Nota mia: l'incredibile reperto provenie dall’appartamento V 18 sul Decumano Massimo -
Indagini geofisiche in archeologia: il caso di Falerii Novi
Vel Saties ha aggiunto un nuovo link in Storia ed archeologia
La notizia non è per nulla nuova e la tecnologia utilizzata sul campo neppure. Ma un caso così eclatante, forse non così di sominio pubblico può servire ai non addetti ai lavori a capire dove si sta dirigendo la ricerca archeologica. Il caso è quello di Falerii. In breve, per chi non ricorda il periodo storico questo è l'antefatto: Faleri Novi viene costruita dai Romani dopo la distruzione di Falerii Veteres, capitale falisca, nel 241 a.C.. Nella guerra muoiono 15.000 persone e la vecchia città viene distrutta. Faleri Novi viene costruita in pianura perché più facile da controllare, al contrario dell’altra che era arroccata su uno sperone di tufo. I Falisci, abitanti della città, e che fino a quel momento hanno dominato il territorio, vengono trasferiti nella nuova città. La città viene abbandonata nel Medioevo durante le invasioni barbariche. Per difendersi gli abitanti tornano nel vecchio insediamento da cui si sviluppa l’attuale borgo di Civita Castellana. Fino a pochi anni fa di Falerii si conoscevano solo le mura, le porte e poco altro: E questo è quanto si vede da Google Maps Duemila e passa anni di quasi oblio fino a quando il Ministero non ha dato i concessione lo studio geofisico della città ad un team di archeologi, geofisici e tecnici delle università di Cambridge e di Ghent. Non una concessione di scavo, come avviene in tanti siti, ma di prospezioni geofisiche durante le quali è stato impiegato un avanzato “radar a penetrazione del suolo” (o Ground Penetrating Radar, abbreviato in GPR), strumento che invia onde radar nel terreno ricevendone il “rimbalzo” dovuto alle strutture nascoste nel sottosuolo. Rimorchiando gli strumenti GPR con un quad, il gruppo di ricercatori che fa capo all’Università di Cambridge e all’Università di Gand è riuscito a esaminare 30,5 ettari inviando onde radar ogni 12,5 centimetri (una risoluzione molto elevata). Il sottosuolo è stato studiato a diverse profondità, in modo da poter ricostruire come la città si è evoluta nel corso di centinaia di anni. Planimetria di Falerii Novi (Università di Southampton) Grazie all’uso del GPR si è riusciti a capire cosa sia avvenuto dopo quel periodo. Per esempio, si è scoperto che alcuni grandi massi dei monumenti furono asportati dalla città. Lo studio ha permesso inoltre di capire che la costruzione della città non seguì le regole generali delle città dell’Antica Roma finora studiate in maniera dettagliata. Gli archeologi hanno scoperto la presenza di un complesso termale, una vasta rete di tubature per l’acqua della città, un mercato, un tempio e un monumento la cui struttura si presenta diversa da ogni altra osservata in precedenza. Il tempio, l’edificio del mercato e il complesso termale sono molto più elaborati dal punto di vista architettonico di quanto ci si aspetterebbe per una piccola città. Tra gli edifici ritenuti “anomali” ce ne è uno molto grande dalla forma rettangolare che è collegato all’acquedotto attraverso una serie di condotte d’acqua. I tubi corrono sotto gli isolati e non, come ci si attenderebbe, lungo le strade. Le prime ricerche sostengono che quell’edificio fosse una piscina all’aperto, inclusa in un grande complesso balneare pubblico. Ancor più strana è la presenza, vicino alla porta settentrionale della città, di due grandi strutture, una di fronte all'altra, ricoperte da un grande portico. Si ipotizza che siano parte di un imponente monumento pubblico, forse un ambiente sacro ai margini della città. Nulla di tutto ciò si ritrova in altre città romane. Lo studio ha permesso anche di capire che dopo il 700 d.C., quando Falerii Nova si spopolò, parti di quelle costruzioni vennero sottratte per edificare altrove. La ricerca è stata pubblicata su ‘Antiquity’. Nell'articolo integrale, intitolato: "Ground-penetrating radar survey at Falerii Novi: a new approach to the study of Roman cities" che trovate QUI gli autori esaminano i metodi impiegati e forniscono una panoramica dei risultati, inclusa la discussione di un'area di studio all'interno della città. Dimostrano come questo tipo di indagine abbia il potenziale per rivoluzionare gli studi archeologici dei siti urbani, sfidando al contempo gli attuali metodi di analisi e pubblicazione di set di dati GPR su larga scala. Per Martin Millett (Cambridge), uno degli autori dello studio, «il livello di dettaglio raggiunto a Falerii Novi e le caratteristiche del radar utilizzato dicono che questo tipo di indagine potrebbe trasformare il modo con cui gli archeologi indagano i siti urbani del passato». Un approccio assdolutamente importante che apre scenari di discussione sulla metodologia dell'analisi quanto meno di alcuni siti urbani ma, direi, anche extraurbani. Mi vengono in mente le grandi ville della pianura padana. Lo stesso team sta ora studiando due aree archeologiche, una nei pressi di Alborough (Yorkshire, UK), l'altra su Interamna Lirenas, un'antica città romana nel territorio dei volsci (un antico popolo italico) in prossimità dell'attuale Pignataro Interamna (Frosinone). Uno degli obiettivi è tecnologico: si cerca di migliorare il sistema, perché per studiare un ettaro di terreno (privo di insediamenti moderni) ci vogliono almeno 20 ore di rilevamenti, e si vorrebbe ridurre drasticamente questi tempi anche per poter applicare il metodo su aree attualmente abitate. Questo mio misero contributo compilativo è stato tratto da: https://www.appuntidistoria.net/scoperta-antica-citta-romana-sepolta-da-millenni-grazie-a-un-radar/ https://www.archeologiaviva.it/14617/falerii-novi/ https://www.focus.it/cultura/storia/archeologia-col-radar-una-nuova-citta-romana https://www.artribune.com/arti-visive/archeologia-arte-antica/2020/06/citta-romana-onde-radar-archeologia/ https://www.cambridge.org/core/journals/antiquity/article/groundpenetrating-radar-survey-at-falerii-novi-a-new-approach-to-the-study-of-roman-cities/BE7B8E3AE55DB6E03225B01C54CDD09B- 4 commenti
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Recuperato il relitto fenicio Mazarròn 2 al largo di Murcia
Vel Saties ha aggiunto un nuovo link in Rassegna Stampa
Recuperata! E’ del VII secolo a.C. Sai cosa trasportava? Non anfore. A cosa serviva il materiale del carico? Da dove veniva? NB: non so bene di quando sia la notizia, dovrebbe essere piuttosto datata visto che la scoperta del relitto risale al '94. Leggo su S.A. questo recente articoletto: Fonte: https://stilearte.it/recuperata-e-del-vii-secolo-a-c-sai-cosa-trasportava-non-anfore-a-cosa-serviva-il-materiale-del-carico-da-dove-veniva/ Si sono concluse le complesse operazioni subacquee che hanno consentito il recupero dell’antico relitto che aveva appena lasciato la costa, in un lontano giorno di 2600 giorni fa, dopo aver fatto il carico, quando, forse a causa di un temporale o di uno scoglio, andò incontro a un drammatico destino. Fu lo stesso carico a trascinarlo rapidamente sul fondo. Il ritrovamento e il recupero della nave antichissima sono avvenuti nelle acque di Mazarrón, una città costiera nella regione spagnola di Murcia. Gli scavi hanno portato alla luce il relitto di una nave fenicia risalente al VII secolo a.C. Questo relitto, denominato Mazarrón II, rappresenta uno dei più importanti ritrovamenti di archeologia subacquea degli ultimi decenni, gettando nuova luce sulla civiltà fenicia e sulle sue abilità nella costruzione navale e nella navigazione. “Pochi giorni fa ha avuto termine un lavoro appassionante: il recupero del relitto Mazarrón 2 -affermano tecnici e studiosi italiani di Csr Restauro Beni culturali – L’intervento è stato diretto da Carlos De Juan e Agustin Diez-Castillo dell’Università di Valencia, che ringraziamo per averci coinvolto in questa avventura. Sono stati 2 mesi di sfide giornaliere, momenti di riflessione e di confronto con tutto il team e infine di enormi soddisfazioni e di crescita a livello professionale e umano. È stato per noi un privilegio aver partecipato alle fasi di progettazione, recupero, trasporto e sistemazione delle porzioni del relitto presso il laboratorio dell’ARQUAtec, e aver contribuito, con la nostra restauratrice subacquea Raquel Delgado Llata, anche attraverso il trasferimento di competenze acquisite in oltre venti anni di sperimentazioni e interventi di conservazione in situ del patrimonio culturale sommerso, al buon esito dei lavori”. La nave e il suo prezioso carico Momenti delle operazioni di scavo e recupero della nave @ Foto di Jose A. Moya per Universitat de Valencia Il relitto, datato tra il 610 e il 580 a.C., misura circa 8 metri di lunghezza e 2 metri di larghezza. La nave trasportava un carico di lingotti di piombo, un materiale essenziale nel commercio antico. Nonostante la copertura protettiva in metallo che proteggeva il relitto, le correnti oceaniche e la pressione degli strati sedimentari stavano compromettendo la sua conservazione. Per questo motivo, un intervento di scavo è stato considerato urgente. L’operazione, durata 40 giorni, è stata eseguita da un team di archeologi subacquei sotto la direzione di Carlos de Juan dell’Università di Valencia, con il supporto finanziario del ministero regionale della cultura di Murcia. Durante lo scavo, sono stati recuperati anche elementi straordinari come pezzi di corda con nodi originali e i resti di un’ancora, entrambi perfettamente conservati grazie alle condizioni marine uniche. Chi erano i Fenici? I Fenici erano una civiltà semitica originaria dell’attuale Libano, che prosperò lungo le coste orientali del Mediterraneo tra il 1500 e il 300 a.C. Abili navigatori e commercianti, estesero la loro influenza attraverso una vasta rete di rotte marittime che collegavano il Vicino Oriente all’Europa e all’Africa settentrionale. La loro cultura si distinse per l’invenzione dell’alfabeto fonetico, che fu il precursore degli alfabeti greco e latino. Le loro città-stato, come Tiro, Sidone e Biblo, erano centri nevralgici del commercio, noti per la produzione di beni di lusso come la porpora di Tiro, una tintura pregiata ottenuta da molluschi marini. Oltre alla navigazione, i Fenici erano rinomati per la loro ingegneria navale: costruivano navi robuste, progettate per affrontare lunghe traversate oceaniche e trasportare carichi pesanti, come dimostra il relitto di Mazarrón II. A cosa serviva il piombo nell’antichità? Il piombo era un materiale fondamentale nel mondo antico per una serie di applicazioni pratiche. I Fenici, in particolare, lo estraevano in grandi quantità dalle miniere della penisola iberica, come quelle della Sierra de Cartagena. Ecco alcune delle principali applicazioni del piombo: Realizzazione di ancore e pesi: Il piombo, grazie al suo peso specifico elevato, era utilizzato per produrre ancore e pesi da immersione. Fu poi anche usato, in ambito bellico, per la produzione di proiettili per i frombolieri. Canalizzazioni idriche: Il suo utilizzo era già conosciuto in precedenza, ma durante l’Impero Romano fu largamente impiegato per costruire condutture per l’acqua potabile. Sigillature: Era utilizzato per sigillare giunti tra blocchi di pietra o come riempitivo nelle costruzioni navali. Produzione di oggetti decorativi e amuleti: I Fenici attribuivano anche un significato simbolico al piombo, associandolo alla protezione divina. La facilità di fusione del bronzo consentiva una semplice produzione di oggetti d’arte o devozionali. Il carico di lingotti ritrovato sulla nave Mazarrón II testimonia l’importanza strategica di questo materiale per il commercio fenicio e per la loro economia. Il futuro del relitto Le parti recuperate della nave saranno trasportate al Museo Nazionale di Archeologia Subacquea (ARQUA) di Cartagena, dove verranno sottoposte a un meticoloso processo di conservazione della durata di quattro anni. Questo lavoro non solo proteggerà il relitto per le generazioni future, ma consentirà agli studiosi di approfondire le tecniche di costruzione navale fenicia e il loro ruolo nella rete commerciale mediterranea. Carlos de Juan ha sottolineato l’importanza della scoperta, che “offre un’opportunità unica per comprendere meglio le abilità tecnologiche e la cultura marittima dei Fenici”. Le principali miniere di piombo nella Spagna antica Sierra de Cartagena e La Unión (Regione di Murcia): Questa area era una delle principali fonti di piombo e argento nell’antichità. I Fenici sfruttarono queste miniere già dall’VIII-VII secolo a.C., estraendo piombo sotto forma di galena (solfuro di piombo), spesso associata a vene di argento. La vicinanza alle coste facilitava il trasporto via mare. Sierra Morena (Andalusia): La regione, in particolare intorno a Jaén e Córdoba, ospitava miniere di piombo e rame. In epoca romana, le miniere di questa zona furono sfruttate su scala industriale. Miniera di Mazarrón (Murcia): Mazarrón stessa, dove è stato ritrovato il relitto fenicio Mazarrón II, era un centro minerario significativo per l’estrazione di piombo. La città e le sue miniere erano ben conosciute già in epoca fenicia. Rio Tinto (Huelva): Sebbene più famosa per l’estrazione di rame e oro, quest’area forniva anche piombo in minori quantità, come sottoprodotto dell’attività estrattiva. Importanza del piombo spagnolo per i Fenici I Fenici erano abili commercianti e sfruttavano le risorse minerarie della Spagna per alimentare le loro reti commerciali. Il piombo veniva estratto e fuso direttamente nelle vicinanze delle miniere, poi trasportato in lingotti a bordo delle loro navi per essere scambiato in tutto il Mediterraneo. Questi lingotti erano utilizzati per una varietà di scopi, come materiali da costruzione, utensili e oggetti commerciali. Le miniere della Spagna non solo erano cruciali per i Fenici, ma continuarono a essere sfruttate intensivamente durante l’epoca romana, quando la tecnologia mineraria raggiunse il suo apice, con l’introduzione di tecniche avanzate come il ruina montium (frantumazione delle montagne). Questi siti minerari, quindi, non solo testimoniano l’antica economia della penisola iberica, ma sottolineano anche il ruolo della Spagna come fornitore strategico di risorse per le grandi civiltà mediterranee.- 3 commenti
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Ritrovato l'abitato rinascimentale di Casouri nel parmense conosciuto solo dalle fonti scritte
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Fonte: https://www.finestresullarte.info/archeologia/parma-rinvenuto-ufficialmente-il-casouri-antico-abitato-citato-dalle-fonti-storiche È stato ufficialmente rinvenuto il Casouri (conosciuto anche come “Casalauri”), abitato di età rinascimentale citato dalle fonti storiche come plausibilmente situato nell’area di Ravadese, nel Parmense. Se ne conosceva quindi l’esistenza ma nessuno era mai riuscito a ritrovarlo: la scoperta è avvenuta tra il 2022 e il 2023 dal personale della Bonifica Parmense, sotto la direzione scientifica degli archeologi Marco Podini (Soprintendenza di Parma e Piacenza) e del team della ditta Abacus, incaricata della sorveglianza archeologica dell’area. Ne ha dato l’annuncio ufficiale oggi la presidente del Consorzio di Bonifica, Francesca Mantelli, durante un incontro presso l’APE Parma Museo – il centro culturale ed espositivo della Fondazione Monteparma. Fondamentale è stato anche il contributo delle imprese edili coinvolte nei lavori di miglioramento e adeguamento funzionale delle condotte irrigue del comprensorio del Canale Naviglio, tra Parma e Colorno. “I rilevanti ritrovamenti nell’area del sistema ’Naviglio’ confermano ulteriormente come l’acqua abbia da sempre rivestito un ruolo strategico nello sviluppo delle sfere economiche e sociali dei territori e nella crescita delle comunità dei cittadini. Esprimo un sentito ringraziamento a tutto il personale consortile, alle imprese impegnate nel cantiere, alla Soprintendenza di Parma e Piacenza e all’archeologa Cristina Anghinetti che, con passione e competenza, ci ha seguiti e supportati in questo articolato percorso”, ha dichiarato la presidente Mantelli. “L’esecuzione dei lavori di sistemazione idraulica condotti dalla Bonifica Parmense contestualmente alle attività di sorveglianza e, in certe aree, di vere e proprie indagini archeologiche in estensione dimostra che è possibile indagare, salvaguardare, valorizzare senza per questo compromettere o ritardare eccessivamente la realizzazione dell’opera che ne ha occasionato la scoperta: tutela archeologica e sviluppo del territorio non sono necessariamente due concetti antitetici a inconciliabili”, ha spiegato Maria Luisa Laddago, soprintendente Archeologia Belle Arti e Paesaggio per le province di Parma e Piacenza. “La sorveglianza archeologica condotta attraversando un’ampia porzione del territorio parmense, grazie all’intervento di messa in sicurezza del sistema ’Naviglio’, ha permesso di mettere in luce nuovi indizi sullo sviluppo di questo territorio, per un arco cronologico che dai puntuali ritrovamenti dell’età del ferro giunge fino ai nostri giorni: reperti che ci raccontano la trasformazione agricola e abitativa di questa porzione della pianura, in cui l’uomo ha sfruttato le risorse della coltivazione e dell’allevamento arrivando a produrre abbastanza plusvalore da stabilire rapporti commerciali, anche grazie a canali navigabili, con territori distanti”, ha aggiunto Cristina Anghinetti, archeologa Abacus. Filippo Fontana, archeologo ArcheoVea, ha sottolineato: “Il ruolo delle acque, della loro regimentazione e della loro gestione, nella formazione del paesaggio urbano ed extraurbano di Parma rappresenta un tema centrale nella comprensione della fisionomia del nostro territorio. Una storia di lungo sviluppata fra usi della risorsa idrica, come motore di sviluppo, e necessità di controllo della forza, a volte anche distruttrice, delle acque”. Particolarmente coinvolgente è stata la seconda parte dell’incontro, pensata per un pubblico giovane: 70 studenti provenienti dal Liceo Artistico Statale “Paolo Toschi” (classi 4A Teatro e 4A Architettura), dall’Istituto Tecnico Tecnologico “Camillo Rondani” (classi 4C e 5C), e dall’Università di Parma (Dipartimento DUSIC, corsi di Archeologia Classica e Archeologia del Paesaggio) hanno avuto l’opportunità di vivere un’esperienza didattica unica, partecipando a una lezione interattiva con gli archeologi e osservando da vicino i reperti rinvenuti. Parma, ritrovato ufficialmente il Casouri, antico abitato citato dalle fonti storiche -
«In Siria ci sono altri tesori, dobbiamo scavare ancora»
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Le aste numismatiche ed i siti di vendita soprattutto stranieri sono subissati da monete chiaramente provenienti dal Medio Oriente. Certamente guerre e vuoti di potere nella regione lasciano mano libera al commercio di tali reperti archeologici. Parla Matthiae: «In Siria ci sono altri tesori, dobbiamo scavare ancora» «La mia ultima campagna di scavi in Siria è finita nel 2010. Dal 1964 e fino a quel momento, ho trascorso lì due o tre mesi l’anno». In queste parole è racchiusa tutta la dedizione di Paolo Matthiae. Ha insegnato Archeologia e Storia dell’arte del Vicino Oriente antico all’Università La Sapienza di Roma e a 70 anni continuava a seguire i lavori sul campo, nonostante fosse «un po’ faticoso a quell’età». E nonostante quei «piccoli problemi» dovuti all’attività archeologica: «Il sole, la polvere, il vento, e poi lo stare fermo per osservare con attenzione, il che non giova alla circolazione». Per Matthiae, la Siria è «il secondo Paese», protagonista del suo libro La Siria antica. Arte e architettura (Einaudi, pagine 304, euro 36,00). Nel volume afferma che nell’archeologia orientale la Siria dell’Età del bronzo è stata trascurata e sottostimata. Che cosa intende? «L’esplorazione delle grandi civiltà dell’Oriente classico cominciò nel 1842 nella Mesopotamia settentrionale. In Siria, invece, le prime spedizioni risalgono a mezzo secolo dopo. A questo ritardo si aggiunge la casualità. Soprattutto in passato, l’avvio di una campagna poteva dipendere da un interesse da parte degli archeologi, che sceglievano un particolare sito ritenendo che potesse contribuire a risolvere problemi storici già noti. Uno scavo, però, poteva iniziare anche per un fatto occasionale, per esempio dopo un ritrovamento. È il caso delle due scoperte più importanti della prima metà del Novecento in Siria, cioè le città di Ugarit sulla costa mediterranea e di Mari sull’Eufrate. Questi scavi iniziarono in seguito a scoperte accidentali e, per controllare se fossero siti d’interesse, a Ugarit fu inviato il professor Schaeffer, a Mari il professor Parrot. Non si erano posti un problema storico, ma da grandi archeologi quali erano capirono subito l’importanza dei due siti». A Ebla, dove fu lei a intraprendere gli scavi, quali fattori spinsero ad avviare una campagna? «Gli scavi di Ebla sono legati a un fatto occasionale, anche se scelsi quest’area a partire da un problema storico. Nel 1962, con la mia tesi di laurea, avevo studiato la Siria del II millennio a. C. ed ero interessato a trovare un sito che, per la dimensione o la cronologia, potesse offrire risultati importanti. Quando chiesi di avere la concessione di scavo per l’Università di Roma, il sito si chiamava Tell Mardikh. Ancora non sapevamo che fosse Ebla, ma lo accertammo nel 1968 grazie al ritrovamento di un’iscrizione. Questa città era stata cercata a nord, a ovest e a est di Aleppo, anche in Turchia. Tell Mardikh, invece, si trova 55 chilometri a sud di Aleppo». La scoperta di Ebla gettò luce sull’interno della Siria, trascurato dalle spedizioni precedenti. Scavare in zone diverse della Siria significa indagare civiltà differenti? «La Siria ha una struttura geografica, e quindi anche storica, molto varia. La zona costiera è una stretta fascia di pianura mediterranea. Poi incontriamo le catene montuose note come Libano e Anti-Libano. Spingendoci verso l’interno, troviamo una regione pianeggiante e, andando verso e oltre l’Eufrate, un’area desertica. Questa conformazione ha avuto un impatto sulle esplorazioni archeologiche, perché uno scavo sulla costa, uno nella Siria centrale e un altro più a oriente hanno esiti diversi. Sono sintomatici quelli di Ugarit, Ebla e Mari. Tutti e tre mostrano una certa frammentazione delle culture. Ugarit è sempre stata definita proto-fenicia, perché è del XIV-XIII secolo a. C. e, nel XII secolo, a nord e a sud di questa zona cominciò a svilupparsi la civiltà fenicia. Mari, invece, è situata nell’estremo oriente della Siria ed è considerata la più occidentale delle città mesopotamiche». Ebla, invece? «Ebla si trova tra Aleppo e Damasco ed è tipicamente siriana. La sua storia si divide in tre fasi e copre un arco temporale che va dal 2500 al 1600 a. C. circa. È del 2350 a. C. il Palazzo Reale in cui, nel 1975, trovammo gli archivi reali di Ebla. 17mila frammenti che formano tra i 4 e i 5mila testi interi. Un tesoro epigrafico straordinario. Di Ebla conosciamo molto: templi, palazzi, fortificazioni, anche una parte della Necropoli Reale. Una superficie di circa 60 ettari di cui, però, abbiamo scavato tra il 5% e l’8%, nonostante le 47 campagne di scavo che ho condotto». Che influenza ha avuto sull’attività archeologica la guerra civile siriana? «Ovunque, la situazione politica, sociale ed economica influenza la conduzione degli scavi. Quando cominciai le esplorazioni, erano in corso sette o otto campagne straniere. Nel 2010 ce n’erano 120. Poi, con lo scoppio della guerra civile, lasciammo la Siria. Prima di questo momento, il Paese era diventato un paradiso dell’archeologia orientale, in parte grazie alla scoperta degli archivi di Ebla. Questo spinse molti Paesi a prestare più attenzione alla Siria, capendo che anche lì si potevano trovare testi cuneiformi così antichi. All’epoca, infatti, si riteneva che in Siria questa scrittura avesse cominciato a diffondersi verso il 1800 a. C. Alcuni miei colleghi mi dissero: “Allora possiamo trovare altre città come Ebla”. Ma nel 2010 l’attività archeologica si è interrotta. Alcuni scavi, anche se condotti dalle autorità siriane, sono continuati nella zona costiera, abitata dagli alauiti. Il governo, infatti, era di minoranza alauita». Secondo lei, ora che in Siria la situazione sta cambiando, quale potrebbe essere la prospettiva futura per l’attività archeologica? «Non è facile immaginare come si possa comportare la nuova Siria. Quel che è certo è che ha ancora molto da offrire. Altro aspetto indubbio sono i seri problemi che il patrimonio artistico, archeologico e architettonico ha corso, nonostante la Direzione delle antichità abbia messo in salvo i reperti di molti musei. Gli eserciti dell’Isis hanno danneggiato il tempio di Baalshamin, a Palmira. Essendo antecedente all’Islam, rappresenta un’eredità considerata riprovevole dagli jihadisti. Dicevano anche che se avessero conquistato Damasco, avrebbero distrutto il mausoleo di Saladino. Rimasi perplesso quando lo sentii: Saladino cacciò i crociati dalla Siria e restituì al mondo islamico quello che era stato portato in Occidente. Secondo l’ideologia jihadista, però, non ci può essere un uomo che si elevi verso Allah. Quello che auspico è che la Siria sia un Paese in cui coloro che appartengono alle molte minoranze siano tutti cittadini in ugual modo. Avendo io 85 anni, vorrei che facessero un po’ presto, in maniera che possa vederlo». -
Il tesoretto di Arcalia (Romania). Coniato dai romani, tesaurizzato da non romani
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Articolo: https://www.academia.edu/127433732/MINTED_BY_ROMANS_HOARDED_BY_NON_ROMANS_THE_ARCALIA_HOARD Academia.edu mi avvisa che il prof, Asolati ha appena caricato questo contributo recentissimo (2025) su un tesoretto rinvenuto in Romania. Si tratta di un tesoretto composto da 110 monete d'argento del peso di 268,32 gr. Lo spettro numismatico indica: 97 denari imperiali, 2 silique, 10 copie fuse di denari imperiali, 1 imitazione barbara di un denaro. Accanto alle monete è stata rinvenuta una fibbia di scarpa unna in argento. Il peso totale del tesoro è di 287,76 gr. La distribuzione delle monete in base agli emittenti è la seguente: • denari imperiali: Tito, Tito (Domiziano Cesare); Nerva: Traiano 7; Adriano 8; Antonino Pio 20, Antonino Pio (Faustina I Diva) 7, Antonino Pio (Marco Aurelio Cesare), Antonino Pio (Faustina II Augusta); Marco Aurelio 18, Lucio Vero 4, Marco Aurelio (Faustina II Augusta) 2, Marco Aurelio (Faustina II Diva) 2, Marco Aurelio (Lucilla Augusta) 3, Marco Aurelio (Commodo Augusto), Marco Aurelio (Antonino Pio il Divino) 3; Commodo 9, Commodo (Crispina Augusta) 3, Commodo (Marco Aurelio il Divino); Didio Giuliano, Didio Giuliano (Manlia Scantilla Augusta); Settimio Severo 2; • silique: Costanzo II 2; • copie fuse: Antonino Pio 2, Antonino Pio (Faustina I Diva); Commodo 5, Commodo (Marco Aurelio divinizzato); • imitazioni barbare: Antonino Pio Oltre a discutere del rinvenimento la pubblicazione è una riflessione sul ruolo dei metal detectoristi amatoriali e l'alleanza tra appassionati dello strumento ed archeologi nell'ambito della conoscenza del patrimonio culturale nazionale. Si legge nell'abstract: "L'approccio di convergenza tra la legislazione sullo statuto dell'utilizzo del metal detector in Romania e l'aumento della comprensione del significato della protezione del patrimonio culturale da parte dei metal detectorists ha portato nell'ultimo decennio all'aumento dei tesori segnalati scoperti tramite metal detector. Il tesoro oggetto del presente lavoro è probabilmente uno dei casi migliori in cui il codice di buone pratiche può gettare una nuova luce sull'interpretazione - e sulla sua metodologia - di una scoperta antica. Il tesoro è stato scoperto parzialmente dal metal detector, che nel momento in cui si è reso conto di aver trovato parte di un tesoro, si è fermato immediatamente e ha seguito la procedura legale. Quindi, l'archeologo ha intrapreso con urgenza uno scavo di salvataggio nel luogo del ritrovamento e ha registrato correttamente i nuovi ritrovamenti, ha recuperato completamente il tesoro e ha inserito l'area nel Registro nazionale dei siti archeologici, proteggendo così ufficialmente l'area da future attività di rilevamento dei metalli".-
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AI: con l'intelligenza artificiale è possibile vedere l'interno di un papiro ercolanense
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AI: con l'intelligenza artificiale è possibile vedere l'interno di una pergamena romana di 2.000 anni fa Il titolo lascia a desiderare ma è l'originale visto che papiro e pergamena sono due cose un filino differenti FONTE: https://it.euronews.com/next/2025/02/06/ai-con-lintelligenza-artificiale-e-possibile-vedere-linterno-di-una-pergamena-romana-di-20?utm_source=firefox-newtab-it-it Il rotolo è stato scoperto nella città di Ercolano, distrutta dall'eruzione vulcanica che seppellì nel 79 d.C. la vicina Pompei, in Campania Il contenuto di una pergamena bruciata 2mila anni fa, proveniente dalla città romana di Ercolano, è stato visto per la prima volta con l'aiuto dell'intelligenza artificiale (IA) e delle immagini a raggi X. Il documento è una delle tante pergamene carbonizzate dall'eruzione vulcanica del Vesuvio del 79 d.C. ed è troppo fragile per essere aperto fisicamente. Il documento fa parte di un progetto chiamato Vesuvius Challenge, una gara di lettura di antiche pergamene lanciata nel 2023 da Brent Seales, un informatico dell'Università del Kentucky, e da finanziatori della Silicon Valley. Il materiale spesso e simile alla carta, chiamato papiro, non può essere aperto fisicamente perché si sbriciolerebbe. L'interno del rotolo di papiroThe Bodleian Libraries and the Vesuvius Challenge I ricercatori hanno scoperto una parte considerevole del papiro e alcune colonne di testo. Una delle prime parole tradotte è stata il greco antico διατροπή, che significa "disgusto" e che compare due volte in alcune colonne di testo. Gli studiosi dell'Università di Oxford stanno ora cercando di interpretare altre parti del testo. Come funziona la tecnologia? Il rotolo è stato posto all'interno di un sincrotrone, una macchina che utilizza gli elettroni per produrre un potente fascio di raggi X in grado di guardare all'interno del rotolo senza danneggiarlo. La scansione crea una ricostruzione in 3D e poi l'intelligenza artificiale cerca l'inchiostro, che viene visualizzato digitalmente. L'IA lavora come i copisti del XVIII secolo, replicando ciò che vede. "Questa pergamena contiene più testo recuperabile di quanto abbiamo mai visto in una pergamena di Ercolano scansionata", ha dichiarato Seales, cofondatore di Vesuvius Challenge e ricercatore principale di EduceLab. "Nonostante questi risultati entusiasmanti, resta ancora molto lavoro da fare per migliorare i nostri metodi software in modo da poter leggere la totalità di questo e degli altri rotoli di Ercolano", ha aggiunto. A Ercolano sono state scoperte centinaia di pergamene carbonizzate, sepolte sotto la cenere vulcanica. La Biblioteca Bodleiana dell'Università di Oxford conserva alcuni di questi rotoli. "È un momento storico incredibile in cui bibliotecari, informatici e studiosi del periodo classico collaborano per vedere qualcosa di inedito", ha dichiarato Richard Ovenden, bibliotecario della Bodley e direttore delle biblioteche universitarie Helen Hamlyn.-
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Un prezioso lingotto di colore Blu egizio per la Domus Aurea
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fonte: https://www.archaeoreporter.com/it/2025/01/22/la-domus-aurea-di-nerone-svela-la-natura-dei-suoi-colori-scoperto-un-lingotto-di-blu-egizio/ Scoperto un prezioso lingotto di pigmento di colore per la Domus Aurea di Nerone: il Blu egizio La Domus Aurea, il maestoso palazzo voluto dall’imperatore Nerone, continua a rivelare segreti affascinanti legati alla sua complessa decorazione artistica. Recenti indagini archeologiche hanno portato alla luce un ritrovamento definito come “eccezionale” dai ricercatori: un lingotto di blu egizio, un pigmento straordinariamente raro in questa forma. Il ritrovamento, avvenuto in una delle botteghe adibite alla lavorazione dei materiali per gli affreschi, testimonia la raffinatezza e la specializzazione delle maestranze che lavorarono al cantiere della Domus Aurea. Un lingotto di pigmento da due chili e mezzo Tra le strutture rinvenute – spiegano dal Parco archeologico del Colosseo – vi sono anche vasche utilizzate per spegnere la calce e per lavorare i pigmenti, tra cui ocra gialla, realgar e terra rossa, ma è il blu egizio a suscitare maggiore interesse. Il lingotto, che pesa 2,4 kg e misura 15 cm di altezza, è in una forma insolita rispetto alla consueta polvere o piccole sfere del pigmento, rendendo questo ritrovamento ancora più significativo. Un procedimento complesso per il blu egizio Il blu egizio è un pigmento artificiale, prodotto cuocendo silice, calcare, minerali di rame e carbonato di sodio ad altissime temperature. Conosciuto almeno dal III millennio a.C., questo colore brillante è stato utilizzato nell’arte egizia, mesopotamica e, successivamente, nel Mediterraneo antico. Nell’Impero Romano, il blu egizio veniva impiegato per creare effetti luminosi in pittura, come nel chiaroscuro dei panneggi o per dare lucentezza agli occhi delle figure. Alessandria d’Egitto è stato uno dei principali centri di produzione di blu egizio, ma recenti scoperte in Italia, come a Cuma, Literno e Pozzuoli, dimostrano che anche nel territorio italico venivano prodotti e utilizzati pigmenti di alta qualità. Il ritrovamento a Roma, in un contesto imperiale, conferma l’impiego di pigmenti pregiati e l’alto livello di competenza degli artigiani che lavorarono per Nerone. Raffaello e la Galatea La scoperta non solo arricchisce la conoscenza della Domus Aurea, ma offre anche spunti per esplorare l’uso di questo pigmento durante il Rinascimento, come nel caso del Trionfo di Galatea di Raffaello, dove il blu egizio fu riscoperto e riutilizzato. Alfonsina Russo, Direttore del Parco archeologico del Colosseo, commenta: “Il fascino trasmesso dalla profondità del blu di questo pigmento è incredibile. La Domus Aurea continua a emozionare, restituendo la brillantezza dei colori che decoravano le stanze di questo straordinario palazzo imperiale.”-
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Scoperte a Roma, capire la Porticus Minucia con l'archeologa
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Archeologia a Venezia. Continuano gli scavi in Piazza S Marco
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CARTA ARCHEOLOGICA ONLINE DEL FRIULI VENEZIA GIULIA, a cura della Società friulana di Archeologia
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CARTA ARCHEOLOGICA ONLINE DEL FRIULI VENEZIA GIULIA, a cura della Società friulana di Archeologia www.archeocartafvg.it-
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Archeologia a Venezia: la perduta chiesa di s Gemignano in piazza S. Marco
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A proposito delle collane e dei gioielli monetali e del riuso delle monete antiche
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A proposito delle collane monetali e del riuso delle monete antiche: propongo qui di lasciare un catalogo di risorse bibliografiche in merito. Ma magari serve solo a me... E.A.ARSLAN, La collana monetale della Tomba 5 della necropoli altomedievale di Offanengo (CR) e la moneta in tomba in età longobarda, in Atti Necropoli longobarde in Italia. Indirizzi della ricerca e nuovi dati, Trento 26-28.9.2011, Trento 2014, pp.338-350. https://www.academia.edu/14631901/E_A_ARSLAN_La_collana_monetale_della_Tomba_5_della_necropoli_altomedievale_di_Offanengo_CR_e_la_moneta_in_tomba_in_età_longobarda_in_Atti_Necropoli_longobarde_in_Italia_Indirizzi_della_ricerca_e_nuovi_dati_Trento_26_28_9_2011_Trento_2014_pp_338_350 Una “collana” di monete bronzee in una tomba longobarda a Verona, in Est enim ille flos Italiae...Giornate di studio in onore di Ezio Buchi, Atti del Convegno (Verona, Palazzo Giuliari 30 novembre 2006 - Polo Zanotto 1 dicembre 2006), a cura di P. Basso, A. Buonopane, A. Cavarzere e S. Pesavento, pp. 431-443 https://www.academia.edu/1335957/Una_collana_di_monete_bronzee_in_una_tomba_longobarda_a_Verona_in_Est_enim_ille_flos_Italiae_Giornate_di_studio_in_onore_di_Ezio_Buchi_Atti_del_Convegno_Verona_Palazzo_Giuliari_30_novembre_2006_Polo_Zanotto_1_dicembre_2006_a_cura_di_P_Basso_A_Buonopane_A_Cavarzere_e_S_Pesavento_pp_431_443?email_work_card=title- 1 commento
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Viaggio nella Roma imperiale, alla scoperta della preziosissima Forma Urbis
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Viaggio nella Roma imperiale, alla scoperta della preziosissima Forma Urbis - Prima puntata-
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Conferenza: Il Salotto del GAAm - "Mondi Etruschi meno conosciuti: Etruria Padana"
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Il Salotto del GAAm - "Mondi Etruschi meno conosciuti: Etruria Padana" Quarto appuntamento del nostro Salotto dedicato agli Etruschi - 18 Marzo 2021 In questo ultimo incontro del ciclo Etrusco la dott.ssa Cristiana Battiston ci accompagna alla scoperta di quei luoghi del nord Italia che non si associano immediatamente alla cultura etrusca, ma che in realtà ne fanno parte.-
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La Stele di Auvele Feluskes da Vetulonia
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Tesori Etruschi della Toscana | La Stele di Auvele Feluskes Alla scoperta del capolavoro nascosto nel Museo Civico Archeologico «Isidoro Falchi» di Vetulonia in compagnia dell’etruscologo Giuseppe M. Della Fina Un particolare della riproduzione grafica della Stele di Auvele Feluskes. Vetulonia, Museo Civico Archeologico «Isidoro Falchi» Giuseppe M. Della Fina | 27 novembre 2023 | Castiglione della Pescaia (Gr) Nella Sala A del Museo Civico Archeologico «Isidoro Falchi» di Vetulonia è presente una stele che ricorda Auvele Feluskes, un personaggio vissuto durante il VII secolo a.C.: il segnacolo funerario è databile, infatti, nell’ultimo quarto di quel secolo. Si tratta di una stele che riesce a illustrare le caratteristiche della società etrusca in decenni centrali per il suo sviluppo. Conosciamo i tempi e i modi del ritrovamento avvenuto nel 1894. Essi sono ricordati da Isidoro Falchi, il medico condotto appassionato di archeologia a cui si deve l’identificazione di Vetulonia, e da Luigi Adriano Milani, direttore del Regio Museo Archeologico di Firenze (oggi Museo Archeologico Nazionale), in una relazione pubblicata sulla rivista «Notizie degli Scavi di Antichità» nel 1895. Falchi ricorda che, scavando sul Poggio alle Birbe, fu localizzato, tra la casetta Bambagini e la «via del piano» (o «dei sepolcri»), «un grande ammasso di pietre piccole informi, che sembrava costituissero un cumulo regolare». Nel proseguo delle ricerche, il cumulo di pietre si rivelò «una tomba a circolo grandissimo di pietre ritte», al cui interno si rinvenne una «pietra grandissima e pesantissima», che «si mostrava pel circolo con una sua punta all’esterno fra i pruni e i cespugli del bosco». Lo scopritore denominò la tomba come «del Guerriero», o «della stele figurata». Il corredo funerario era stato già sconvolto e gli scopritori segnalano soltanto «frammenti di bucchero baccellati» e «fittili a grande anse intagliate». Rinvennero anche un piccone antico in ferro. La stele attrasse subito l’interesse degli studiosi soprattutto per l’iscrizione etrusca incisa su tre dei suoi lati: il destro, il sinistro e l’inferiore. Un’iscrizione difficile da leggere per lo stato di conservazione e sulla quale, da allora, si sono confrontati numerosi studiosi di epigrafia etrusca giungendo a conclusioni divergenti in alcuni dettagli significativi. Va segnalato subito che essa inquadra la figura di un guerriero intento a incedere verso sinistra: la testa è sormontata da un elmo di tipo corinzio simile ad alcuni che sono stati rinvenuti, dotato di un cimiero e di un paranaso; il corpo è nascosto da un grande scudo rotondo decorato da una rosetta a sei petali; le gambe sono raffigurate nude e prive di schinieri nell’atto di camminare (di marciare, verrebbe da scrivere); i piedi sempre nudi poggiano sul terreno da cui sorge un virgulto vegetale proprio tra le gambe del guerriero. L’uomo ha in mano una doppia ascia, intorno ad essa si è discusso a lungo: per alcuni rappresenterebbe il simbolo del potere militare di cui l’uomo era investito; per altri si tratterebbe invece di un’effettiva arma da combattimento. Il contesto sembrerebbe rendere la prima ipotesi più plausibile. Va segnalato che la stele è solo incisa e precede cronologicamente di poco altre rese a leggero rilievo e, di qualche decennio, quelle a pieno rilievo che sono datate tra il primo e il secondo quarto del VI secolo a.C. L’interesse dell’iscrizione è notevole e, senza entrare nel dibattitto che l’ha caratterizzata e la caratterizza, va segnalato che ricorda un personaggio di nome Auvele Feluskes. Paolo Poccetti nel 1999 ha proposto di riconoscere nel gentilizio (Feluskes) il ricordo dell’etnico dei Falisci. Per Adriano Maggiani, che ha realizzato un nuovo apografo dell’iscrizione nel 2007, anche il prenome (Auvele) trova un confronto nell’agro falisco. Ci dovremmo trovare così di fronte a un italico, a un uomo d’arme confrontabile, sempre nell’ipotesi di Maggiani, con Avile Tite a Volterra, Larth Ninies a Fiesole, i Vipiennas a Vulci e Lars Porsenna a Chiusi seppure in un’epoca più recente e con un successo ancora maggiore. Si potrebbe aggiungere anche Larth Cupures a Orvieto. Tutti personaggi che riuscirono a scalare la società del loro tempo grazie alle doti militari e alla capacità politica e, nel caso di Porsenna, a lasciare un segno importante nella storia etrusca. C’è un aspetto ulteriore da evidenziare nella stele rinvenuta a Vetulonia: si ricorda anche il matronimico di Auvele Feluskes, quindi non solo il nome del padre, ma anche quello della madre, una Papanai, a suggerire il ruolo sociale diverso avuto dalla donna nella società etrusca rispetto ad altre del mondo antico. Chi aveva dedicato la stele? Per alcuni epigrafisti un membro della famiglia; per Maggiani, che legge il nome del dedicante come Hirumina Phersnainas, un personaggio non legato a lui da legami di sangue, ma da vincoli di altro tipo, di «etaireia» o di «philìa», in quanto suo compagno di arme o erede politico. https://www.ilgiornaledellarte.com/articoli/tesori-etruschi-della-toscana-la-stele-di-auvele-feluskes/144239.html -
Parte I In ordine: On the Scandinavian origin of the Longobards The Longobard Origo and Gens - The compact identity of a Germanic people The Longobards in Scoringa, Mauringa and Golaida: from the Wodanic adoption to the Marcomannic Wars The Longobard invasion and the myth of the "total fracture" with the Roman past
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Archeologia della contemporaneità; Scoperte tra il ghiaccio sullo Stelvio: l'ultimo pomeriggio della Grande Guerra sepolto in caverna
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Le attività di recupero e restauro conservativo dei reperti presso il ricovero austro-ungarico in caverna di Monte Scorluzzino PER APPROFONDIRE https://www.archaeoreporter.com/it/20... Le attività sono state effettuate su incarico del Parco Nazionale dello Stelvio - Lombardia da SAP - Società Archeologica srl nell’ambito del Progetto d’area Grande Guerra - Strategia Area Interna Alta Valtellina scheda 5.1 “Progetto d’area Grande Guerra: valorizzazione delle testimonianze e recupero dei manufatti (itinerari trincee)” (Spesa agevolata a valere sul Programma POR FESR Lombardia 2014 2020 Asse VI) Lotto 1 ID Operazione: 19014 30, CUP G99E19002020009. L'intervento si è svolto previa autorizzazione e sotto la direzione scientifica della Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per le province di Como, Lecco, Monza-Brianza, Pavia, Sondrio e Varese. L’ultimo pomeriggio della Grande Guerra intrappolato tra i ghiacci dello Stelvio: archeologia dei conflitti nella caverna dello Scorluzzino By Angelo Cimarosti 26 Dicembre 2023 Archeologia della Grande Guerra: una capsula del tempo tra i ghiacci della caverna sullo Scorluzzino sopra lo Stelvio - Elmetto autroungarico ritrovato (ph.ArchaeoReporter) La vanga, l’elmetto, i caricatori, persino i giornali. Tutto si è fermato all’ultimo pomeriggio della Grande Guerra, il 3 novembre 1918, imprigionato nel ghiaccio del ricovero in caverna scavato a quasi 3.000 metri, sul Monte Scorluzzino, a guardia del Passo dello Stelvio. Gli austro-ungarici avevano tenuto la posizione, uno dei presidi più in alta quota della Prima guerra mondiale, fin dal maggio 1915. Dopo tre anni e mezzo, però, era arrivato il momento di andarsene il più velocemente possibile. Proprio in quelle ore in una sala di Villa Giusti, al limitare della campagna padovana, la delegazione imperiale firmava l’armistizio. Si era attorno alle 15 e 20, e – per volontà italiana – si sarebbe ancora combattuto per un giorno, nella corsa in avanti ormai inarrestabile del Regio Esercito che dilagava ben oltre il Piave. Il peggior momento per morire in azione, o essere presi prigionieri e rischiare di lasciarci la pelle mesi dopo, per privazioni e malattie in qualche baracca lontana da casa. Così, il presidio austro-ungarico dello Scorluzzino, come quelli circostanti, abbandonò le linee. Tutto quanto poteva essere considerato inutile nella disperata discesa verso la Val Venosta venne lasciato sul posto. L’inverno molto nevoso, e quello successivo del 1919 fecero il resto, e di fatto sigillarono la situazione. Con il tempo appassionati, cercatori di cimeli e semplici curiosi, nel corso di un secolo fecero visita al ricovero, ma la parte più profonda, con l’acqua penetrata tra le rocce solidificata in duro ghiaccio, riuscì a resistere e a conservare preziose informazioni. Ecco quindi emergere reperti, proprio quando le temperature sempre più alte in montagna stavano mettendo a rischio il sito archeologico, perché di questo ormai si tratta: archeologia dell’età contemporanea, archeologia della Grande Guerra. Il concetto di “capsula del tempo”, spesso abusato, ha una ragion d’essere dove le basse temperature hanno aiutato a preservare il materiale e a tenere alla larga fattori esterni, per non parlare delle attività antropiche. E allo Scorluzzino il concetto può essere parzialmente applicato. Ora sappiamo che l’esercito austroungarico a così grande distanza dal mare utilizzava pagliericci riempiti non con paglia ma con alghe, molto adatte per le peculiarità antisettiche. Una catena logistica impressionante che partiva dall’Istria per arrivare ai 2.995 metri di quota. Che la propaganda italiana lanciava giornali irredentisti nelle trincee anche laddove la guerra bianca rendeva molto più rarefatta la presenza di militari. Il ghiaccio ha conservato le pagine dei giornali, note, corrispondenze. Ci sono i caricatori per le armi a ripetizione, le vanghette di ordinanza, i chiodi dove appendere le giberne e le giberne stesse. Scatolette di cibo raschiate a fondo per la fame, provata anche i noccioli di albicocca spessati per poterne mangiare il contenuto, chiaro segno di inedia. Questo nei 12 metri di profondità scavati nella roccia, per tre metri di larghezza e circa un paio di metri di altezza, completamente rivestiti di legno della Val Venosta accuratemente lavorato e ancora orgogliosamente sul posto a svolgere la sua funzione, anche se ormai compromesso dagli anni in alcuni punti come centinatura. Le attività di recupero e restauro conservativo dei reperti presso il ricovero austro-ungarico in caverna di Monte Scorluzzino, realizzate in condizioni climatiche e logistiche naturalmente complesse, sono state effettuate su incarico del Parco Nazionale dello Stelvio – Lombardia, da SAP – Società Archeologica, seguite dal professor Stefano Morosini dell’Università degli studi di Bergamo. Si tratta di progetto nato per valorizzare le testimonianze e recuperare importanti manufatti della Grande Guerra, svolto sotto la direzione scientifica della Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per le province di Como, Lecco, Monza-Brianza, Pavia, Sondrio e Varese (funzionario archeologo Stefano Rossi). Cosa non scontata, perché non tutte le Soprintendenze sono così attente all’archeologia dell’età contemporanea. Negli anni precedenti (2017-2020) si era messo in luce e recuperato, con l’intervento dei volontari del Museo della Guerra Bianca di Temù il ricovero, ancora più grande, del vicino Scorluzzo, denso di testimonianze materiali. Lo Scorluzzino, tra l’altro, è indubbiamente un’opera di ingegneria militare che merita di essere studiata e documentata a fondo: l’ingegner Pietro Azzola (Università di Bergamo) ha quindi svolto rilievi con metodologia integrata 3D laser-scanning e fotogrammetria terrestre e con drone per fissare su modelli tridimensionali scientifici il manufatto.-
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ROMA. Il “Templum Gentis Flaviae” nell’area della stazione Termini.
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ROMA. Il “Templum Gentis Flaviae” nell’area della stazione Termini. https://www.archeomedia.net/roma-il-templum-gentis-flaviae-nellarea-della-stazione-termini/ Si avvicina a grandi passi il Giubileo del 2025 e Roma annaspa tra mille problemi: cantieri aperti ovunque, ma soprattutto il grande Buco Nero di piazza Venezia, uno dei “Non luoghi” della Capitale, spazi proibiti non vivibili, come il Colosseo, Fontana di Trevi ed ora il Pantheon. Nella zona di “Termini” è prevista la sistemazione della piazza tenendo conto (si afferma) della necessità di valorizzare il contesto storico-architettonico dell’area. L’obiettivo è trasformare Piazza dei Cinquecento in un hub della mobilità integrata e sostenibile, coerentemente con gli indirizzi del Piano Urbano della Mobilità Sostenibile di Roma Capitale . Sala-Ottagona-Terme-di-Diocleziano Non molti sanno che proprio nella zona antistante l’Aula Ottagona_ via Romita/via Cernaia_ che oggi ospita (speriamo provvisoriamente!) il Museo dell’Arte Salvata, in corrispondenza del piccolo parcheggio (che per fortuna sembrerebbe destinato a scomparire) vi è un’importante preesistenza sconosciuta ai più, cioè il tempio della Dinastia degli imperatori Flavi, quelli che costruirono il Colosseo. II “Templum Gentis Flaviae”: la localizzazione dell’edificio è stata riconosciuta con sicurezza in seguito a studi recenti in base alle fonti antiche e soprattutto a scoperte archeologiche. Sappiamo che la casa di Vespasiano (e quindi anche il tempio) si trovava sul Quirinale, in una località denominata ad malum Punicum (“al melograno”), nell’area in seguito occupata dall’angolo occidentale delle Terme di Diocleziano, in particolare al di sotto dell’ex Planetario dove sono presenti una domus databile in età giulio-claudia e notevoli strutture superstiti di un edificio più antico costituite da grandi blocchi di travertino collegati da grappe di piombo disposti parallelamente al fronte della sala verso via Romita. L’esigenza della “comprensione e “lettura” del monumento ha guidato a suo tempo in maniera preponderante la progettazione degli interventi di restauro dell’Aula Ottagona delle Terme di Diocleziano, infatti nell’intervento di restauro è diventata assolutamente prioritaria l’esigenza di evidenziare la complessa, straordinaria stratificazione storica presente nell’Aula, che descrive non solo la storia delle Terme ma anche la storia del luogo, ancora più interessante se in questa “narrazione” comprendiamo anche il “Templum Gentis Flaviae”. Abbiamo uno spaccato della Storia di Roma che va dalla “Casa dei Flavii” all’utilizzazione della sala a Planetario, con la creazione della straordinaria volta reticolare, mutuata dai grandi “Planetari” che nascevano negli anni venti in Germania. Ma la cosa più importante, ottenuta col mantenimento della volta metallica è il rapporto dialettico attivato con la volta ad ombrello della sala Termale, una sorta di “lezione” architettonica sull’evoluzione nel tempo dei sistemi voltati. Ritratto-marmoreo-di-Tito Tornando al “Templum”, grazie al professor Filippo Coarelli, è stato così possibile ricostruire un complesso monumentale (lungo 125 m), esteso fino alla chiesa di S. Bernardo, che comprendeva una grande area scoperta, porticata su tre lati, al centro della quale si trovava un podio quadrato di 47 m di lato, probabile sostegno di un edificio a pianta centrale. Nel 1901, al momento della realizzazione di piazza della Repubblica, in corrispondenza del settore nord del grande emiciclo (che riprende la forma dell’esedra delle terme), vennero recuperati numerosi frammenti di rilievi di età domizianea, nei quali si potevano riconoscere soggetti relativi alla celebrazione della gens Flavia, in origine appartenenti alla decorazione del tempio, nei quali appare anche un ritratto di Vespasiano (i cosiddetti “Rilievi Hartwig”, presentati nel 1994 a Roma, in una mostra dal titolo Dono Hartwig). Sempre in quegli anni venne recuperato un gigantesco ritratto marmoreo di Tito alto 2.30 mt che doveva appartenente ad una statua di circa 9 m di altezza (ora al Museo Archeologico di Napoli), che poteva provenire solo dal tempio. Si può quindi ricostruire il complesso come una grandiosa area porticata, cui si accedeva da nord, al centro della quale sorgeva la struttura principale, che comprendeva in basso il sepolcro, di cui si conserva il nucleo in calcestruzzo, certamente in origine rivestito di marmi, e in alto una rotonda a cupola modellata sul Pantheon, sede del culto dinastico. Quest’ultima viene a trovarsi più o meno al centro del largo antistante al Planetario, a pochi centimetri al di sotto del piano di calpestio, e quindi si può facilmente scavare: si tratta di un’operazione di costo limitato, ma certamente di grandissimo rilievo storico ed artistico, che permetterebbe il recupero di un monumento fondamentale per la conoscenza dell’architettura romana, oltre ai resti sottostanti della casa privata di Vespasiano. Inoltre altri autorevoli studiosi ritengono che il tempio sia stato sottoposto ad una procedura ‘sacrale’ di interramento (piu’ correttamente “congestio terrarum”) simile a quella del mausoleo di Lucilio Peto sulla via Salaria o ai monumenti funebri della Necropoli in tal caso si tratterebbe di un monumento in gran parte ancora integro che, con buona probabilità, conserva ancora le urne cinerarie dei Flavii. Una valorizzazione formidabile proprio in vista del Giubileo. Autore: Gianni Bulian Gianni Bulian. Laurea in architettura a Roma, nel 1970, con Ludovico Quaroni. Si specializza nel restauro architettonico e nella progettazione nel campo museale. Dal 1981 ha l’incarico del restauro e ristrutturazione del Complesso Monumentale delle Terme di Diocleziano nell’ambito del Museo Nazionale Romano per la Soprintendenza Archeologica di Roma. Nel 1996 è primo dirigente nel ruolo degli architetti del MiBAC e poi Soprintendente ai Beni Ambientali, Architettonici Artistici e Storici d’Abruzzo. Direttore ad interim della Soprintendenza ai Beni Architettonici e Paesaggistici di Firenze, Prato e Pistoia. Docente alla Scuola di Specializzazione in Restauro dei Monumenti dell’Università di Roma La Sapienza. Autore di numerosi progetti di restauro architettonico nazionali ed internazionali. Fonte: www.quotidianoarte.com, 13 dic 2023- 1 commento
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Roma sotterranea: le domus imperiali di Palazzo Valentini,
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Sotterranei di Palazzo Valentini. Il Colosseo e il Campidoglio sono poco distanti, nell’area di Piazza Venezia. Non stupisce che il sottosuolo abbia potuto offrire - nell’area a maggior densità archeologica della capitale – ritrovamenti di prestigio. Come sempre a Roma il problema è che la città continua a crescere su se stessa, rendendo difficili prima gli scavi, e poi la fruizione degli stessi da parte del pubblico sotto i palazzi pubblici o privati. La riqualificazione dell’area fu ideata inizialmente da Piero Angela e Paco Lanciano per un partenariato pubblico-privato Roma Capitale e Civita. Le installazioni multimediali colpiscono per la presenza della voce narrante e così familare del grande divulgatore televisivo. Colpiscono, degli ambienti, i meravigliosi marmi policromi che, assieme alla presenza delle terme, suggeriscono la ricchezza delle domus, qualora ci fosse bisogno di sottolinearlo al di là della zona d’élite in cui sorgevano. Ma è l’insieme delle stratificazioni della città a essere visibile e apprezzabile, attraverso i reperti, che arrivano addirittura all’apparizione di un bunker della seconda guerra mondiale ancora nello stato originario. La speranza è quella di raggiungere i 50 mila visitatori all’anno, proprio grazie al rinnovamento tecnologico che trasforma in un’esperienza immersiva – come obbligatorio dire adesso – quella che era una musealizzazione ormai vetusta. Soprattutto è una speranza perché esperienze di visita e di ricerca sotto la Città Eterna possano aumentare sempre di più e allargare il patrimonio di conoscenza degli studiosi e dei visitatori- 1 commento
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Paolo Liverani, Giandomenico spinola LE NECROPOLI VATICANE La città dei morti di Roma.
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Le necropoli vaticane Paolo Liverani, Giandomenico spinola LE NECROPOLI VATICANE La città dei morti di Roma. Con un contributo di Pietro Zander. JACA BOOK, Milano, 350pp., ILL. COL. 50,00 euro ISBN 978-88-16-60632-6 www.jacabook.it Recensione originariamente pubblicata su Archeo n. 435 – Maggio 2021 A poco piú di dieci anni dalla prima edizione, torna in libreria Le necropoli vaticane, opera, riccamente illustrata, che descrive un complesso archeologico di primaria importanza. Nel sottosuolo dell’odierna Città del Vaticano si conserva infatti un ricco corpus di monumenti funerari, che costituiscono documenti preziosi sia dal punto di vista storico-artistico, sia in quanto testimonianze della diffusione del cristianesimo. Nel volume vengono dunque passati in rassegna tutti i nuclei piú importanti, senza naturalmente tralasciare la tomba di Pietro e affiancando alle osservazioni di carattere archeologico e interpretativo anche notazioni sul restauro e la conservazione.- 4 commenti
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ROMA. Complesso di Capo di Bove sulla via Appia antica.
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ROMA. Complesso di Capo di Bove sulla via Appia antica. 9 Dicembre 2023 A 20 anni dai primi scavi che hanno riportato in luce l’impianto termale, si riprende con una nuova campagna di indagini nel Complesso di Capo di Bove, in via Appia Antica 222 – Roma. Le terme che oggi si vedono entrando nel sito mostrano diverse fasi edilizie, dalla costruzione nel II secolo d.C. fino ad una fase severiana (II-III secolo d.C.) in cui il complesso ha subito modifiche nella decorazione ed un ampliamento, e ad una fase di IV secolo in cui sono stati apportati profondi cambiamenti strutturali e funzionali. Lo scavo ha inoltre evidenziato la presenza di strutture a carattere agricolo-produttivo riferibili all’età post classica e medievale quando l’area rientrava nel Patrimonium Appiae Suburbanum, la vasta tenuta agricola di proprietà ecclesiastica. Oggi le nuove indagini possono aiutare a capire il rapporto tra le terme e la via Appia, con l’individuazione dell’ingresso originario dalla strada. Lo scavo rientra nel più ampio progetto di una nuova sistemazione del giardino di Capo di Bove, a cui si sta da tempo lavorando e che verrà presentata al pubblico nel corso del 2024. Il 20 dicembre si avrà la possibilità di visitare il cantiere di scavo con due speciali visite guidate alle 12 e alle 15 in cui si sarà aggiornati sui risultati delle ultime indagini archeologiche. Le visite guidate sono incluse nel biglietto di ingresso. Non è necessaria la prenotazione. Il biglietto può essere acquistato presso le biglietterie di Cecilia Metella (in Via Appia Antica 161) o di Villa dei Quintili (in Via Appia Nuova, 1092) oppure sul sito web. Fonte: www.parcoarcheologicoappiaantica.it -
Luigi Malnati LA PASSIONE E LA POLVERE Storia dell’archeologia italiana da Pompei ai nostri giorni
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La passione e la polvere Luigi Malnati LA PASSIONE E LA POLVERE Storia dell’archeologia italiana da Pompei ai nostri giorni Introduzione di Vittorio Sgarbi LA NAVE DI TESEO, Milano, 216pp., TAVV. COL. 20,00 euro ISBN 978-88-346-0537-0 http://www.lanavediteseo.eu Recensione originariamente pubblicata su Archeo n. 438 – Agosto 2021 C’è piú passione che polvere in questa storia dell’archeologia narrata da Luigi Malnati. Il quale, con un approccio quasi «stratigrafico», offre una rassegna puntuale e sistematica di una vicenda ormai plurisecolare. L’autore prende infatti le mosse dai primordi della disciplina, quando, in realtà, ancora non si poteva definirla in questi termini, dal momento che i primi approcci ebbero carattere squisitamente antiquario e, sul campo, si tradussero in cacce al tesoro condotte senza alcun, almeno larvato, criterio scientifico. Il quadro assume contorni diversi all’indomani dei primi scavi condotti a Ercolano e Pompei e poi nel successivo XIX secolo, soprattutto quando, nei suoi decenni finali, entrano in scena Giuseppe Fiorelli e Giacomo Boni. Entrambi, infatti, intuiscono l’importanza della sistematicità e conducono indagini ancora oggi esemplari, resistendo, come nel caso di Boni e come ricorda Malnati, a non poche pressioni. Molti «archeologi» (le virgolette sono dell’autore) volevano che, nei suoi scavi al Foro Romano, l’architetto veneziano si liberasse velocemente degli strati giudicati privi di particolare interesse per raggiungere i livelli «promettenti». Per molto tempo, in ogni caso, le attività si svolgono in un quadro normativo insufficiente e solo nel 1939 l’Italia si doterà di una legge sulla tutela delle cose d’interesse artistico e storico, voluta dall’allora ministro dell’educazione nazionale, Giuseppe Bottai. Un testo, che, come si legge, è rimasto in vigore sino a tempi recenti. Ed è proprio quando affronta gli sviluppi dell’archeologia – in termini sia scientifici, sia normativi – nel corso degli anni a noi piú vicini che Malnati, come si diceva, assume toni di appassionata preoccupazione. Forte della lunga esperienza maturata sul campo e dell’altrettanto profonda conoscenza della macchina amministrativa, lo studioso arriva infatti a presagire la possibile scomparsa della disciplina: un’eventualità postulata, crediamo, anche in forma di provocazione, ma che, nondimeno, impone una seria riflessione. Stefano Mammini-
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Isola di Creta: di chi è quell’armatura? https://www.archeologiaviva.it/22244/isola-di-creta-di-chi-e-quellarmatura/ Enigma a Festòs Questa volta non è una tomba eppure quello che è emerso nello scavo archeologico di Festòs, sull’isola greca di Creta, ha tutte le sembianze di un corredo (funerario). Di sicuro è una scoperta a cui seguono molti interrogativi. Quale guerriero antico avrà indossato quell’elmo? A chi apparteneva quest’armatura al tempo lucente e decorata? Era forse un eroe locale a cui si rendeva omaggio in un’area di culto? Sono alcuni dei quesiti che si sono posti i ricercatori dell’Università Ca’ Foscari Venezia quando nello scavo archeologico di Festòs, sull’isola greca di Creta, hanno a poco a poco riportato alla luce l’armatura di un guerriero. Corredo stupefacente L’eccezionale ritrovamento, una panoplia bronzea di guerriero, composta da un umbone di scudo e da frammenti di un elmo e forse di una cintura, è avvenuto nello scavo archeologico del sito di Festòs (Creta), condotto a luglio 2023 dall’équipe di Ilaria Caloi dell’ateneo veneziano, sotto la direzione di Pietro Militello dell’Università di Catania. Lo scavo, iniziato nel 2022, è eseguito in regime di concessione della Scuola Archeologica Italiana di Atene, diretta da Emanuele Papi, e autorizzato da Vassiliki Sythiakaki, responsabile della 13a Eforia Greca. Apparteneva a un eroe locale In Grecia è rarissimo il ritrovamento di una panoplia di guerriero in un contesto di insediamento e non di sepoltura in area dedicata. Spiega Ilaria Caloi: «L’ipotesi più accattivante – che solo la continuazione dello scavo potrà confermare – è che l’armatura possa attribuirsi a un eroe locale, onorato all’interno di un’area di culto o di un cenotafio, in stretta connessione con la fondazione della polis di Festòs tra l’VIII e il VII sec. a.C.» L’umbone in bronzo ritrovato (foto sopra) costituisce la parte centrale dello scudo, che doveva essere in materiale deperibile, verosimilmente cuoio. Presenta un elemento conico centrale dotato di una lunga protuberanza e un disco esterno con una serie di fori attorno al bordo, che servivano probabilmente al fissaggio. Alla stessa funzione doveva servire l’anello bronzeo che sporge internamente, in corrispondenza della protuberanza centrale. Dell’elmo la parte meglio conservata sono le due paragnatidi (foto sopra), ossia le parti bronzee che proteggevano ciascuna delle guance scendendo fino alla mandibola. Sono decorate con elementi circolari, e dotate di forellini per il fissaggio all’elmo. Attualmente sono in fase di restauro. Le armi? In un contenitore alimentare Aggiunge Caloi: «La straordinarietà del ritrovamento di Festòs consiste nella peculiare deposizione delle armi all’interno di un contesto non funerario: sono state infatti ritrovate all’interno di un pithos, un enorme contenitore da derrate di quasi 120 cm di diametro massimo, e nascoste al di sotto di un coperchio in terracotta, a sua volta ricoperto da un grande frammento di vaso con motivi decorativi a forma di brocchette (oinoichoai) e spirali correnti. Il pithos si apriva ad est con un ingresso dotato di una enorme soglia monolitica lunga 160 cm». Pithos con deposizione sotto il coperchio Luogo di Culto È probabile che l’area dei ritrovamenti fosse dedicata al culto, ipotesi suggerita anche dalla deposizione rituale delle parti di panoplia e dalla fisionomia dell’ambiente.Anche gli oggetti ritrovati nelle immediate vicinanze al di fuori del grande pithos portano a corroborare questa ipotesi. Si tratta di due coltelli in ferro, una serie di vasi per versare (aryballoi) di dimensioni diverse, databili tra l’VIII e il VII sec. a.C., e uno scudo di piccole dimensioni in terracotta, sovradipinto in bianco. Sono oggetti che rimandano al corredo di una tomba di guerriero, ma che, in questo caso, potrebbero rappresentare le offerte votive in un’area santuariale. Palazzo di Festos – Creta Il luogo in cui è avvenuto il ritrovamento è ugualmente significativo: si trova sulle pendici sud-occidentali della collina di Kastrì, la stessa su cui nel XIX sec. a.C. fu costruito il Primo Palazzo di Festòs, e subito ad Ovest del sontuoso cortile occidentale del palazzo. Un tassello centrale in una storia millenaria Questa singolare scoperta getta luce su un periodo cruciale per il sito archeologico di Festòs, quello della fondazione della polis. Si tratta di un tassello importante per ricostruire la storia di un centro millenario: fondato nel V millennio a.C., Festòs divenne prima un palazzo minoico, alla stessa stregua di Cnosso, poi una polis greca e rimase un centro importante fino al 146 a.C., anno della sua distruzione a opera della vicina Gortina.
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